Walk Through H (A) - Walk Through H (A)
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Regia: | Greenaway Peter |
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Cast e credits: |
Soggetto: Peter Greenaway; sceneggiatura: Peter Greenaway; fotografia: John Roseberg; musiche: Michael Nyman; montaggio: Peter Greenaway; interpreti: Jean Williams (la centralinista); produzione: British Film Institute Production Board; distribuzione: British Film Institute (Gb) - Lab 80 Film (Italia); origine: Gran Bretagna, 1978; durata: 41’. |
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Trama: | Il viaggio dell’anima di un ornitologo attraverso 92 mappe (alcune delle quali dipinte dallo stesso Greenaway) di un paese immaginario chiamato H, luogo in cui avviene la sua reincarnazione nel 1978. |
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Critica (1): | A Walk Through H (t.l. Una passeggiata nell’H, 1978) lavora su un presupposto simile a quello di Dear Phone. Ma questa volta è una serie di dipinti che forma il sostrato visuale del film.
Dice Greenaway: «Borges mi stimolò a concepire storia e immagine come un territorio, la cartina di un possibile viaggio, e così tornai di nuovo al cinema per articolare questi messaggi con il controllo non solo dello spazio, sia narrativo che plastico, ma anche del tempo, cioè il tempo di ricezione di chi osserva. A Walk Through H è un po’ il primo esempio di queste idee».
La macchina da presa entra in una galleria d’arte di una capitale europea non identificata. Il luogo è deserto, c’è solo una receptionist che sta leggendo seduta a una scrivania. Alle pareti sono appesi 92 disegni di piccole dimensioni. Mentre la macchina da presa si avvicina alle opere esposte, una voce fuori campo comincia a raccontare; il narratore dice che lui stesso ha raccolto i disegni, in modo del tutto casuale, perché possano essere utilizzati dopo la morte di un misterioso personaggio, l’ornitolgo Tulse Luper. Lo speaker racconta episodi e aneddoti mentre lo spettatore viene introdotto fra le linee dei disegni. Inizia così una specie di viaggio fantastico tra città e paesaggi immaginari, fino ad arrivare ad Amsterdam, dove il narratore rivela qualcosa di più della sua storia, dei suoi legami con Tulse Luper e della sua lotta per conservare un punto d’osservazione fondamentale per studiare le rotte migratorie degli uccelli. Il viaggio fantastico continua lungo territori sempre più selvaggi, mentre le carte geografiche diventano sempre più indeterminate e vaghe e gli uccelli aumentano. All’improvviso uno strano segnale confonde le idee al viaggiatore mentre alcune mappe cominciano a sparire. Lo spettatore si ritrova di nuovo nella galleria. La receptionist si mette il cappotto, spegne la luce ed esce. Sulla scrivania rimane, in bella evidenza, il libro "Some Migratory Birds of the Northern Emisphere" di Tulse Luper, contenente 92 carte geografiche e 1418 illustrazioni di uccelli a colori. E appunto 1418 risultano le miglia percorse, 92 le mappe adoperate.
«Tulse Luper mise in ordine tutti questi disegni per me, un lunedì pomeriggio, quando seppe che ero malato. Questo, infatti, era uno dei disegni che lui stesso mi aveva dato. Fa parte di una coppia di disegni, ma mi disse che era inutile che perdessi tempo a cercare l’altro...».
Scrive, su «Cineforum», Angelo Signorelli: «All’inizio di A Walk Through H la macchina da presa entra in una galleria d’arte dalle linee architettoniche essenziali, dalle pareti bianche e lisce, con un movimento lento che progressivamente si avvicina ad alcuni disegni appesi alle pareti, fino ad isolarne alcuni. Dopodiché entra letteralmente in un disegno e comincia a scorrere, a spostarsi tra le linee della composizione, per iniziare un viaggio immaginario, in un mondo fatto di tracciati, di percorsi, di direzioni, ma anche di falsità, di cammuffamenti, di invenzioni che trapassano nel gioco illusionistico».
