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¡Vivan las Antipodas!


Regia:Kossakovsky Victor

Cast e credits:
Fotografia e montaggio: Victor Kossakovsky; musiche: Alexander Popov; produzione: Gema Films- Lemming Film-Ma.Ja.De Filmproduktion-Producciones Aplaplac; distribuzione: Stefilm International; origine: Germania-Argentina-Olanda-Cile, 2011; durata: 100’.

Trama:Un singolare viaggio intorno al mondo: nei pochi posti del globo situati esattamente uno all'opposto dell'altro. Con un montaggio di immagini di particolare effetto, Kossakovsky affronta un argomento inusuale come quello degli antipodi, realizzando 'un poema sul mondo multipolare'. La storia è ambientata in quattro coppie di luoghi opposti sulla terra: Argentina-Cina, Cile-Russia, Hawaii-Botswana, Nuova Zelanda-Spagna. Si racconta di un pescatore solitario in un villaggio argentino e di una donna che vende pesce in una rumorosa strada di Shangai, di un guardiano del faro cileno a Capo Horn e di un ufficiale di bordo sul lago Baikal. Le loro storie sono antitetiche e simili allo stesso tempo.

Critica (1):Victor Kossakovsky ci trascina in un singolarissimo viaggio intorno al mondo: nei pochi posti del globo situati esattamente uno all’opposto dell’altro. Con un montaggio di immagini di particolare effetto, Kossakovsky affronta un argomento inusuale come quello degli antipodi, realizzando “un poema sul mondo multipolare”. La storia è ambientata in quattro coppie di luoghi opposti sulla terra: Argentina-Cina, Cile-Russia, Hawaii-Botswana, Nuova Zelanda-Spagna. Si racconta di un pescatore solitario in un villaggio argentino e di una donna che vende pesce in una rumorosa strada di Shanghai, di un guardiano del faro cileno a Capo Horn e di un ufficiale di bordo sul lago Baikal. Le loro storie sono antitetiche e simili allo stesso tempo.
Vivan las Antipodas! è anche un ritorno intelligente al film 'planetario' alla Godfrey Reggio (il documentarista statunitense autore di Koyaanisqatsi, Anima mundi e Naqoyqatsi, gli ultimi due presentati a Venezia nel 1991 e 2002), sull’enumerazione delle contraddizioni culturali e ambientali del nostro pianeta, attraverso rigorose e affascinanti dicotomie, che si sviluppano per mezzo di un montaggio particolarmente creativo di immagini documentaristiche, scandite da musiche suggestive.
“Un giorno viaggiando in Argentina – ha dichiarato Victor Kossakovsky – vidi un uomo che pescava da un piccolo ponte in un piccolo villaggio. Nella luce del tramonto, quel posto così semplice mi è sembrato il più meraviglioso al mondo. Ho pensato: cosa accadrebbe se tirassi ben più in fondo quel filo della canna da pesca, attraverso il centro della terra? Cosa avrei visto esattamente dall’altra parte? Ho controllato, e avrei trovato una delle città più popolate, movimentate e rumorose del pianeta, Shanghai. Poi ho imparato che da quando la maggior parte del pianeta è ricoperta dall’acqua, esistono solo poche terre abitate che hanno agli antipodi altre terre. Ad esempio, in tutta l’Europa solo la Spagna ha un paese agli antipodi, la Nuova Zelanda. Gli Stati Uniti hanno solo uno stato, le Hawaii, che ha agli antipodi il Botswana, a sua volta l’unico paese africano ad avere una terra agli antipodi. Abbiamo inoltre filmato nella coppia di luoghi secondo me più belli e cinegenici, il Lago Baikal e Capo Horn. Qualche volta accade che hai una buona idea per un film ma poi, quando davvero la realizzi, capisci che l’idea era migliore della realtà. In ¡Vivan las Antipodas! accade invece che gli opposti coesistano. L’idea era buona, ma cosa realmente ho trovato è qualcosa di incredibile e sorprendente”.
(dal pressbook del film)

