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Al diavolo la morte - S'en fout la mort


Regia:Denis Claire

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Claire Denis, Jean-Paul Fargeau; fotografia. Pascal Mali; musica: Abdullah Ibrahim; montaggio: Dominique Auvray; scenografia: JeanJacques Caziot; costumi: Elisabeth Tavernier; suono: Jean-Paul Mugel, Alix Comte; interpreti: Isaach de Bankolé (Dah), Alex Descas (Jocelyn), Jean-Claude Brialy (Pierre Ardennes), Solveig Dommartin (Toni) Christopher Buchholz (Michel), Gilbert Felmar (Ti Emile), Daniel Bellus (Henri), François Oloa Biloa (François), Pipo Sarguera (Pipo), Christa Lang madre di Toni), Alain Banicles (il commissario); produzione: Philippe Carcassonne, per Cm mide/Les Films du Mindif/ Caméra e/ NEF Filmproduktion/La Sept; distribuzione: MIKADO; durata: 93'.

Trama:Dah, originario del Benin, e Jocelyn della Martinica, si accordano con Pierre Ardennes, un losco gestore di night e ristoranti nella periferia parigina, per allestire clandestinamente una serie di incontri tra galli da combattimento che dovrebbe fruttare a tutti. Dalla parte degli uni un'amicizia forte della solidarietà dei dominati, dalla parte dell'altro sicurezze coloniali e una donna, Toni, oggetto di un desiderio che manda al diavolo la morte.


