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Poveri, ma belli


Regia:Risi Dino

Cast e credits:
Soggetto: Dino Risi; sceneggiatura: Dino Risi, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; fotografia: Tonino Delli Colli; musiche: Piero Piccioni, Giorgio Fabor; montaggio: Mario Serandrei; scenografia: Piero Filippone; arredamento: Giorgio Giovannini; costumi: Beni Montresor; interpreti: Marisa Allasio (Giovanna), Maurizio Arena (Romolo), Renato Salvatori (Salvatore), Memmo Carotenuto (tranviere), Alessandra Panaro (Anna Maria), Mario Carotenuto (Zio Mario), Lorella De Luca (Marisa), Virgilio Riento (padre di Giovanna), Ettore Manni (Ugo), Gildo Bocci (il portinaio); produzione: Silvio Clementelli per Titanus; distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1956; durata: 102'.

Trama:In un caseggiato di uno dei più antichi rioni di Roma vivono due giovani bulli, Romolo e Salvatore, vanagloriosi e spacconi, poco amanti del lavoro, con l'animo intento ai facili amori. Romolo fa il bagnino in uno stabilimento balneare sul Tevere e Salvatore è commesso in un negozio di dischi. I due sono amici intimi ed anche le loro famiglie sono tra loro legate. Accade che non lontano dalla loro casa apre bottega un sarto che ha una bella figliola, Giovanna. I due giovani si mettono a fare la corte alla ragazza, che lavora nella bottega paterna e non disprezza i loro omaggi. I due sono molto diversi di temperamento: Romolo è gioviale e scherzoso, mentre Salvatore ha un carattere un po' aspro ed è geloso. Ciascuno dei due si crede il prescelto, mentre in realtà Giovanna è in dubbio e non sa decidersi. Alla fine risolve di promettersi a Salvatore, ma quando Romolo finge di uccidersi per il dispiacere di perderla, le cose tornano al punto di prima. E così continuerebbero per un tempo indefinito se Giovanna non incontrasse un precedente fidanzato, del quale è ancora innamorata. Romolo e Salvatore restano delusi, ma non tardano a consolarsi: ciascuno dei due supera la crisi corteggiando la sorella dell'altro.

