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Cielo può attendere (Il) - Heaven Can Wait


Regia:Lubitsch Ernst

Cast e credits:
Soggetto: dal testo teatrale "Birthday" di Leslie Bush-Fekete; sceneggiatura: Samson Raphaelson; fotografia: Edward Cronjager; musiche: Alfred Newman; montaggio: Dorothy Spencer; scenografia: James Basevi, Leland Fuller; arredamento: Thomas Little, Walter M. Scott; costumi: Rene Hubert (René Hubert); effetti: Fred Sersen; interpreti: Gene Tierney (Martha), Don Ameche (Henry Van Cleve), Charles Coburn (Hugo Van Cleve), Marjorie Main (Sig.ra Strabel), Laird Cregar (Sua Eccellenza), Spring Byington (Bertha Van Cleve), Allyn Joslyn (Albert Van Cleve), Eugene Pallette (E.F. Strable), Signe Hasso (Mademoiselle), Louis Calhern (Randolph Van Cleve), Helene Reynolds (Peggy Nash), Aubrey Mather (James), Michael Ames (Jack Van Cleve); produzione: Ernst Lubitsch Per Fox Film Corporation; distribuzione: Lab 80 Film; origine: Usa, 1943; durata: 112'.
Riedizione 2016

Trama:Alla sua morte, Henry Van Cleve si ritrova a dover tirare le somme della sua vita dinanzi a Mefistofele. Nato in una famiglia ricca, riceve sin da piccolo molteplici attenzioni e i genitori fanno a gara per viziarlo. A quindici anni, una giovane cameriera francese lo inizia all'amore, trasformandolo in un viveur senza remore, la disperazione dei suoi genitori. A ventisei anni, l'incontro con Martha, la promessa sposa di suo cugino, cambia la sua esistenza. Innamoratosi fulmineamente, la convince a rinunciare a un matrimonio infelice per sposare lui. Marito e moglie vivono un'esistenza felice, amandosi teneramente, fino alla morte prematura di Martha. A quel punto, vedovo e cinquantenne, Henry riprende la vita dissoluta dell'adolescenza, fino a quando, inchiodato a letto, muore tra le braccia di una splendida infermiera. Alla fine del racconto, neanche il saggio Mefistofele sa se ad Henry spetta l'inferno o il paradiso…

Critica (1):Il film è del 1943 ed Ernst Lubitsch avrebbe realizzato ancora tre film, ma con Heaven Can Wait dirige la sua opera più malinconica dal sapore di un addio. Se la forma della commedia ricopre fastosamente il suo contenuto, non è difficile accorgersi di come questo film costituisca qualcosa di più di un racconto di un libertino e qualcosa di diverso da una divagazione morale del proprio autore. Per queste ragioni e, paradossalmente, proprio per il taglio divertito e divertente che lo accompagna, il film vive di quella tormentata presenza del ricordo che diventa struggente proprio quando vi è la certezza dell’avere carpito il momento e che si scioglie da quell’inquietudine solo quando il definitivo addio si è ormai consumato.
Film di sublime leggerezza e autentico esempio di fattura ricca del leggendario lubitschiano “tocco”, esempio di un cinema che è scomparso, elegante, sobrio, accattivante, cinico e romantico, un cinema che solo i grandi pessimisti tedeschi di Hollywood ci hanno saputo servire. Il cielo può attendere è nel contempo opera di impianto classico, derivato dalla migliore tradizione della commedia americana e del romanzo europeo, materia dominata con magistrale orchestrazione e partitura dal suo grandissimo autore, e opera moderna che, sfidando il comune sentire, mette in discussione la coscienza stravolgendo la corrente opinione che riconosce solo nel salvifico perbenismo a tutto tondo la soluzione ad ogni forma di seduzione frutto di umana curiosità. La lunga storia terrena di Henry Van Cleve (un abilissimo Don Ameche), narrata al diavolone che lo accoglie dopo la sua dipartita, è un esempio di accettabile cialtroneria, ma, come sarà dimostrato, anche di una onestà di fondo dei sentimenti nei confronti della donna che lo ha accompagnato per tutta la vita. È dura da digerire, ma la vita di Henry si divide tra questi due canoni antitetici che rendono il personaggio umanissimo e vero e proprio uomo senza qualità afflitto da inguaribile dongiovannismo fino in fondo alla propria vita, spalleggiato in gioventù da quell’inguaribile epicureo del nonno. E così Il cielo può attendere diventa l’ulteriore invocazione di umanità che tutto il film suggerisce attraverso una visione non soltanto laicizzante, quanto piuttosto carica di una tensione verso la perfezione che esiste finché esiste la vita dominata da questa umana imperfezione dalla quale non si può e non si vuole guarire.
Tonino De Pace, sentieriselvaggi.it, 26/5/2016

