Dove sognano le formiche verdi - Wo die grünen Ameisen traumen
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Regia: | Herzog Werner |
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Cast e credits: |
Soggetto: Werner Herzog; sceneggiatura: Bob Ellis; fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein; musiche: Gabriel Faure (Requiem opus 48), Ernst Bloch (Voice in the Wilderness), Richard wagner (Weswndonk-Lieder),Wandjuk Marika; montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus; scenografia: Uklrik Bergfelder; interpreti: Bruce Spence (Lance Hackett), Wandjuk Marika (Miliritbi), Roy Marika (Dayipu), Ray Barrett (Cole), Norman Kaye (Baldwin Ferguson), Ralph Cotterill (Fletcher), Nick Lathouris (Arnold), Basil Clarke (giudice Blackburn), Ray Marshall (generale Coulthard), Gary Williams (Watson),Tony Llewellyn-Jones (Fitzsimmons); produzione: Lucki Stipetic; distribuzione: Ventana; origine: Australia, 1971; durata: 110'. |
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Trama: | A Mintabi, nel deserto australiano, la Ayers Mining Co. sta conducendo una serie di esplosioni-test per verificare la composizione del sottosuolo. La silenziosa opposizione degli abitanti di quella terra costringe Lance Hackett, il giovane geologo incaricato dell'operazione, ad interrompere l'esperimento. Frenata l'ira sbrigativa di Cole (il capo-operaio) che vorrebbe risolvere il problema caricando gli aborigeni col bulldozer, Hackett avvisa la compagnia mineraria dell'accaduto. Arriva un dirigente della Ayers Mining, Baldwyn Ferguson, ma tutti i suoi tentativi non approdano a nulla. Il problema è - dicono gli aborigeni - che quello è il luogo in cui sognano le formiche verdi, ovvero è il luogo in cui queste si riuniscono annualmente per la fecondazione e quindi la riproduzione della specie, prima di volare via al di là delle montagne.
Nel frattempo Hackett, che sembra cominciare a capire qualcosa almeno della diversità della cultura aborigena, mostra segni d'insofferenza: tenta vanamente un abbordaggio telefonico con una segretaria della compagnia, ascolta da un registratore la radiocronaca in lingua delle partite dell'Argentina ai mondiali del '76 e infine si trova anche a dover rispondere alle pretese di un'anziana signora che vuole convincerlo ad usare i suoi strumenti di misurazione per ricercare nelle gallerie il suo (di lei) cane di nome Benjamin Franklyn.
Intanto le trattative con gli aborigeni non trovano sbocchi. Neppure quando Ferguson decide d'invitare gli anziani in città a visitare la sede dell'Ayers Mining e quindi a mangiare in un ristorante tradizionale greco (sic!). Strani avvenimenti come il bloccarsi (due volte) dell'ascensore accompagnano questa visita guidata. Prima di abbandonare in aereo la città, uno spiraglio sembra aprirsi: l'anziano della tribù resta affascinato dalla visione sulla pista d'atterraggio di un Caribou dell'aviazione australiana. Ferguson che è ormai disposto a tutto, promette d'inviare l'aereo nel deserto a patto che gli aborigeni costruiscano la pista d'atterraggio. Ma neppure il dono del grande aereo verde riesce a sbloccare la situazione. La Ayers Mining ricorre alla legge. In tribunale gli aborigeni non riescono quasi a farsi capire: uno di loro, considerato fino allora muto, comincia a rendere la propria testimonianza in una lingua della quale ormai lui è l'ultimo depositario. Nonostante le simpatie del giudice nei loro confronti, è la Compagnia mineraria a vincere la causa.
La legge è la legge. Le esplosioni dunque ricominceranno nella terra dove sognano le formiche verdi, ma prima che queste vengano destate dal loro sonno, l'anziano del gruppo prende l'aereo e vola al di là delle montagne. Ma i serbatoi sono vuoti e il volo è breve.