II film dura 41 minuti, ed è finanziato dal British Film Institute (è costato 7.500 sterline). La musica è composta da Michael Nyman, che da questo momento – aveva già lavorato in Goole by Numbers e in 1-100 – diviene un collaboratore fondamentale del regista, del quale è amico già da anni, e dal quale si separerà professionalmente all’indomani dell’ Ultima tempesta. A Walk Through H è un viaggio attraverso una quantità di mappe, 92 per l’esattezza (e il numero non mancherà di diventare una delle future ossessioni greenawayane), riunite dal narratore, un ornitologo – come lo era, nella realtà, il padre di Greenaway . In queste mappe, l’ornitologo ha segnato il percorso compiuto dagli uccelli durante la migrazione. "H" è la strada attraverso aneddoti che riguardano le mappe stesse, che sono fra l’altro quadri, a volte di dimensioni minuscole, dello stesso Greenaway. Quei quadri che erano appesi alle pareti della sua minuscola casa di West London, immersa in una periferia anonima di percorsi tutti uguali, di simmetrie instancabili, di numeri civici a distinguere una casa dall’altra, un "caso" dall’altro, un individuo dall’altro. Come in un film di Greenaway. È come se tutti i suoi film, anche quelli successivi, fossero delle mappe, delle topografie di quartieri londinesi, dove i numeri servono a distinguere ciò che non ha sviluppo temporale, ma spaziale. E se pure ha sviluppo temporale, è nel simultaneo evolversi di varie situazioni, tante quante sono le "case" della mappa-film. È come se, sempre, i film di Greenaway fossero dispiegati nello spazio e non nel tempo.
Numero-guida, qui, il 92. Il 92 nasce dall’interesse che il cineasta manifesta per la musica aleatoria di John Cage. In particolare, per la struttura di una delle sue opere, Indeterminacy, che prevede sezioni di un minuto ciascuna. Questo principio della narrazione entro una griglia imposta ha molto interessato Greenaway. Contando le sezioni dell’opera di Cage, è arrivato alla cifra 92, che ha scelto come armatura di quel racconto erratico che è A Walk Through H. Successivamente, ha confessato, con un’alzata di spalle e qualche risatina, che il suo calcolo era, in realtà, sbagliato, perché le sezioni dell’opera di Cage sono in realtà 90, e non 92. E a proposito di numeri: se 92 diventerà un numero fondamentale della numerologia greenawayana, ci si può chiedere se sia casuale il numero 1418, delle miglia percorse durante il "viaggio attraverso H". Non lo è. Questa cifra indica la lunghezza, espressa in piedi, della pellicola in 16 millimetri, vale a dire la distanza percorsa dalla pellicola fino al momento in cui il film si conclude.
A un certo punto, il narratore ci avverte che la strada sta diventando così incerta che disegnarne la mappa diventa un’occupazione folle. La mappa, naturalmente, è l’emblema del tentativo umano di tirar fuori un ordine dal caos. Le mappe ricordano quelle borgesiane, tentativi impossibili di riprodurre il mondo in scala 1:1, mappe di cammini improbabili, manuali di geografia fantastica. In un’intervista del 1982, apparsa sul Monthly Film Bulletin, Greenaway cita Borges: «Pensavo a quel racconto in cui, all’estremità della Cordigliera delle Ande, si trova arrotolata a certi alberi una gigantesca carta su scala mondiale».
Alla fine, il narratore stabilisce che è arrivato a destinazione nello stesso istante in cui era partito, suggerendo che il suo viaggio è stato circolare nel tempo, oppure che, forse, non è stato in nessun luogo. Tulse Luper stesso suggerisce al narratore che «il momento di decidere che cosa sia "H" è alla fine del viaggio, ma in quel momento non importa più».
Greenaway si avvicina alle sue future invenzioni, sempre scarsamente "narrative". Un cinema le cui storie sono sempre come carte geografiche percorribili in qualunque senso, a scelta dello spettatore, e dove l’arrivo – il finale – conta poco, non risolve niente, non spiega i molti misteri disseminati lungo il percorso.
Quando il narratore, in A Walk Through H, suggerisce che i territori esistono solo nell’immaginazione dei cartografi, e che alterando le mappe si può alterare il senso della propria esperienza, Greenaway insinua che la realtà è un pretesto, un’occasione per gli infiniti giochi della rappresentazione. È la rappresentazione, per Greenaway, la dimensione autentica in cui consiste il reale. La natura, la cosiddetta "realtà" fisica, per lui, ha avuto sempre scarso rilievo.