Critica (1):Il modello Titanus perfezionato: sessantadue milioni di costo, per incassi che raggiungono rapidamente una cifra dieci volte superiore. Ad abbattere i costi collabora la scelta, rivoluzionaria, di comporre un cast di giovanissimi debuttanti. Non, come secondo la prima ipotesi Ponti che avrebbe affiancato a Loren la coppia Chiari-Tognazzi, ma due giovanotti sconosciuti e muscolosi, il romano Maurizio Arena e il toscano Renato Salvatori; la bella si chiama Marisa Allasio, una sensazionale scoperta che provocherà la nascita di un esercito di fans destinato ad ingrossarsi per tutta la seconda metà degli anni Cinquanta.
Il modello Titanus perfezionato anche nel senso che si precisa l'adattamento delle istanze neorealiste ai tempi che stanno mutando. Comincia a farsi sentire il «benessere», dice Risi, e questo clima e questi personaggi pieni di «ottimismo» rappresentano e incarnano la tendenza a vedere, o meglio il desiderio di vedere la vita tinta di rosa: una vita «facile», molto più facile di quanto non sia in realtà, in generale e per loro. Che sono giovani e belli e pieni di vita, ma pur sempre poveri. E la loro ricchezza è la speranza o l'illusione, l'aspirazione a qualcosa che verrà e che forse non avranno mai. Ma l'età e l'amore li lasciano sognare, e l'Italia della ricostruzione democristiana ha tutto l'interesse che essi occupino così il loro tempo e le loro energie, ed è disposta a tollerare qualche tentazione un po' osé e qualche marachella purché scaccino i pensieri troppo critici verso il regime di monopolio culturale-ideologico e non richiamino l'attenzione su tutto quello che non va e meriterebbe di essere corretto nella società e nel suo modello di sviluppo.
La struttura originaria dell'idea risale allo stesso Risi, poi rielaborata in chiave «più gradevole», astratta, divertente ed evasiva, secondo quanto testimoniato dal regista («c'era più scavo sui caratteri, più malinconia»), dagli sceneggiatori Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa - due letterati prestati al cinema che avevano appena scritto secondo un gusto simile il film Gli innamorati per Mauro Bolognini - i quali continueranno a formare con Risi una squadra fissa per tutto il periodo Titanus. Voleva raccontare, nella cornice piuttosto astratta di una città d'animo borgataro ma affacciata su piazza Navona – una Roma popolaresca, goliardica e di buoni sentimenti, un po' di fantasia, che in buona parte già non esisteva più – la storiellina condominiale di due fratelli e due sorelle (Alessandra Panaro e Lorella De Luca) le quali sono innamorate l'una del fratello dell'altra. Ma i giovanotti le trattano da bambine, sono troppo impegnati a corteggiare la più smaliziata Giovanna. Tra chiacchiere da un balcone all'altro, scherzi e patetiche prove di dongiovannismo che hanno per teatro la bellezza turistica della famosa piazza, e ostentazioni atletiche sul Tevere, Romolo e Salvatore procedono inesorabilmente verso un destino chiaramente segnato: il fidanzamento con le reciproche sorelle: Giovanna è stata solo un capriccio o una fugace illusione, la sua sorte di donna più matura la condurrà altrove.
Un linguaggio, un romanesco dalle coloriture rigidamente purgate, che a sentirlo oggi pare archeologia. Un contentarsi di ammiccamenti sessuali più che castigati e allusivi, che pare incredibile a giudicare dalla successiva – ma non di moltissimo – escalation dell'esplicito. L'idea che il personaggio di Giovanna dovesse rappresentare la soglia consentita di rappresentazione del peccato, tentazione comunque doverosamente respinta, fa morire dal ridere. Eppure questa era l'ideologia di un film cui erano tutt'altro che estranee le preoccupazioni ideologiche, a dispetto del suo programmatico disimpegno, proprio perché confezionato per diventare un cardine della cultura di massa di quegli anni di conformismo e grigiore. Considerazioni che nulla tolgono alla sfida narrativa e produttiva brillantissimamente vinta.
C'è una testimonianza di Risi, un'intervista dell'86 resa al «Corriere della Sera», in cui dà dello spirito del film, visto retrospettivamente, un'interpretazione per certi versi toccante. Egli esalta con un velo di tristezza la «genuinità» di questi ragazzi, simboli di una trasformazione sociale - verso la «classe media» degli anni Sessanta - carica di vitalità e di promesse; mentre poi la «spinta del consumismo, delle ribellioni sfociate nella violenza, della droga che ha corroso alla base il senso sanamente popolare dei quartieri, della vita stessa» ha condotto ai «prodotti crudeli di una società competitiva, inquinata, che ha davvero poco della vignetta ottimista di poveri, ma belli non certo insaziabili e ossessionati dai soldi».
Due voci critiche, che si prodigano entrambe a cercare argomentazioni, rispettivamente, in senso favorevole e contrario. Gian Luigi Rondi tesse l'elogio del film definendolo «lieto e vitale, autentico e piacevole». Entusiasta del «neorealismo rosa» egli si compiace che il film di Risi erediti dalle precedenti prove di questo nuovo filone «allegria, esuberanza, cordialità, spontaneità, ilarità, freschezza». E si compiace che la «povertà» non sia «miseria» (come quella dei film di De Sica e Zavattini? Ma questa è una forzatura maliziosa) ed è pronto a concedere all'amore, cui trattandosi di ragazzi - anzi di «bulli e macchiette tipici di Roma» - è permesso qualche eccesso di «spavalderia» e di «esuberanza», questa capacità di riscatto (e di opportuna censura dei famigerati panni sporchi? Ma è anche questa un'altra forzatura maliziosa). Rondi è entusiasta della «comprensione affettuosa, della simpatia e della cordialità» con cui Risi accompagna i personaggi, e non smette più di complimentarsi per il «bozzetto lietissimo di vita giovanile» che il regista ha saputo trarne. Se è comprensivo verso le smargiassate maschili, il critico concede infine anche alla protagonista femminile, «così spregiudicata, libera, apparentemente addirittura sfrontata», l'attenuante di rivelarsi sostanzialmente una brava ragazza pronta «finalmente a sposarsi il marito che fa per lei». Conclude Rondi: «Tutto è lieve e forse persino fragile, ma tutto è acutamente congegnato... Ne risulta un coro spigliato», ed ha perfettamente ragione.
All'opposto, se la combinazione così saggiamente (o furbescamente) equilibrata di eros più umorismo soddisfa il critico cattolico e filo-dc, le stesse ragioni fanno gridare al perverso disegno restauratore il campione della critica marxista Guido Aristarco. Il quale si avventa contro «l'involuzione del neorealismo» perpetrato da quello stesso cinema che a Rondi piace – da Castellani a Comencini a Franciolini a Bolognini a Zurlini – fino alla degenerazione in «neoerotismo». Tutt'altro che lieto di salutare l'avvento di questo cinema «garbato, divertente, sbarazzino» (oggi avremmo forse detto «carino»), il critico trova che sia stata tradita l'opportunità di fare del basso costo un'occasione di allargamento degli spazi di libertà creativa, che tradito risulti inoltre il riferimento letterario a Pratolini o Brancati la cui critica di costume risulta degradata a «rotocalco» o a «vignetta». E non ha infine difficoltà a scagliarsi contro tale modello definendolo «anticulturale e antidemocratico», erede dei detestati «telefoni bianchi» e in quanto tale, senza mezzi termini, «reazionario», in quanto «diversivo».
Uno scontro davvero interessante, almeno quanto la rilettura crepuscolare (la nostalgia del buonumore, la commozione – senile? – per un «come eravamo» che forse così naif e «genuino», in realtà, era stato solo nella fantasia) fornita a distanza di anni dallo stesso Risi. Un insieme, comunque, dal quale ben emerge l'importanza che – in ogni caso – era destinato ad assumere ed anzi ebbe vistosamente da subito questo piccolo film scacciapensieri nell'evoluzione (o involuzione) del cinema italiano e della nascente cultura di massa del nostro paese.
Paolo D’Agostini, Dino Risi, il Castoro Cinema, 1-2/1995