Critica (1):Ad un anno quasi da Venezia '90, esce il secondo lungometraggio a soggetto di Claire Denis, passato allora pressoché inosservato, destinato oggi, forse, a qualche attenzione in più per l'affermarsi del "filone
esotico", della "serie nera", tra cinema africano e neroamericano. Nel film della regista francese, che non è nuova ad occuparsi di gente di colore e di culture "diverse" (Chocolat, il suo esordio, era, in chiave autobiografica, un delicato atto di dolore per la gente dell'Africa coloniale), i protagonisti sono infatti due amici neri di pelle, in lotta con la vita nella giungla dei bianchi. Potrebbe già sembrare tutto ovvio: lo scontro di due mondi, la subalternità oggettiva dei colored, la prepotenza del denaro, l'emarginazione, il disagio, la sconfitta.
E invece il film possiede più di una ragione per non risultare scontato. Innanzitutto i galli (S'en fout la mort è il nome di uno dei campioni): allenamenti come riti, preparativi alchimistici per ottenere il cibo perfetto, operazioni accurate per spuntarne il piumaggio, combattimenti feroci con o senza speroni sono seguiti con occhio quasi documentario. Animali e uomini indagati con rigore e distacco, ma inseguiti con curiosità da una macchina da presa onnipresente dentro gli spazi-gabbie che li contengono e li schiacciano.
Uomini e galli da combattimento. Segregati, nascosti, relegati in spazi angusti, uniti dal filo doppio del denaro ricavato dalle scommesse, ma anche dalla passione antica, dal vissuto lontano (Jocelyn fin da bambino seguiva il nonno nell'addestramento degli animali da combattimento, laggiù nelle Antille). Aggressivi, indomiti, coraggiosi, pronti ad uccidere e a farsi uccidere: il film è anche la lenta metamorfosi di Jocelyn da professionista dei galli ad animale da combattimento egli stesso, la cronaca di una morte annunciata nei suoi occhi assenti, fieri e "dannati", di una simbiosi sempre più totale. Allusivi, fallici (im)potenti: simboli di una virilità avvilita e repressa, sempre pronta tuttavia ad esplodere e ad attaccare (Jocelyn ubriaco libera dalle gabbie gli animali e steso al suolo tiene, sopraffatto, fra le gambe il gallo bianco che egli chiama Toni, come la donna di Ardennes di cui non può più fare a meno).
E' già si fa strada il tema del desiderio, e in particolare dell'attrazione irresistibile tra bianchi e neri. Già presente in Chocolat, un film intriso di desiderio contrastato, negato dalla "differenza" (il servo Protée - lo
stesso Isaach de Bankolé che interpreta Dah l'africano - era l'oggetto del desiderio della donna bianca-la piccola France/li madre), qui esso si dispiega senza interruzione dall'inizio alla fine, si manifesta nel. l'attenzione insistita sugli sguardi, sui gesti, sui corpi, per esplodere con violenza in alcuni momenti ad alta densità erotica (i ballo di Jocelyn con la ragazza bianca a night, dove sembra di sentire l'appesantirsi del respiro di entrambi fino all'affanno Jocelyn nell'arena che esibisce il gallo bianco di fronte ad un pubblico elettrizzato, disposto in cerchio, e che avanza con movimento avvolgente in contemporanea all'incidere di Toni che lo aggira alle spalle: splendido esempio di abbraccio a distanza). E ancora, come potrebbe risultare più desiderabile e più lontana Toni che balla irradiata dalla luce dei riflettori, che si avvicina sinuosa e sfuggente, che distrae i combattenti, che sussurra inviti alla fuga? Come potrebbero essere più desiderabili e lontani Dah e Jocelyn, spesso visti di spalle, suggeriti di scorcio, afferrati in sguardi mai diretti o svelati compiutamente, chiusi nel loro desiderio inappagato?
Film di gesti, di corpi, di sguardi S'en fout la mort. Le parole rarissime, il racconto portato avanti più che dai dialoghi, da immagini quasi senza stacco che si dissolvono in nero e dalla narrazione, autonoma dalla macchina da presa, di Dah che parla anche per l'amico, che interpreta, che riferisce.
Anche la storia dell'amicizia tra i protagonisti è resa con tratti essenziali. Qualche sguardo in tralice, qualche zuffa, poche frasi ("Io sono negro e il mio amico è dello stesso colore"; "Noi due facciamo una bella coppia"), alcuni rimandi al passato alle Antille di Jocelyn, eppure quanta forza ed intensità nella sequenza del prefinale, quando Dah raccoglie il misero corpo dell'amico accoltellato a morte sull'arena come i suoi galli, lo ripulisce, lo veste e lo accompagna traducendo in parole quello che "gli occhi vuoti di Jocelyn mai gli mostreranno" (la casa dell'infanzia, la madre che danza, i fratelli, il nonno, l'albero del pane, i banani, il profumo del cibo). Cos'altro rimane? Il disagio dei sopravvissuti di mondi dalle mille ferite che si fa malattia quando il rischio è di diventare come i bianchi, l'amicizia come antidoto alla miseria, come risposta alla cinica potenza del denaro, la fuga come salvezza.
Dicevamo delle ragioni che rendono S'en fout la mort un film da ricordare: lo spazio scenico, ad esempio. Primi o primissimi piani di uomini nascosti al nostro sguardo e seguiti dalla steady -cam, inquadrature oblique, prospettive sfuggenti verso l'alto e verso il basso per moltiplicare i piani e approfondire il campo dentro i ristretti interni adombrati da una gamma di colori densi e cupi che vanno dal marrone, al rosso, al verde scuro, al nero. Fuori, la squallida banlieu parigina irta di superstrade, svincoli, passerelle, edifici e segnali del dopo-che-ci-gettammo-su petrolio-ferro-e-ammoniaca.
E a dieci anni dalla morte di Bob Marley, cantore dell'utopia della redenzione nera, da non dimenticare la sua "Buffalo Soldier" che accompagna i titoli di testa e al cui ritmo di trascinante reggae, forse, si compie nell'inquadratura finale la fuga (tra le nuvole riflesse sul finestrino del taxi che corre via) di Dah verso l'emancipazione dalla schiavitù, questa volta della mente.

Daniela Zanolin, Segno Cinema n. 50 Agosto 1991

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