«Sono sempre stato affascinato dalla cartografia», postilla Greenaway in una delle prime interviste italiane, concessa a Guido Fink. «Facevo dei disegni ispirandomi alle carte geografiche. Per me le carte sono l’equivalente di una ricerca per classificare il caos. Una mappa ti dice dove eri, dove sei e dove sarai: in un certo senso rappresenta tre tempi in uno. È un meraviglioso ideogramma di informazione. Mio padre era morto da poco, e il sottotitolo del film era The Reincarnation of an Ornithologist, la reincarnazione di un ornitologo: mio padre era uno di loro. Il film parla del viaggio che l’anima compie nel momento della morte: H sta a significare sia Heaven, il paradiso, che Hell, l’inferno. O Hammersmith, un quartiere di Londra (...)».
Tulse Luper è uno dei personaggi immaginari che accompagnano il percorso artistico di Greenaway. All’inizio, è uno stratagemma letterario. O anche un crittogramma: letto alla rovescia, è "Repule Slut", suggerendo le parole "repulsion" e "slut", che significa "sgualdrina". È l’«autore» di un libro di collages intitolato Tulse Luper and the Centre Walk, dove la sua biografia si riduceva a diagrammi e schemi topografici. Ma dopo la "scoperta" compiuta da Greenaway, in una soffitta nello Yorkshire, di circa 200 foto in bianco e nero, nasce la sua "identità" visiva, e la sua presenza in carne e ossa. A volte lo vediamo col cappello, con la pipa, con il fucile, in moto. E i film di Greenaway mostreranno abbondanti foto di Tulse Luper, il primo "attore" cinematografico utilizzato da Greenaway, accrescendo, ogni volta, la sua "personalità". Tulse Luper nasce dalla combinazione di molti personaggi che Grenaway ammira: da John Cage a Marcel Duchamp. «In seguito», dice Greenaway, «ho incontrato altri Tulse Luper: Jacques Ledoux della Cinémathèque Royale del Belgio e Sacha Vierny, il direttore della fotografia. È possibile che in Giochi nell’acqua, il mio film del 1988, Madgett sia una rappresentazione di Tulse Luper».
Giovanni Mogani, Peter Greenaway, Il Castoro Cinema, 5-6/1995 |
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Critica (2): | Affascinato dalle pratiche tassonomiche e dalle strutture di configurazione del reale, Greenaway è anche appassionato di cartografia e collezionista di mappe. Un interesse che deriva dal considerare le mappe come dei sistemi di organizzazione del territorio attraverso l’arte grafica e la pittura. Lui stesso, nella sua attività di pittore, ne ha create più di 300. Alcune di queste sono state utilizzate per A Walk Throngh H (Una passeggiata attraverso H), il mediometraggio che descrive il viaggio dell’anima di un ornitologo attraverso le 92 mappe di un paese immaginario chiamato H, luogo in cui avviene la sua reincarnazione nell’estate del 1978.
L’idea di partenza del film nasce dalla scoperta di una collezione di mappe della «British Ordinance Survey» stampate in maniera errata con «Strade che andavano a sinistra invece che a destra, frutteti colorati di blu invece che di verde. Come se l’uomo stesse cercando di descrivere e circoscrivere la natura e questa stesse sabotando e beffando il suo tentativo». Attraverso le mappe e altri sistemi di impostazione enciclopedica, l’uomo descrive e organizza con precisione su scala ridotta il reale in base a schemi e simboli riconoscibili. Dall’astronomia alla genetica, dalle operazioni geometrico-catastali all’agronomia, sono molte le discipline scientifiche che utilizzano la cartografia nelle proprie ricerche per orientarsi e trovare una giusta collocazione. In questo senso le mappe rappresentano per Greenaway «l’equivalente plastico di una ricerca per la classificazione del caos»;. Esse esprimono in forme ideogrammatiche uno spazio tridimensionale e le coordinate temporali reali e ipotetiche. Racchiudono simultaneamente il passato, il presente e il futuro perché su di esse è possibile tracciare il percorso tra i luoghi in cui si è stati, dove ci si trova e verso cui si andrà. Non solo: su di esse è anche possibile ipotizzare un viaggio che non si è fatto, che si sarebbe potuto fare o che probabilmente si farà. Al di là di queste speculazioni astratte, la maggior parte delle 92 mappe presenti nel film è stata ispirata a Greenaway dal paesaggio del Wiltshire, una regione dell’Inghilterra meridionale ricca di suggestivi elementi geografici da elaborare. Ma il paesaggio inglese, le sue paludi, le colline battute dai venti, le foreste e i castelli sono ricomposti in «una sorta di paesaggio inglese inventato».