Critica (2):Poveri ma belli era un po' il neorealismo adattato alle esigenze della nuova società; in Italia cominciava a farsi sentire il "benessere". Il neorealismo, con tutta la sua affascinante tristezza, non era più sufficiente. La gente non voleva più vedersi fotografata nella miseria della guerra o del dopoguerra. La società cambiava, il tessuto sociale stava cambiando, con il modo di vivere. Nel suo piccolo Poveri ma belli rappresentava questo passaggio da un modo di vita ad un altro. Poi, naturalmente, sono state dette un mucchio di cose contro questo film, che ha dietro di sé tutta una corte di imitatori, di imitazioni, che ha rappresentato un modo facile di vedere la vita. Nel mio film, erano patetici questi giovani che cercavano _ di vivere in una società nella quale non erano ancora abituati a vivere. Ma la loro vitalità, il loro ottimismo tipico italiano ha poi funzionato. E cosa il pubblico si è riconosciuto volentieri in questi piccoli sfrontati. Non so se in fin dei conti ha fatto tanto male: da principio tutti ne hanno parlato bene, e dopo tutti l'hanno attaccato... Naturalmente lo sfruttamento del successo non era obbligatorio, ma il produttore non può lasciarsi sfuggire l'occasione di fare il pieno una seconda volta, no? Il primo è andato bene, il secondo anche, il terzo un po' meno, come succede sempre con i film di grosso successo. Eravamo allora nell'anno della crisi, perché ogni sette anni nel cinema italiano c'è una crisi, e allora i film costavano troppo cari, e la parola d'ordine era di tentare di fare dei film di basso costo: facciamo un film senza attori, cerchiamo la formula piacevole per arrivare a tutti. E così si è fatto un film che è costato, credo, sessanta milioni e ha incassato un miliardo e mezzo. Ha salvato la Titanus che attraversava un brutto momento, le ha permesso di programmare poi una serie di film di giovani registi, impegnati, artistici, opere prime, ecc... che l'hanno rimessa nei guai, tutti con titoli iettatori: Giorno per giorno disperatamente, I giorni contati, Il disordine... tutti titoli che ad un napoletano come Lombardo avrebbero dovuto mettergli la pulce nell'orecchio! Compreso Il bidone, altro titolo piuttosto allarmante, no? Festa Campanile e Franciosa avevano già fatto un bel film con Manfredi per Bolognini, Gli innamorati, del 1955. La sceneggiatura di Poveri ma belli l'avevo scritta da solo, ed era diversa dal film, forse più bella: mi ricordo che la feci leggere a Zurlini, che mi disse: «Peccato che non l'hai girata!» C'era più scavo sui caratteri, più malinconia. Con Festa Campanile e Franciosa ci siamo divertiti a scriverla pensando a degli scherzi, cercando di tirare fuori tutto il possibile da questo gruppo di giovani che infondo non avevano molto di realistico, restavano un po' per aria. Era un film fatto per divertire, per divenirci. Conservava la mia storia - due fratelli e due sorelle innamorati gli uni della altre - e i loro contrasti, a Trastevere, ma rendeva più gradevole la mia idea iniziale. Festa Campanile e Franciosa erano ben assortiti e andavano bene per un certo genere di film. Poi, come succede con le squadre di calcio, che se vincono non le si cambia, abbiamo vinto due o tre match e abbiamo continuato.
Dino Risi, Positif n. 142 sett. 1972