I test dunque riprendono, ma senza Hackett che, dopo un paio di incontri con un entomologo bislacco (che gli spiega il processo di riproduzione delle formiche verdi) e con un antropologo allucinato (che vive ritirato in una baracca di latta in mezzo al deserto), decide di abbandonare il lavoro e di andare a vivere da solo nel deserto australiano. |
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Critica (1): | I film di Herzog partono tutti da un'idea trainante, da un'immagine centripeta che seduca attorno a sé i residui della narrazione. Il che vuole anche dire che, se le sceneggiature non sono tutte sempre perfettamente calibrate, non bisogna fargliene una colpa.
Che si tratti di portare una Molly Aida oltre le montagne o di ritrovare il colore esatto di un vetro, che sia in questione un atterraggio di aerei o un vulcano in eruzione che poi non erutta o ancora l'eventualità di scalpellare il cervello di un Kaspar Hauser steso sul tavolo dell'obitorio, la démarche è la stessa. Si parte da un'idea ossessionante, da un'immagine guida come, nel caso che qui si contempla, il deserto australiano nel quale sognano le formiche verdi, e attorno a questo si costruisce la storia.
Va da sé che le formiche non si vedono mai, per quanto siano piuttosto riluttanti a diventare un argomento metaforico. La loro epifania iperbolica sarà allora un Caribou dell'aviazione australiana che andrà portato, con puro atto di fede, al di là delle montagne affinché non cessi la funzione di riproduzione e il mondo possa continuare ad esistere.
Insomma ciò che è in gioco è la coazione a ripetere del mito, la sua ineluttabilità. Così come in Fitzcarraldo doveva arrivare un uomo bianco per permettere agli indios di attraversare le montagne, qui le formiche verdi devono alzarsi in volo (o almeno una di esse o almeno qualcosa che assomigli loro) per garantirsi la riproduzione. Poco importa che l'aereo cada poco dopo. A voler essere realisti questo accade perché i serbatoi del carburante sono stati svuotati. Ancor meno importa la figura del pittoresco pilota aborigeno, ubriaco. L'aereo si sarebbe alzato in volo comunque perché il mito doveva ripetersi. In qualche modo allora gli aborigeni, pur perdendo la causa in tribunale, riescono nel loro intento: assicurare la ripetizione del mito e la riproduzione della specie. Intento risibile si potrebbe dire. In realtà, da questo punto di vista, il film sta in mezzo. Da un lato la civiltà bianca, la scienza esatta che fa marciare gli ascensori, il tribunale e le sue leggi in lingua inglese. Dall'altro gli aborigeni con la loro cultura originaria, il canto e il suono del didgeridou, le lingue che quasi nessuno più parla e una sapienza inesatta che sa fermare gli ascensori. Tutto il film viaggia secondo questo doppio regime di credenza (ovvero crede ad entrambi) secondo uno schema che non è quello della rimozione, bensì quello della denegazione.
Difatti: perché si ferma (per due volte) l'ascensore dell'Ayers Mining? E perché Hackett insiste assurdamente nell'idea di non essere seduto a tavola, ma ancora nell'ascensore incastrato a metà piano? Da Babbo Natale alle peripezie di Indiana Jones, fino agli oroscopi dei quotidiani in realtà, noi occidentali (e quindi Herzog, ma anche il gestore del supermarket) siamo vaccinati rispetto all'intrusione dell'incongruo e dell'incomprensibile. «Si lo so che non è vero, però...», questo è il meccanismo che Octave Mannoni individuava anni fa come ciò che presiede alle credenze popolari ed anche alla finzione teatrale o cinematografica che sia. Lo so che Babbo Natale non esiste, però è piacevole che porti dei doni. Lo so che Indiana Jones è solo un attore, però spero che riesca a salvarsi. E esemplare il direttore del supermarket quando parla degli aborigeni che «sognano» i propri figli davanti ai detersivi, cioè nel luogo in cui una volta stava l'unico albero della zona. «All'inizio abbiamo cercato di mandarli via - cito a memoria - ma ritornavano e alla fine li abbiamo lasciati stare. E poi sa com'è: più figli, più clienti». Il ragionamento è cristallino: si lo so che è solo una stupida superstizione raccogliersi nella corsia dei detersivi davanti ad un albero della fecondità che non esiste più, però se nascono molti figli il mio commercio potrà prosperare. Un ragionamento non proprio aristotelico, ma comunque impossibile da smentire.