I territori del film sono completamente re-inventati e trovano la giustificazione e l’autenticità della propria esistenza solo nell’atto della creazione artistica. Astrazioni complete sono le mappe delle città di Astagarth e Cantaloupis, i tracciati labirintici che si incontrano a metà del film, o la serie di 100 variazioni di un medesimo soggetto (i mulini a vento). Invece la città di Amsterdam viene trasfigurata in un lugubre paesaggio simile più alle «calde notti senza elettricità sulla luna» che alla capitale olandese.
In tal modo però, come per le collezioni di mappe errate, anche sui 92 territori immaginari di Greenaway è possibile tracciare percorsi inesistenti. E che il viaggio dell’ornitologo sia un artificio e avvenga in un’atmosfera «mitica» lo si intuisce sin dalle prime sequenze del film: le mappe incorniciate sono appese come quadri in esposizione nei locali di una galleria d’arte. Solo quando la voce fuori campo inizia a raccontare il lungo viaggio, queste diventano espressione di un universo senza pause: i frammenti di un paese chiamato H. Un mondo che ha perso il contatto col reale e che Tulse Luper, ornitologo con la passione per la catalogazione sistematica degli eventi naturali, può plasmare e ordinare. L’interesse di Luper per le mappe scaturisce dagli studi delle traiettorie migratorie degli uccelli e dalla sua predilezione per le indagini sistemiche. Inoltre «osservò che mentre alcune mappe erano fatte per il consumo pubblico di migliaia di persone, molte erano fatte per gruppi più piccoli di specialisti e molte altre erano compilate per l’uso privato di un singolo individuo». La sua ricerca si sviluppa quindi in termini sia topografici che psicologici. Ogni individuo è il tragitto che percorre sulle proprie mappe dell’esistenza.
In ragione di questo astratto impeto ordinatore, Luper pianifica con estrema precisione l’ultimo viaggio dell’anima di un ornitologo: è lungo in tutto 1418 miglia e necessita di 92 mappe. La scelta numerica è motivata dall’ultima sequenza del film, quando viene mostrato il libro Some Migratory Birds of the Northern Hemisphere (Alcuni uccelli migratori dell’emisfero settentrionale) scritto dallo stesso Luper: il sottotitolo è «92 mappe e 1418 illustrazioni a colori di specie di uccelli». In quei numeri è racchiuso il Regno degli uccelli, il sapere ornitologico, così come il viaggio dell’anima dell’ornitologo. La scelta è dunque solo apparentemente arbitraria: per orientarsi e giungere alla meta, l’ornitologo necessita di 92 mappe, «forse l’ultimo viaggio di un idraulico necessita di 150 mappe e quello di un macellaio solo di 27». Se i percorsi dell’anima sono esperienze individuali e personali, allora il viaggio rigidamente preparato da Tulse Luper è significativo solo per l’ornitologo.
Ma nonostante delimiti il racconto, organizzi il viaggio e influenzi il contenuto, la scelta del numero di mappe è per Greenaway un mezzo per rinvii culturali e non soltanto l’elemento che struttura il film. L’organizzazione dei materiali filmici avvenne inizialmente in base a un altro piano pre-ordinato. Il viaggio dell’ornitologo avrebbe dovuto attraversare cinque luoghi diversi, corrispondenti agli habitat degli uccelli: le città, la campagna, la foresta, le zone di confine e il deserto. A sua volta ogni ambiente fu suddiviso in dieci sezioni tali da suggerire i differenti tipi di territori. Proprio perché il contenuto delle immagini non è astratto e neutrale, come nel successivo Vertical Features Remake, la relazione tra i diversi tipi di territorio e la sequenza numerica è molto più che puramente strutturale. In realtà in fase di montaggio Greenaway decise di non applicare nella sua globalità questo principio fortemente organizzativo e mantenne solo la suddivisione del film in cinque parti, ravvisabili soprattutto grazie alla colonna sonora di Michael Nyman.
