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Trust - Fidati - Trust

Regia:Hartley Hal
Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura: Hal Hartley; fotografia: Michael Spiller; musiche: Phil Reed; montaggio: Nick Gomez; interpreti: Martin Donovan (Matthew Slaughter), Adrienne Shelly (Maria Coughlin), Merrit Nelson (Jean Coughlin), Edie Falco (Peg Coughlin), Gary Sauer (Anthony), M.C. Bailey (Bruce), Suzanne Costollos (Rachel), Jeff Howards (Robert), Marko Hunt (John Coughlin), Matt Malloy (Ed), Gary Sauer (Anthony); produzione: Bruce Weiss; origine: USA, 1990; durata: 94'.
Critica (1):«Mi vergogno di essere giovane, mi vergogno di essere stupida», scrive la diciassettenne Maria sul suo piccolo diario di teenagers. Mai la disperazione di una ‘condizione' era stata mostrata con tanta nettezza e semplicità. Figli dell'era Reagan (così come Jimmy Dean e company erano figli dell' era Eisenhower) i due ragazzi protagonisti di Trust assaporano con rabbia i drammi quotidiani dell'essere giovani oggi. Ma non siamo di fronte ad illusorie rappresentazioni, carriere, successo, soldi eccetera, bensì all'importanza di una vita diversa, migliore, più ‘vera', straordinariamente attenta ai particolari ‘irrilevanti' della quotidianità. Ma tutto questo è reso da Hal Hartley senza la pedissequa saggezza di un cineasta da confezione, anzi con una visione della cinematograficità delle cose oggetti persone, animata e leggiadra.
Cinema dark-rosa, commedia romantica, melò disperato ma non troppo quello di Hartley (…) per chi al cinema non cerca più le trasgressioni superficiali e di corteccia da trash-tv, quella che ormai non da più fastidio a nessuno, anzi è accettata con divertimento nei ‘salotti buoni'; invece Trust è fatto per palati post-televisivi, per chi pensa - come Matthew, il protagonista - che la tv sia 'cancerogena', per chi dallo schermo ha bisogno di ricevere pezzi di emozioni, brandelli di esistenza allo stato puro, anarchicamente liofilizzati in siparietti incantevoli, un po' alla Truffaut (l'ironia dolce) un po' alla Godard (lo sguardo ‘asimmetrico', asinfonico, l'antinarratività che diviene incredibilmente storia ‘pura').
Segnatevi questi nomi, meriterebbero un grande futuro: Adrienne Shelley è la dolce buffa e disperata ragazza col bambino dentro di sé (cosa farne visto che il vero padre sviene alla notizia e il potenziale nuovo padre per garantire un futuro deve ridursi a `oggetto' e sopportare luoghi di lavoro esasperanti?); Martin Donovan che è Matthew sa conciliare con ironia e uno sguardo davvero fulminante la duplice tendenza alla violenza pura e anarchica con un'incantevole tenerezza, una capacità di capire le cose ‘di pelle', sorta di intuito ‘intelligente', istintivo e discernente allo stesso tempo. Davvero due attori da tener d'occhio. Come pure la fotografia di Mark Stiller (collaboratore fisso del regista) con quei suoi toni ora tenui ora più forti, ora sgranata, luminosa, quasi 'europea,. Ma soprattutto questo trentaduenne (classe 1959) regista di Long Island, Hal Hartley. Con alle spalle una strana commistione di studi di pittura, letteratura rinascimentale e filosofia, ha cominciato a fare film dal 1984, ed ha realizzato finora sei cortometraggi e un mediometraggio (Surviving Desire) visti a Rotterdam proprio quest'anno, e un lungometraggio d'esordio inedito da noi intitolato The Unbelievable Truth. (…)
Trust è costruito su tutta una serie di piccole storie che si intrecciano, quasi episodi autonomi che però messi assieme danno al film un'inaspettata forza narrativa. E poi attimi ricorrenti, quasi disvelamenti ironico-metaforici delle condizioni esistenziali dei personaggi della storia. Proprio nella caratterizzazione sta uno dei punti forza del film. Che si apre con Maria che si mette il rossetto in primo piano, discute con il padre, gli chiede dei soldi e gli annuncia di essere incinta, fino all'offesa del padre, allo schiaffo di lei e allo svenimento ‘definitivo' del capofamiglia. E questa degli uomini che svengono sembra una caratteristica peculiare della pellicola. Dopo questo svenimento-morte iniziale del padre svenirà il ragazzo di Maria alla notizia che aspetta un bambino, svenirà il signore col cappello, marito della donna che ha rapito un bambino e svenirà Matthew per il troppo alcool bevuto in compagnia della madre di Maria. Una volta, ma ormai è storia di un altro secolo, erano le donne a svenire, oggi i ruoli sono invertiti e gli uomini o muoiono, o svengono o fanno a botte. I genitori dei due ragazzi sono dei begli esempi di personaggi anni '90: il padre di Matthew continuamente duro e provocatorio con il figlio, al punto da fargli pulire tre volte di seguito il bagno, di