Delle due l'una, avrebbe detto Aristotele: o l'albero della fertilità funziona oppure no. E ancora: o il volo dell'aereo verde ottiene il risultato di perpetuare la vita nel mondo oppure si tratta d'una superstizione d'un branco d'incivili. In realtà sono vere entrambe - risponde il film - o comunque è impossibile decidere tra le due.
Herzog procede dunque per esemplificazioni clamorose. Se l'oggetto in questione è una minuscola formica verde (che non è neppure una formica, ma una sorta di termite), allora perché non prendere come segnale macroscopico un grosso aeroplano verde, tanto più se si considera che la formica-regina, una volta fecondata, assume dimensioni che sono 200 volte quelle normali? Il passaggio da un elemento naturale, disseminato e magmatico ad un simulacro industriale non dovrebbe però essere del tutto innocente. Eppure la disinvoltura e l'indifferenza con cui gli aborigeni accettano questa sostituzione, anzi la suggeriscono, sembra indicare il contrario. Insomma non si tratta né di selvaggi che si spaventano davanti ad una macchina fotografica, né dei negri-bianchi dei film di Sidney Poitier. Il loro atteggiamento è cool come nei film di Jim Jarmush. Dal loro punto di vista possono concedere ai bianchi qualunque segno esteriore di assimilazione, anche gli abiti all'occidentale e gli orologi al quarzo. Tant'è vero che è poco più di una recita la sequenza del processo (che è anche la sequenza più «falsa» del film).
II loro scontro con la legge dei bianchi è evidentemente uno scontro con la lingua dei bianchi. E non si tratta neppure di problemi di traduzione, bensì di soggetti messi assieme, che sono eterogenei per categoria. Gli aborigeni possono fermare la marcia di un ascensore. Ferguson, il dirigente della Ayers Mining, non sa neppure come sia fatto un ascensore.
Se volete, sotto a tutto questo parlare di aborigeni e stregoni, di formiche verdi e di ascensori impazziti, c'è un sottofondo ecologista. Se volete, le formiche verdi sono quell'humus naturale la cui riproduzione va garantita contro le esplosionitest della Ayers Mining. Se volete, insomma, sono verdi proprio perché sono verdi e non potrebbero essere innocentemente delle formiche gialle. Però ridurre tutto il film ad un patetico appello del tipo «Salviamo la natura o le foreste o almeno le starne», vorrebbe dire fare dell'ideologia a buon mercato e non capire nulla. Lo dice bene Arnold, l'antropologo che si è autosegregato nel deserto australiano, a Hackett, il geologo che all'improvviso sembra preso da qualche dubbio: «Stai viaggiando su un treno che va verso l'abisso - cito di nuovo a memoria - perché un ponte è crollato. Solo tu sai che il ponte è crollato. Il segnale d'allarme non funziona. Allora cominci a correre disperatamente verso le carrozze di coda del treno».
La catastrofe dell'Europa allora non è tanto l'inquinamento naturale o un bilancio natalità-mortalità subdolamente passivo. La catastrofe sta nelle categorie del pensiero occidentale (nei binari del treno), nell'impossibilità di riconoscere un'altra lingua che non sia la propria (è questa l'essenza del colonialismo). L'Europa viaggia verso un ponte che è crollato non perché è responsabile dell'inquinamento dei fiumi, ma perché definisce come «matto» uno che è capace di fermare gli ascensori. Giacché gli ascensori si fermano soltanto se esiste un guasto meccanico, avrebbe detto Newton. E non importa se poi esistono in logica dei teoremi sull'indecidibilità di un enunciato. Newton è il luogo in cui è rimasta intrappolata la razionalità occidentale.