Infatti l’organizzazione strutturale del film (la suddivisione in dieci parti di ogni sezione) si trova pienamente espressa solo nella prima sezione: «Le città». Dieci sono le città attraversate così come dieci sono le mappe corrispondenti e dieci gli accordi musicali. Il viaggio però, invece di apparire monotono, risulta discontinuo: lento e tortuoso nell’attraversare le mappe più complesse (la prima e la quinta), rapido e lineare per le città più piccole (la seconda e la terza). Nelle successive quattro sezioni la suddivisione strutturale in dieci parti non è più così facilmente riconoscibile.
Nella seconda sezione «La campagna» avviene la prima apparizione di un elemento determinante per l’orientamento dell’ornitologo: le riprese dal vivo degli uccelli.
«Ero a 161 miglia da Astagarth. Stavo usando la 16ª mappa», informa l’ornitologo mentre attraversa con difficoltà un territorio singolarmente collinare e accidentato. «Ero incoraggiato e stimolato dal volo degli uccelli». Due brevi sequenze di un uccello in volo che si posa sul ramo di un albero suggeriscono la strada da seguire. Quelle degli uccelli sono «apparizioni-guida» che servono all’ornitologo per orientarsi e trovare la propria direzione. Gli animali infatti guidano verso la meta il viaggiatore, sempre più disorientato e indeciso sul cammino da seguire e sull’andatura da adottare. Le mappe si rivelano infatti poco chiare o addirittura fallaci e il percorso è determinato dall’aumentata densità della popolazione volatile che invade l’orizzonte visivo dei paesaggi con sempre maggiore frequenza. La conoscenza del tragitto attraverso i sistemi di descrizione e organizzazione del territorio denuncia i suoi limiti e l’ornitologo si fida delle indicazioni degli uccelli, animali di cui ha imparato in vita a capire il comportamento, così come per una persona in difficoltà è naturale fidarsi di ciò che conosce bene.
Ma le metafore del viaggio e del volo sono associate all’altro tema, la trasmigrazione delle anime, anticipato dal sottotitolo del film: La reincarnazione di un ornitologo. Nelle antiche filosofie occidentali e nelle religioni orientali, la reincarnazione è il passaggio dell’anima da un corpo a un altro. «Molte culture diverse condividono l’idea che l’anima che parte sia "volata via", e sia diventata un uccello, oppure abbia utilizzato i servigi di un uccello per viaggiare fino alla
successiva reincarnazione».
Nel disegno del film la peregrinazione mitico-religiosa dell’anima è in stretta connessione con la migrazione biologica degli uccelli, un argomento che Tulse Luper conosceva bene. Da un punto di vista etologico il comportamento degli animali è riferito a spostamenti stagionali, ciclici e regolari, che portano gruppi di individui della stessa specie, secondo direzioni ben definite, da un’area geografica a un’altra ecologicamente più favorevole, con successivo ritorno alla zona di partenza. Un percorso segnato e stabilito che ha in comune con la reincarnazione dell’ornitologo la ciclicità del viaggio sempre identico a se stesso. Il protagonista infatti racconta in prima persona la sua ultima esperienza e ripete a ogni proiezione cinematografica il proprio percorso rendendo così eterna la propria vita: ogni volta raggiunge la meta e riparte di nuovo. Il film propone quindi tre viaggi distinti eppure convergenti: quello naturale degli uccelli migratori, quello eterno dell’anima dell’ornitologo e quello interpretativo dello spettatore.