Critica (3):[...] Il film di Dino Risi Poveri ma belli é piaciuto per due ragioni, una artistica ed una morale. Come si sa la nostra produzione di film é in gran travaglio a causa degli sperperi eccessivi delle dive più in voga, e per la matta speculazione di gente di poco cervello introdottasi nel campo cinematografico con la speranza di pescare nel torbido e di far quattrini alla svelta. Poveri ma belli ha rotto il cerchio degli interessi creati: é piaciuto al pubblico pur servendosi di attori quasi esordienti ed é costato appena 62 milioni. È la buona strada, non c'é che da continuare per cogliere più abbondanti frutti nei prossimi mesi. Dal punto di vista del gusto, il film di Risi appartiene a quel gruppo di opere che sembrano uscite da certa letteratura contemporanea, da "Racconti romani" di Moravia e da "Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini. La commedia degli equivoci e dell'età ingrata narrata da Risi si snoda, lieta e varia, attraverso episodi di buona lega. Peccato che, ogni tanto, l'invenzione diventi tenue, impalpabile, e che soprattutto il film sia troppo lungo. Almeno due volte, verso l'epilogo si ha l'impressione che Poveri ma belli stia per finire. Invece, dopo un sonnellino, il racconto riprende fresco e leggero. Come sempre nei film di Risi la parte migliore é quella dove sono tutti in scena, dove tutti si muovono, ballando o raccontando qualcosa. La Roma popolare, che ha accenti inconfondibili, é vista dal regista milanese con occhi limpidi e perciò appare come se fosse nuova [...]
Pietro Bianchi, L'illustrazione italiana mar. 1957

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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