Anno con 13 lune (Un) - In Einen Jahr Mit 13 Monden
Regia: | Rainer Werner Fassbinder |
Vietato: | 14 |
Video: | Biblioteca Rosta Nuova, visionabile solo in sede |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Le diversità |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Rainer Werner Fassbinder |
Sceneggiatura: | Rainer Werner Fassbinder |
Fotografia: | Rainer Werner Fassbinder |
Musiche: | Da Gustav Mahler; Peer Raben, Nino Rota |
Montaggio: | Rainer Werner Fassbinder |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Volker Spengler (Erwin/Elvira Weishaupt), Ingrid Caven (Rote Zora), Gottfried John (Anton Saitz), Elisabeth Trissenaar (Irene), Eva Mattes (Marie-Ann), Günther Kaufmann (J. Smolik, Chauffeur), Lisolette Pempeit (Gudrun), Isolde Barth (Sybille), Karl Scheydt (Christoph Hacker), Walter Bockmayer (Seelen-Frieda) |
Produzione: | Tango Film - Pro-ject Filmproduction im Filmverlag der Autoren |
Distribuzione: | Goethe Institut - Imc - Ventana |
Origine: | Germania |
Anno: | 1978 |
Durata:
| 124'
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Trama:
| In ogni secolo gli anni con tredici lune sono sei. Sono anni che suscitano profondissime crisi nei tipi emotivi. Il 1978 è stato uno anno con tredici lune. Ed è proprio l'anno in cui si svolgono a Francoforte gli ultimi cinque giorni di vita di un transessuale, Elwin Weishaupt, divenuto Elvira in seguito a un'operazione fatta a Casablanca. Abbandonato da bambino in un orfanotrofio, perché illegittimo, Elwin da adulto era diventato macellaio nel mattatoio di Francoforte, si era sposato, aveva avuto una figlia. Questa è la sua famiglia che non abbandonerà mai affettivamente, anche dopo l'operazione di Casablanca. L'uomo per il quale ha subito l'operazione è Anton Seitz, un ebreo, sopravvissuto ai lager e divenuto potente con la speculazione edilizia e con la prostituzione organizzata. Ora Seitz è lontano e non pensa più all'amica. L'unico conforto di Elvira è una prostituta, Zora la rossa. Seguendo i pressanti consigli della sua ex sposa, Irene, Elwin-Elvira si mette sulle tracce di Seitz, lo incontra e ne subisce il cocente disprezzo. Ad Elvira rimane solo Zora. Vorrebbe ritornare a vivere nella sua famiglia, con la sposa Irene e con la figlia. Ma ormai è troppo tardi. Si sente un respinto da tutti. Solo la morte non può opporgli un rifiuto... e termina la sua vita col suicidio.
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Critica 1: | Gli ultimi cinque giorni prima del suicidio del transessuale Elvira/Erwin che rievoca il suo passato. Colpito dal suicidio, avvenuto nell'estate del '78, dell'amico/amante Armin Meier, Fassbinder lo girò in 25 giorni, curandone anche la fotografia. Meditazione sulla liceità del suicidio, è uno dei suoi film più sconsolati, personali e aspri contro la società. Da citare almeno la sequenza del mattatoio e quella in cui la protagonista è costretta a parodiare un film di Jerry Lewis (Il ciarlatano) che passa in TV. Il titolo si riferisce alla credenza che negli anni lunari con 13 lune (tra cui il 1978) gli esseri umani molto sensibili sono soggetti a profonde depressioni. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | (…) «Ogni sette anni c'è un anno lunare. Gli individui la cui esistenza risente in modo particolare delle emozioni sono soggetti, durante questi anni, a despressioni, il che succede, anche se non in maniera così rilevante, negli anni con tredici lune nuove. Se un anno lunare è contemporaneamente un anno con tredici lune, i risultati sono spesso catastrofici. Ci sono sei anni nel ventesimo secolo in cui questa pericolosa coincidenza si verifica. Uno di questi è il 1978. Prima di questo sono stati il 1908, il 1929, il 1943 e il 1957. Dopo il 1978 il 1992 minaccerà di nuovo la vita di molti». Così avverte la didascalia iniziale, ponendo subito sotto il segno di un destino astrale pressochè ineluttabile la parabola di Erwin/Elvira Weishaupt. Infatti, sempre è fondamentale il ruolo del destino nel melodramma, in cui il protagonista, per quanto lotti, non può resistere al fatale e inesorabile avvicinarsi della morte.