La presenza degli uccelli cresce in modo esponenziale una volta superata la terza sezione, le «Zone di confine», dove è scandagliata solo la piccola mappa della città di Amsterdam (la mappa disegnata da Greenaway di dimensioni 30x40 cm). Sul tessuto urbano reinventato della città olandese la cinepresa-rostrum di Bert Walker esegue virtuosismi e circonvoluzioni, rende giganteschi i dettagli e labirintiche le traiettorie. Già nella sezione successiva, la «Foresta coltivata», ventotto sono le mappe attraversate e otto le apparizioni «guida» di uccelli. L’incertezza del movimento della cinepresa, il lento ma frequente succedersi in dissolvenza incrociata del binomio mappe/uccelli e il testo sempre più immaginoso della voce fuori campo rivelano che il viaggio si sta complicando ulteriormente. A causa soprattutto del rarefarsi delle indicazioni delle mappe: «Qualche volta chiare e facili da seguire, altre volte per nulla cartografiche nel senso stretto del termine ma formate solo da una serie di istruzioni simboliche o di un testo scritto. Dalla seconda metà del viaggio, le mappe diventano ambigue e l’ornitologo deve scegliere personalmente quale percorso seguire. Alla fine del viaggio, i percorsi stessi diventano troppo indistinti e non sono più evidenti dell’ombra di una nuvola passeggera o di un profumo trasportato da un vento incostante». Le operazioni «ordinatrici» di Luper/Greenaway vengono in tal modo a coincidere nel loro esito: le indicazioni strutturali del viaggio pianificato da Luper sono superate dalle decisioni dell’ornitologo così come la rigida suddivisione del film architettata da Greenaway è stata oltrepassata dalla «logica finale» delle immagini.
E difatti le mappe dalla 66ª all’ultima, che compongono la sezione conclusiva del film, il «Deserto», sono stilizzazioni e astrazioni prive di indicazioni utili. Anche la voce fuori campo dell’ornitologo (che nelle sezioni precedenti aveva fatto poche pause) dimostra le sue titubanze con il silenzio. Ma la meta è vicina e la «gioia» dell’ascesi del protagonista è affidata soprattutto ai ritmi incalzanti e alle melodie della musica e alla debordante presenza degli uccelli in volo, che si alternano alle mappe in soluzioni sempre differenti.
L’ultima mappa è formata solo dal simbolo di un mulino a vento, vicino a cui è segnato il numero 92. «Ero arrivato. Era martedì mattino presto, circa le due meno un quarto. Avevo usato 92 mappe e avevo percorso 1418 miglia» recita con convinzione l’ornitologo giunto alla fine del suo viaggio. La meta è raggiunta. «H» è il luogo immaginario in cui l’anima può sostare e riposarsi per l’ultima volta prima della reincarnazione. È un luogo al di fuori del tempo, raggiungibile solo attraverso un’ordinata disposizione di mappe, meta al termine di un percorso difficile e mutevole per ogni viaggiatore. È un paese non definito che comprende tutti i posti possibili: «H» rappresenta sia Heaven (il paradiso) o House. D’altronde, «il paradiso per qualcuno è spesso l’inferno per un’altro» "sottolinea lo stesso regista. Proprio il precedente cortometraggio H is for House aveva dimostrato come sotto la lettera «H» l’enciclopedia riunisse in ordine alfabetico parole dai significati radicalmente diversi e appunto accomunati solo dalla lettera iniziale. È un modo per ordinare il fluire irrazionale e incatalogabile degli eventi, per orientarsi nello spazio come nel tempo, nell’esistenza come nel linguaggio stesso. E questo paese immaginario è uno dei tanti paesi possibili il cui nome inizia con H: racchiude in sé tutte le potenzialità, può essere un altro paese e tutti gli altri paesi contemporaneamente. Tutto dipende dal viaggiatore, dalla disposizione delle mappe e dal percorso.
Come i luoghi invisibili descritti da Marco Polo a Kublai Kan nel romanzo di Italo Calvino Le città invisibili, le mappe non sono altro che frammenti interscambiabili, riproduzioni di infiniti percorsi, simili l’una all’altra, ma che assumono significato pieno solo per pochi. Il testo di Calvino è fondamentale per comprendere il viaggio in A Walk Through H. Difatti, gli universi narrati da Marco Polo al termine di ogni suo viaggio sono speculari, ambigui, frammentari e racchiusi in una rigida cornice strutturale come l’universo disposto da Luper. Per l’indefinita dimensione temporale del viaggio, la descrizione delle città come infinite variazioni di uno stesso luogo di origine e la metafora dell’atlante che racchiude ogni mondo geograficamente e temporalmente possibile.