Critica (2):Qui Lubitsch si cimenta per la prima volta col colore e il risultato è dei più delicati, anche se qualcuno preferisce le luminescenze e i chiaroscuri dei suoi film in bianco e nero. Si è anche detto che questo per lui sia stato un film in qualche modo autobiografico, e lo si è messo in relazione con i suoi due divorzi. Ma, se la separazione dei protagonisti e l'esame che essi fanno della vita passata può sicuramente contenere degli elementi autobiografici per il regista, è anche vero che ci troviamo di fronte ad uno dei suoi ultimi film, e, in questa luce, esso ci appare un po' come un "testamento" in cúi l'autore vuole come liberarsi dell'ossessione che lo ha perseguitato per tutta la vita, e cioè l'amore per le donne. Il film è infatti la lunga confessione di un dongiovanni che, alla fine dei suoi giorni, non può far a meno di continuare a desiderare le donne, protestando persino perchè l'infermiera che lo cura non è abbastanza avvenente. Il finale del film, soppresso in Italia dalla censura, mostrava addirittura il protagonista che, dopo la morte, rifiuta il perdono che gli apre le porte del paradiso per seguire un'ultima bella donna che ha preso l'ascensore per l'inferno.
Di qui il significato del titolo I1 paradiso può attendere.
Lubitsch si giovò inoltre, per il personaggio di Martha, della squisita presenza di Gene Tierney, la cui docezza, scrive Guido Fink, "ha qualcosa di inflessibile e di duraturo, a differenza del disordine e dell'effimero in cui vive il marito". Ma, al di là della fermezza dovuta al suo ruolo di moglie, il personaggio di Martha non è molto diverso come dignità dalle molte altre figure femminili che popolano i ricordi del marito. In questo Lubitsch è simile solo a Pabst, tra i registi tedeschi dell'epoca, in quanto entrambi ebbero un'idea della donna sempre positiva, anche quando trattavano personaggi di prostitute o avventuriere. Come la celebre Lulu di Pabst rimane sempre innocente e giustificabile, anche di fronte al delitto e alla corruzione, così le donne di Lubitsch, amanti di un giorno o frivole signore che siano, conservano sempre una sorta di dignità che le mette al di sopra di ogni giudizio. E, ciononostante, attraverso il personaggio di Van Cleve, sembra quasi che in questo film il regista si scusi del suo penchant per le donne, con-fermando ancora una volta, se possibile, la sua modestia e la sua innata gentilezza verso il "sesso debole".
Ester de Miro d'Ajeta, “The Lubitsch Touch-Il periodo americano” a cura di Film Studio 80-Goethe Institut Rom, novembre 1990

Critica (3):C'è poi Heaven Can Wait (Il cielo può attendere, 1943), che io considero uno dei miei film più importanti, perché ho tentato di liberarmi in vari sensi dalle formule stabilite. Prima che il film fosse terminato, ho incontrato forti opposizioni: il film non aveva alcuno scopo, non comunicava alcun "messaggio". Il protagonista si preoccupava solo di vivere bene, e non cercava di compiere nessuna nobile azione. Quando allo Studio, mi chiedevano perché volessi fare un film del genere, rispondevo che la mia intenzione era quella di presentare agli spettatori un certo numero di personaggi nella speranza che li trovassero gradevoli: sarebbe bastato questo per fare dei film di successo. Così, in effetti, è accaduto: per fortuna avevo ragione. Inoltre mi è riuscito di mostrare un matrimonio felice in una luce più autentica di quel che accade normalmente al cinema, dove i matrimoni riusciti sono descritti in genere come una cosa noiosissima, poco eccitante, tutta focolare domestico.
Ernst Lubitsch, in Ernst Lubitsch a cura di Arturo Invernici e Angelo Signorelli, Bergamo Film Meeting 2005

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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