Seme del tamarindo (Il) - Tamarind seed (The)
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Regia: | Edwards Blake |
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Cast e credits: |
Soggetto: dal romanzo omonimo di Evelyn Anthony; sceneggiatura: Blake Edwards; fotografia (PanavisionEastmancolor): Freddie Young; fotografia seconda unità: James Allen; art director: Harry Pottle; montaggio: Ernest Walter; musica: John Barry; canzoni: "Play It Again" di John Barry e Don Black (cantata da Wilma Reading); interpreti: Julie Andrews (Judith Farrow), Omar Sharif (Feodor Sverdlov) , Anthony Quayle (Jack Loder), Daniel O'Herlihy (Fergus Stephenson), Sylvia Syms (Margaret Stephenson), Oscar Homolka (generale Golitsyn), Bryan Marshall (George MacLeod), David Baron (Richard Paterson), Celia Bannerman (Rachel Paterson), Roger Dann (colonnello Moreau , Sharon Duce (Sandy Mitchell), George Mikell (maggiore Grigorij Stukalov), Kate O'Mara (Anna Skriabina), Constantin De Goguel (Dimitri Memenov), Alexei Jawdokimov (I or Kalinin), Janet Henfrey (capo-sezione ambasciata), John Sullivan (primo agente KGB), Terence Plummer (secondo agente KGB), Leslie Crawford (terzo agente KGB); produttore: Ken Wales per Jewel-Lorimar-Pimlico Films; distribuzione: C.D.C.; origine: Gran Bretagna; durata: 125' anno: 1974. |
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Trama: |
Judith incontra a Barbados un colonnello russo. Il loro amore mette in subbuglio l'Intelligence Service e i servizi sovietici, preoccupati delle conseguenze.
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Critica (1): | La vita dell'est è la via dell'ovest.
La dissociazione visionaria/astratta (politico/economica) del cinema di Blake Edwards proviene da una frattura tra spazio e tempo dell'immagine. Come Hitchcock anche Edwards sa che spazio e tempo sono infiniti e che sono "segni" che sfuggono alla nostra ragione.
Sembra tuttavia che l'unica, possibile e apparente (il seme del tamarindo, 1974) dimensione esistente nell'inquadratura e nelle sequenza edwardsiana sia quella del nulla vanificato. In effetti l'inquadratura di Edwards ha un segno di una sensualità corposa, anche se ironica: nella sua noia assurda, nell'anonima "bruttezza" di uno spazio che finge di essere - angosciosamente - il tempo dell'accadimento, il sogno dell'accadimento, il sogno dell'accaduto, in quest'humor serioso, in questa accanita monotonia, Blake ci dice che il tempo è una nostra eterna finzione, che bisogna distruggerlo per ritrovarlo, che è lo spazio ed il suo accaduto. Nel tempo del nulla sta la deflagrante e laconica codificazione di un tempo iconicamente inventato. Così il tempo della (assurda) "leggenda" del tamarindo, funge da stereotipo di onirico spazio hitchcockiano in cui il richiamo al terrore esistenziale circola nella piatta orizzontalità di una sequenza volutamente assurda e ostinatamente vuota. Come la morte del vecchio cow-boy William Holden in Wild Rovers 1971, film da rivedere, e importante per i western come I compari di Altman), come il "blow-up" della foto erotica/vera in The Carey Treatment (1972) così nel Seme del tamarindo il tempo ci dà la dilatazione irreale di situazioni che autori più "moderni", più volgari ed interessanti, avrebbero senza dubbio risolto con un montaggio dinamico, finto/verticale, o con pianisequenza di angosciante e perentoria diegesi, e con stile altezzoso, arrogante o senza altro imbecille.
Il seme del tamarindo è un omaggio a Foreign Correspondant (Il prigioniero di Amsterdam, 1940) di Alfred Hitchcock. Non per niente vi compare Oscar Homolka che parla e fa il "russo" come ai tempi di Sabotage (1936) sempre di Hitchcock con Peter Lorre.
Con questa realtà esistente e rintracciabile in una dimensione soltanto e squisitamente filmica, si potrebbe dire che anche ne Il seme del tamarindo, come nei film "più" di Edwards (Hollywood Party, The Day of Wine and Roses, The Pink Panter, ecc.) la via del cinema è il cinema della via: in questa rotazione ellittica di un universo astratto intorno a se stesso, in questa irrealtà totale che pure possiede la filosofia di un ritorno che vede incrociarsi le contraddittorie strade della Sotira in un unico punto che è quello dell'opposto che specchia se stesso. Edwards fa del cinema politico, proprio con strumenti metafilmici: non esiste spazio più filmico di quello intentato da Edwards nel Seme sulla traccia di Hitchcock, con tutta la realtà (apparentemente) filmica volutamente "brutta , dai volti degli attori (Julie Andrews e Omar Sharif), alla fotografia (che tra l'altro è dovuta a Freddie Young, un direttore dell'immagine che i recensori frettolosi definiscono sistematicamente "prestigioso"), dall'ambientazione (le isole Barbados sono "riprese" da angolazioni volutamente banali) alla recitazione, dal "sistema" hollywoodiano alla "gerarchia" dei segni codificati da quel cinema perduto e mai vinto: è attraverso questi rutti film di Blake Edwards che sortisce, dialetticamente, ciò che politicamente e ideologicamente interessa al regista, vale a dire i rapporti tra la sfera della struttura hollywoodiana e quella della sua sovrastruttura, cioè dei "sistema". Edwards distrugge il sistema della gerarchia. Il suo stile è lucido, consapevole, cauto come l'occhio del felino che segue la folle impaurita fuga del topo. La sua cinepresa è cauta appunto come la sua visione obiettiva, sorniona e nello stesso tempo razionale, convinta: il gioco ellittico viene smascherato ogni volta dagli opposti contrasti di spazio e tempo.
La via dell'ovest è la via dell'est.
In scenari hitchcockiani le spie, gli amori, gli orrori e l'inutile fluire di una vita spesa talmente "male", Blake Edwards ci dice che c'è una verità oltre a cui guardare, che c'è, appunto, la Storia nella sua verità che non teme le contraddizioni, proprio perchè le contraddizioni permettono allo spazio di essere tempo, al tempo di sembrare spazio, alla vita di essere morte - con lenti trapassi impercettibili come granelli di sabbia - e alla morte di essere vita: questa saggezza, con questa filosofia, Blake Edwards disturba la potenza della Mediocrità, ma non la umilia, poichè la Mediocrità crede tanto alla propria Potenza, da essere la Potenza, il Sistema stesso (hollywoodiano, certo). L'impuro è il puro.
Nel gioco degli opposti Edwards rende la filosofia della storia. Il suo stile cinematografico è di quella purezza che ha tropi dubbi, per non essere sicura della sola grande saggezza che viene dalle contraddizioni che rifluiscono nel seme della terra. Tra i deliri di autori che non vedono e non vogliono vedere, Blake Edwards è tra i pochi saggi del cinema, il cui occhio non ha mai dubbi sull'oggetto da vedere.
Che poi questo oggetto sia gettato in uno spazio e in un tempo che non l'assorbono totalmente e lo lasciano a sé, come oggetto appunto spaurito, dissociato, (mai però irrazionale), è un altro discorso: Edwards ci sa dire dove gli opposti si incontrano, dove potranno andare, ma non ci ha ancora detto cosa potranno costruire di veramente grande, minaccioso e forte.
Sergio Turoni, Filmcritica n. 261 gennaio-febbraio 1976 |
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