La vita stessa di Elvira, ancor prima della sua messa in scena, è un grande melodramma. Il suo problema è trovare la giusta parte da recitare, a cominciare dalla definizione della sua stessa sessualità. Apprendiamo che nemmeno lei sa «perchè» è andata a Casablanca: non era in grado di farsi amare come Erwin, ma non riesce nemmeno a farsi accettare come Elvira. Non a caso il suo momento di felicità l'ha vissuto con Christoph, un attore. Da questo punto di vista la impressionante sequenza del mattatoio è rivelatrice. Mentre Elvira racconta a Zora la sua vita e le recita istericamente i brani teatrali che provava insieme a Christoph, le vacche, ordinatamente disposte in una gabbia-corridoio, vengono uccise, sgozzate, squartate e macellate. Il paragone che a prima vista vien fatto di istituire tra Elvira e queste bestie, accomunate dal destino di una morte «meccanica», è in realtà molto più complesso. Un anno con 13 lune non è un film suIl'ermaginazione dei transessuali, animali da macello della società consumistica. A un certo punto del delirante monologo, Elvira fugge per la tangente della finzione e dell'autosuggestione fin quasi a gridare nel vuoto il suo desiderio di autodistruzione. Il facile parallelo con Francoforte, la città-mattatoio, si rivela allora come l'alibi di Elvira per la messa in scena del suo suicidio. È significativo che, quando era uomo, Elvira fosse macellaio (e, a quanto emerge dai suoi ricordi, un macellaio un po' troppo inebriato dal sangue): era uccisore perchè voleva essere vittima, come finalmente adesso può diventare (secondo un rapporto che Fassbinder avrebbe poi sviluppato a oltranza in Querelle).
Il fatto è che, a differenza di altri eroi fassbinderiani, a Erwin-Elvira manca l'innocenza. E non potrebbe essere altrimenti in un personaggio condannato all'ambiguità anche dal punto di vista fisiologico. Per quanto possiamo compatire la sua infelice condizione, non ci può sfuggire il suo autocompiacimento nella sofferenza, la sua incapacità di scegliere un'identità. Non le resta che comportarsi come
un'eroina da melodramma e come tale recita la sua scena secondo le situazioni che la vita quotidiana le propone. È chiaro, però, che il suo comportamento è motivato in gran parte dal cinico sfruttamento che dei suoi sentimenti fa la società.
In modo abbastanza sorprendente, la «diversità» di Elvira non sembra suscitare nel suo ambiente le reazioni di emarginazione che ci aspetteremmo. Proprio per questo, per questa strana «normalità», la sua solitudine è tanto più tremenda: perchè potrebbe essere quella di chiunque. La rete dei ricatti sentimentali è identica a quella in cui qualsiasi persona potrebbe trovarsi.
Abbandonata da un amante violento che ne ha sfruttato i soldi e il lavoro (ma che all'inizio del film la costringe anche a «guardarsi allo specchio» per quello che è - o non è), Elvira è utilizzata dal suo grande amore del passato, l'inquietante Anton Saitz, come passatempo. Zora, apparentemente la sua unica vera amica, finirà a letto con lo stesso Saitz e non si accorgerà nemmeno che accanto a lei Elvira si dà la morte. La moglie Irene e Marie Ann, la figlia, possono forse accettare l'eccentricità del suo ruolo, ma non sono disposte a reintegrarla nella famiglia nè come «amica» nè tantomeno come padre. Il giornalista che ha sfruttato Elvira per un servizio scandalistico le chiude la porta in faccia «perchè è tardi».
Quanto al suo passato che sorella Gudrun, un altro personaggio irrealistico in modo inquietante, rievoca, è solo una storia di rifiuti e solitudine.