Critica (2):Victor Kossakovsky apre il suo film (…) con una citazione dalla bibbia di Lewis Carroll: vuole che siamo appunto alice in wonderland, capaci di non sottrarci a uno scarto di prospettiva quando ci troviamo di fronte al mondo capovolto (mettendosi letteralmente a testa in giù: probabilmente lo hanno fatto molti di noi sul divano di casa, e lo fanno alcuni ragazzini nei primi film di Shyamalan). Si indovinano in Kossakovsky alcuni temi cruciali, scelti per raccontare una comunità primordiale e un enigmatico legame tra genti e terre così diverse: la fatica umana della costruzione, la sua caparbietà, il movimento, il ciclo delle generazioni, il conflitto tra libertà e solitudine, necessità utilitaristica e prossimità affettiva con l’animale da parte dell’animale uomo. In qualche modo, però, l’autore non li sviluppa, affidando solo alle immagini il compito di tracciare delle mappe immaginarie. Nelle intenzioni, ¡Vivan las Antipodas! non è fiction né documentario. Lo spirito che lo guida non è puramente artistico come nel lavoro di Godfrey Reggio, né sperimentale come Samsara, il documentario di Ron Fricke che sarà presentato a breve a Toronto; l’esito è esteticamente appagante, talvolta mozzafiato, ma lascia perplessi.
Se il regista russo cerca una misteriosa connessione in quattro coppie di paesi, diametralmente opposti sulla sfera del pianeta terra, a mancare alla sua opera, è in un certo senso una personalità ben definita: una indipendenza del film dalla straordinaria-ordinarietà della vita quotidiana dei suoi protagonisti, dall’intensità dei paesaggi di impossibile bellezza delle otto località remote che ammiriamo, sottolineate da musiche importanti. Il film funziona meglio quando all’accompagnamento orchestrale o colto, più convenzionale (le musiche sono del compositore Alexander Popov) si sostituiscono i canti di tradizione popolare o i suoni catturati dalla natura, in un gioco di rimandi tra un paese e l’altro, un esperimento sinestesico che coinvolge vista e udito: nel caos di Shangai, tra l'assedio di bici e motorini diretti al lavoro, con maiali scuoiati per passeggeri, scivolano le musiche argentine, risate e parole siberiane si insinuano in Patagonia. L’espediente del capovolgimento, che mostra lo scorrere del tempo per i paesi ai due lati opposti della terra (Argentina-Cina, Cile-Russia, Hawaii-Botswana, Spagna-Nuova Zelanda) inizialmente è di grande impatto e crea delle immagini mozzafiato: nello stesso riquadro convivono sole e luna, la lava incandescente che si addensa e diventa una dura crosta minerale alle Hawaii si trasforma nella pelle di un elefante in Botswana, o si passa dal sentiero di polvere dell’Argentina rurale alla strada a scorrimento veloce di Shangai, con una sorprendente scena di traffico ripresa “a testa in giù” , un circuito avveniristico con il cielo sotto le ruote che sembra fuggita dalle fantasie di metropoli futuribili nei cartoni Pixar.
Ma paradossalmente, i momenti migliori, gli attimi in cui i paesaggi smettono di essere splendidi quadri per diventare quasi universi paralleli, dimensioni coesistenti in più spazi, più tempi, sono quelli in cui il documentarista rientra di prepotenza e diventa cantastorie folk, affabulatore: gli incontri con le presenze umane: il gioco delle opposizioni riesce più con i sentimenti appena accennati dei protagonisti, che con la magnificenza di Gaia, anche solo a partire da un taglio di capelli sbagliato.
Con i fratelli argentini di Entre Ríos, in attesa del pedaggio da farsi pagare sul piccolo ponte che puliscono con le loro mani, un vecchio cane scalcinato, nessun mezzo di comunicazione, nemmeno la radio: quasi beckettiani, restano affacciati sulla porta della baracca offrendoci dei dialoghi a metà tra il buon senso forzoso e il codice umoristico condiviso tra due persone che si conoscono da molto tempo e trascorrono ogni ora della vita insieme in un luogo isolato (il taglio di capelli di una conoscente, le previsioni del tempo in base al canto delle rane, le donne paragonate a lavatrici “mi usano!” e a motoseghe “non si prestano”); il rapporto affettuoso e paritario che si indovina tra la madre, che vive sola sul lago, e la figlia adolescente, che le fa una visita sul lago Baikal: un luogo di bellezza ultraterrena che però deve essere un abisso di solitudine (“un’altra visita troppo breve”). Le loro risate cristalline risuonano agli antipodi, nell’aria metafisica di Capo Horn, in Patagonia, tra i cento gatti, i condor, le pecore e il cavallo bianco di un pastore cileno che vive in uno strepitoso nulla, un altro personaggio quasi fiabesco; l’uomo che vive ai piedi del vulcano Kilauea, in “un paradiso” di lava, che smarrisce il suo cane, la balena che esala l’ultimo respiro su una spiaggia della Nuova Zelanda, così mastodontica che non può essere seppellita tutta intera e va tagliata a pezzi. Quasi un gesto d'amore.
sentieriselvaggi.it

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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