Ma se al termine della lunga peregrinazione nei cinque luoghi il viaggiatore rimane sospeso tra la vita e la morte, la carrellata all’indietro della cinepresa dalle mappe scopre dipinti e disegni appesi alle bianche pareti degli ampi saloni della galleria d’arte. L’ultima mappa non era altro che l’ultimo quadro dell’esposizione. La visita è terminata e le mappe ordinate da Tulse Luper non sono altro che quadri realizzati da Greenaway, esposti per essere filmati e divenire luogo privilegiato per la narrazione di una storia. A Walk Through H è quindi un film su una mostra di pittura che racconta il viaggio dell’ornitologo in una dimensione mitica. Lo spettatore è disposto a prendere il viaggio, e quindi le astrazioni cartografiche, come verità e a trasformare «le linee sottili e i colori sbiaditi in sentieri selciati, campi recintati, città sconosciute». Questo grazie soprattutto alla presenza dell’ornitologo che, pur non apparendo mai sullo schermo, racconta la sua esperienza in prima persona. Il viaggio attraverso le mappe di H si rivela così l’ipotesi fantasiosa di un visitatore della mostra di quadri e il film si risolve in un triplice artificio in quanto opera cinematografica su una mostra in cui è raccontata un’esperienza immaginaria.
Domenico de Gaetano, Il cinema di Peter Greenaway, Lindau, 1995 |
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Critica (3): | All'inizio di A Walk trough H la macchina da presa entra in una galleria d'arte dalle linee architettoniche essenziali, dalle pareti bianche e lisce, con un movimento lento e progressivamente avvicinantesi ad alcuni disegni appesi alle pareti, fino ad isolarne alcuni. Dopodiché entra letteralmente in un disegno e comincia a scorrere, a spostarsi tra le linee della composizione, per iniziare un viaggio immaginario, dove presto la realtà si confonde nel fantastico, si perde nella manipolazione di una parola che si fa immediatamente aggressiva e coinvolgente. Comincia così una storia o meglio un intreccio di storie, che portano lo spettatore lontano, in un mondo fatto di tracciati, di percorsi, di direzioni, ma anche di falsità di cammuffamenti, di invenzioni che trapassano nel gioco illusionistico. La galleria d'arte, in una prima rilevanza connotativa, è il luogo della raccolta e della conservazione, dell'ordinazione e della catalogazione, della sistemazione scientifica di un ipotetico itinerario artistico e conoscitivo. Ma è pure il luogo dove trionfa l'apparenza; le opere in mostra in realtà non dicono nulla più di quello che un possibile visitatore può leggere su un'eventuale guida, la cui affidabilità può definirsi solo all'interno di una più o meno credibile ricostruzione storica. Concretamente dietro ogni quadro in mostra c'è un'esperienza umana sconosciuta, che nessun interprete è in grado di restituire nella sua integrità; così la galleria d'arte diventa un luogo di morte, perché ciò che è in mostra è un punto di arrivo di un momento di vita che ha prodotto un'immagine consolidata, dietro la quale si nasconde appunto una frazione esistenziale irripetibile e impenetrabile allo sguardo dell'altro, e poi perché in ogni caso le opere non appartengono più a nessutaa, fanno parte di un passato circoscritto dalla loro stessa evidenza, lasciando però in tal modo che si apra il baratro della sregolatezza fantastica e dell'artificio inventivo. Ma la galleria d'arte viene dimenticata, viene fatta svanire prima come luogo fisico e poi come espediente retorico dalla macchina da presa di Greenaway, che si mette in cammino tra i segni, mentre la voce fuori campo comincia a raccontare dapprima i retroscena - le origini dei disegni e le loro relazioni con un misterioso personaggio, l'ornitologo Tulse Luper - per poi comporre in prima persona una geografia immaginaria, una mappa di spostamenti, di informazioni, di ricordi, di spiegazioni, un (im)probabile viaggio tra coordinate che tentano di salvaguardare la coerenza del sistema attraverso precise e ricorrenti delimitazioni numeriche. Il tutto incollato tenuto insieme dall'espressione di esattezza garantita dal lavoro ornitologico di catalogazione delle diverse specie, pratica