Sembra che la società abbia punito Elvira per tutte le scelte che di volta in volta, per quanto incoscientemente, ha fatto: il matrimonio, il cambiamento di sesso, le sue storie d'amore con gli uomini. Perfino la nascita e la infanzia sono percepite come un'offesa dalla sua ignota madre. Elvira è talmente stritolata da questo vampirismo quotidiano che se ne fa una ragione di vita. Negli ultimi cinque giorni della sua esistenza ripercorre come in una via crucis le stazioni del suo martirio pagano: ma dietro l'inevitabile sacrificio non c'è salvezza, solo il nulla e le stimmate dell'egoismo impresse su chi resta.
Tutto questo è materiale abbastanza consueto per i film di Fassbinder. Ma in Un anno con tredici lune compare un elemento filosofico insolito nella cosmologia del regista. Corteggiati intellettualmente per tutto il film, la figura e il pensiero di Arthur Schopenhauer vengono scopertamente citati nell'inquadratura in cui sorella Gudrun solleva la copertina del libro che sta leggendo (e che ironicamente si poteva supporre fosse un breviario). Schopenhauer è il pensatore che intende «il mondo come volontà e come rappresentazione». È il filosofo che sostiene: «tutto quanto è compreso e può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmente avere per condizione il soggetto, ed esiste solo per il soggetto». La sua è la dottrina del pessimismo e della separazione, status che caratterizza tutti i rapporti umani del film. E per una coincidenza troppo precisa per essere solo fortuita Schopenhauer è il filosofo di Francoforte, la citta che, come ha ammesso lo stesso Fassbinder, è un elemento determinante della storia («una città la cui struttura specifica provoca dei destini come quello che qui è rappresentato»). Schopenahuer è quindi un punto di riferimento importante per addentrarsi nel significato di Un anno con 13 lune. Innanzitutto per il concetto base di «rappresentazione» riferita al soggetto come unica condizione di determinazione del mondo. «Quello che tutto conosce e da nessuno è conosciuto è il soggetto; è esso che porta il mondo in sè, perchè ciò che esiste, non esiste se non per il soggetto»: queste parole che hanno lo strano suono dell'astrazione sono tradotte da Fassbinder nel quotidiano gergo dell'incomunicabilità, dell'impossibilità di una relazione positiva tra soggetti diversi. Ognuno è un mondo chiuso in se stesso, condannato a non conoscere altro che il proprio ego. A questa realtà esistenziale «assoluta» Fassbinder aggiunge però il peso relativo dell'alienazione sociale. L'urbanesimo mostrato in Un anno con 13 lune è una dimensione che non solo non aiuta a superare l'isolamento, ma lo provoca con i suoi edifici inespressivi, gli interni gelidi, le sale-giochi da incubo, i mass-media dalla presenza ossessiva. Paradigmatica è la sequenza in cui Zora, prima di addormentarsi, accende e spegne il giradischi, riaccende la televisione, cambia meccanicamente canale (e Fassbinder stesso si include nelle trasmissioni) in un malinconico pendant con la fiaba che poco prima ha raccontato a Elvira perchè prendesse sonno.
Ma il mondo è anche «volontà»: e la volontà, secondo Schopenhauer, è la tensione primaria che identifica l'essere, la cui manifestazione individuale è il corpo. Questa fisicità della condizione umana è assunta da Fassbinder come il tema principale, su cui si fonda il carattere stesso della protagonista. Poichè «la volontà è la chiave per conoscere l'intima essenza della natura intera» attraverso la propria coscienza, il peccato originale di Elvira è di non saper capire il proprio corpo, di negarlo prima e rimpiangerlo poi, fraintendendo così anche il principio vitale del resto del mondo. La sua sofferenza non può perciò trasformarsi in esperienza, il suo dolore rimane un sacrificio senza significato: è condannata ad aggirarsi in un labirinto di situazioni nelle quali non è in grado di affermare, magari violentemente, il suo corpo. (…) |
Autore critica: | Davide Ferrario |
Fonte critica: | Cineforum n. 224 |
Data critica:
| 5/1983
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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