È per questo che il custode dell'intraducibile canto, quando prova a tradurre nel nostro linguaggio quel che pensa, dice: «Voi bianchi siete stupidi. La vostra presenza su questa terra presto finirà».
La differenza dunque, la differenza tra i bianchi civilizzati e gli aborigeni incivili è intraducibile, anzi è non misurabile. Da questo punto di vista Herzog non mischia le carte, non si mette nella parte del bianco pentito. Anzi, se falsifica qualcosa, lo fa solo a proprio danno: ai danni cioè dei bianchi che vengono fuori tutti un po' caricaturati. Dal capocantiere Cole, popolaresco e razzista, all'energico e ottuso Ferguson. Non se ne salva uno. Persino la vecchietta old fashioned, tutta candore e follia, tutta bianca dal colore della pelle fino all'ombrellino; perfino lei risulta alla fine, nella sua ricerca patetica del suo cane Franklyn, una sorta di divertissement grottesco.
Ma si sa, Herzog è più interessato ai paesaggi che alle persone. I suoi film procedono per lampi, per folgorazioni successive piuttosto che per costruzioni drammaturgicamente coerenti. È inutile rimproverargli allora una sceneggiatura poco articolata o dei personaggi scarsamente profondi. Vorrebbe dire non capire che i veri protagonisti sono il deserto australiano, le formiche che non si vedono (quasi) mai, i bulldozer che spianano la pista d'atterraggio e l'aereo dell'aviazione australiana: la grande formica verde. È una disposizione che qualcuno potrebbe definire documentaristica, tutta fatta di traveling laterali, di personaggi presi di sfuggita, schiacciati contro il deserto, le cui dichiarazioni contano poco o nulla. A rigore, Dove sognano le formiche verdi è infatti un film muto. Muto come Mabila che parla una lingua che ormai nessuno capisce più. Muto come il distacco della bambina aborigena davanti alla radiocronaca dei goal di Tarantini o di Mario Kempes. Sono questi i momenti in cui l'intensità del film si alza. Sono questi i lampi improvvisi del film. Dove sognano le formiche verdi è un temporale, non una traversata. E attorno a questi, uno stato di perenne tensione come quando ci si aggira attorno alla bocca di un vulcano in attesa dell'eruzione.
D'altra parte, accompagnare un film con un Requiem avrà pure un qualche significato. Questo vuol dire che siamo di fronte all'ultimo film di Herzog? Certamente no. Del resto non c'è nessuno come lui ad essere tanto attaccato alla vita, soprattutto se questa è in koyaanisqatsi ovvero in ebollizione, in disequilibrio.
Herzog continuerà a fare film montati «male» come questo che è un tripudio di paesaggi deserti e personaggi sconnessi, e film montati bene (secondo la razionalità cinematografica occidentale) come Aguirre, Fitzcarraldo, Nosferatu. Continuerà a fare film «colorati» come ogni volta che gira con Thomas Mauch (ancora Aguirre, Fitzcarraldo, Stroszek) e film in bianco e nero o comunque semanticamente in bianco e nero, come ogni volta che si tira dietro nelle imprese più disperate Jorg Schmidt-Reitwein (come in Fata Morgana, nell'avventura della Soufriére, in Woyze, Nel paese del silenzio e dell'oscurità, Cuore di vetro, Nosferatu e Dove sognano le formiche verdi).
Herzog non fa film di denuncia. Ha scoperto di essere su un treno che va verso un ponte che è crollato. Ha scoperto anche che il segnale d'allarme non funziona. La sua grande speranza è quella di avere in mano una cinepresa quando arriveremo sul ponte.
Gualtiero De Marinis, Cineforum n. 265, 6-7/1987 |
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