strettamente connessa all'osservazione ricorrente e allo studio. E qui Greenaway gioca a carte scoperte esasperando l'ambiguità dell'assunto, l'intento scientifico o razionale, per via di una tenace e voluta operazione mistificatoria. Tale "fondamento" diviene realiter la sostanza perla creazione di un falso che non teme di scivolare nel paradosso e nell'ironia feroce di una "verità" tanto allucinata quanto folle. La parola è la vera costruttrice del gioco, mentre la macchina da presa si muove come la matita che cerca di tracciare l'unico percorso per uscire dal labirinto, essa forma le divagazioni, le partiture perché il gioco stesso non si arresti, perché alla fine i conti tornino, componendo un continuum che dia atto della sua compiutezza, ma non della sua credibilità, del tutto inessenziale. Per questo la parola viene in aiuto alla finzione; ad essa dà consistenza proprio aggiungendo falsità a falsità. Col ricorrere alla sua capacità intrinseca di accumulazione coerente, prima ancora che attendibile, essa fonda l'illimitatezza del gioco dei possibili, così come riflette l'infinita combinazione del tratto. Il regista inglese si rivela in tal modo come un giocatore abilissimo, fino a rivoltare specularità di una suggestività che sa di poter impudicamente e illimitatamente combinare il segno prescindendolo dalla sicurezza- e dalla comunicabilità - del significato. Invertendo l'ordine degli addendi il risultato non cambia, anche se tende a sembrare, per lo spettatore poco accorto, un impasto confuso e difficilmente leggibile. E il senso di tutta la costruzione lo si dovrebbe capire
alla fine, quando, dopo esser stati informati che sono state usate 92 cartine e percorse 1418 miglia, scopriamo che il libro scritto dal misterioso ornitologo e dal titolo "Alcuni uccelli migratori dell'emisfero nord" contiene 92 mappe e 1418 rappresentazioni a colori. I conti tornano e per ottenere questo sono state richiamate corrispondenze e affinità, nonché casualità e legami assolutamente opinabili ma non per questo privi di una loro tendenziosa logicità, d'altronde il sottotitolo del film è La reincarnazione di un ornitologo. Un ulteriore elemento di inattendibilità all'interno di una elaborazione spacciata per sistematica e, sotto sotto, paradossalmente dimostrativa, in fondo la cosa che sembra importante sopra tutto è la conservazione dello schema nelle sue componenti numeriche, una specie di pitagorismo formale senza magia, molto più attento alla semplice ricorrenza della cifra prima ancora che al suo significato nascosto, irrilevante per una curiosità puramente contabile( ...) Forse il senso dell'edificio sta tutto, oltre che nei limiti numerici prefissati, nelle forme dell'accumulazione e nei presupposti architettonici, la coerenza dell'insieme non risiede tanto nell'argomento scelto, ma nell'impianto logico delle intersezioni, delle corrispondenze, delle fusioni, nel calcolo delle possibilità, nei labili confini dell'assurdo. Alcuni disegni, un personaggio sconosciuto, una pratica "scientifica", qualche richiamo storico , una manciata di conoscenze e teorie non verificate, un tono vagamente autoritario e professionale, una musica intrigante, una buona dose di immagini realistiche d'accompagnamento, gli ingredienti sono pronti per legittimare esteticamente la "reincarnazione", per raccontare una storia'~' tra le apparenze di un artificio, di un trompe l'oeil costantemente sull'orlo della propria dissoluzione e del proprio svelamento: la fine del film ci riporta nel luogo dell'inizio, con i disegni appesi alle pareti, osservati a distanza , alcuni svaniti - ma non erano così già all'origine? - una signora che se ne va spegnendo la luce; probabilmente è l'orario di chiusura. La macchina da presa si ferma, ad inquadrare sulla scrivania il libro di Tulse Luper sugli uccelli migratori dell'emisfero nord; gli estremi si potrebbero tranquillamente invertire, ma anche il libro, e il suo oscuro autore, potrebbero essere altri.
Angelo Signorelli Cineforum. n. 311, gennaio-febbraio 1992 |
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Critica (4): | |
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