colpirlo con un pugno nello stomaco, quasi a rimproverargli per tutta la vita della morte della moglie all'atto della sua nascita (e con Matthew, altrove violento, rissoso e temibile, che in casa diviene paziente e accondiscendente); la madre di Maria, che prima la caccia di casa per averle ‘ucciso' il marito (ed è significativo come entrambi i ragazzi abbiano in qualche modo anche se certo involontariamente ucciso un genitore), e poi la riprende con sé per manifestargli quotidianamente tutto il suo rancore (salvo confessare poi a Matthew che in realtà del marito non è che gliene importasse più di tanto). E poi ancora la sorella di Maria, divorziata senza la possibilità di tenersi i due figli, il negoziante di liquori che ‘fa il porco' con Maria... e ne ricava una sigaretta nell'occhio, il caporeparto di Matthew, che nella bellissima scena iniziale viene messo con la testa in una pressa, la coppia ‘normale' che rapisce il bambino, squallidamente rinchiusa in un'esistenza middle class che non ha più alcun orizzonte, né vanità, né speranza. Insomma personaggi che sono tracce, frammenti di storie anch'essi, pronti ad esplodere da un momento all'altro, come la granata che Matthew porta sempre con sé, ricordo della guerra di Corea del padre. (…)
Ma la bellezza del film sta tutta in un ostile disincantato, ironico e antirealistico, con quei carrelli dolcissimi che vanno quasi ad appo - giarsi sui volti, sugli oggetti, sule situazioni. La drammaticità delle situazioni è sempre attenuata da uno spirito caustico esemplare, quasi da commedia dell'assurdo, a volte davvero alla Nanni Moretti. Ma la cosa più incredibile sono i dialoghi, secchi, mai sovrapposti, quasi brani frammenti di discorsi solitari.
Nel loro intersecarsi senza sovrapporsi, rimandano ad una sorta di ‘dialogo in diretta' tra utenti videotelefonici (e chi ha usato almeno una volta il videotel sa di cosa stiamo parlando). Botta e risposta, consecutivamente e senza interruzione, quasi alla ricerca della frase più ‘giusta', tagliente, definitiva. Eppure dialoghi mai prevedibili, spesso appunto caustici ma mai volgari, sempre e solo completamente ‘out', davvero fuori dalle aspettative, dai dialoghi cui siamo ormai abituati. (…)
Federico Chiacchiari, Cineforum n. 313, aprile 1992
Critica (2):Profonda provincia americana, periferia dell'impero, un mondo dove l'omologazione e il conformismo sono il pane quotidiano. La diciassettenne Maria è incinta del suo ragazzo, un giocatore di football tutto muscoli e niente cervello. Quando comunica la notizia ai suoi, il papà muore d'infarto, la mamma minaccia vendetta. Matthew lavora in una fabbrica di computer, è un piccolo genio dell'elettronica, ma anche un impegato insubordinato, incapace di di sottomettersi ai rigidi meccanismi di produzione. Vive in casa del padre dominatore con il quale intrattiene un violento rapporto sadomasochista e che lo costringe a pulire il bagno tre volte al dì. Gira sempre con una bomba a mano in tasca, caso mai decidesse (come medita da tempo) di suicidarsi. Il ragazzo e la ragazza s'incontrano per caso, simpatizzano, lui ospita lei, lei ospita lui. Sradicati, incoerenti, emarginati, incompresi, malconci, malinconici, serissimi, incapaci di afferrare l'esistenza, i due – prigionieri di se stessi e vittime di una società ingrata – scoprono che rispetto, ammirazione e fiducia equivalgono all'amore e probabilmente significano la loro salvezza.
Egoisticamente i genitori si oppongono all'unione. Matthew torna nella fabbrica dalla quale si era nel frattempo licenziato, per mantenere la futura famiglia e impegnarsi a fondo. Maria abortisce. La situazione precipita. Non c'è pace dove regna la soffocante atmosfera di Twin Peaks.
Piccolo, indipendentissimo film americano Trust s'ispira a Godard e a Cassavetes, tesse una rete narrativa quasi "brechtiana", si dispone politicamente su posizioni radicali e vagamente anti-capitalistiche, istiga al sabotaggio morale. E poi: dialoghi "ideologici" ma permeati di feudiani sensi di colpa, una instabilità caratteriale dei personaggi metaforizzata dal loro frequente "cadere per terra", non si muore d'infarto ma di disgusto", manifestazioni antiabortistiche, ambienti proletari, catene di montaggio manipolate dall'industria dominante. Il film – duro, acerbo, stizzoso – non è al livello di Sesso, bugie e videotapes, ma si pone come testimonianza cinica di ciò che significa oggi cinema militante, povero e "off-off" negli Stati Uniti. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
Fabio Bo, Viviilcinema, n. 38-39, gennaio-febbraio, 1992
Critica (3):
Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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