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Ultimo spettacolo (L') - The last picture show

Regia:Peter Bogdanovich
Vietato:No
Video:Columbia Tristar Home Video
DVD:Columbia Tristar
Genere:Drammatico
Tipologia:Diventare grandi
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Larry Mcmurtry
Sceneggiatura:Larry Mcmurtry, Peter Bogdanovich
Fotografia:Robert Surtees
Musiche:Hank Williams, John Philip Sousa
Montaggio:Donn Cambern
Scenografia:Polly Platt
Costumi:Polly Platt, Mickey Sherrard, Nancy Mcardle
Effetti:
Interpreti:Timothy Bottoms (Sonny Crawford), Jeff Bridges (Duane Moore), Cybill Shepherd (Jacy Farrow), Ben Johnson (Sam), Cloris Leachman (Ruth Popper), Ellen Burstyn (Lois Farrow), Eileen Brennan (Genevieve), Helena Humann (Jimmie Sue), Noble Willingham (Chester), Bill Thurman (Allenatore Popper), Joe Heathcock (Lo sceriffo), Randy Quaid (Lester Marlow), Sam Bottoms (Billy)
Produzione:Bbs Productions / Columbia Pictures Corporation
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:USA
Anno:1971
Durata:

118

Trama:

Anarene (Texas), 1951. Il giovane Sonny è costantemente accanto a Billy, un ritardato mentale; ma anche amico del coetaneo Duane ed esce con qualche ragazza: ma soprattutto subisce il fascino del vecchio Sam. Nel paesetto regna la noia che fa da sfondo ai fremiti sessuali dei giovani, alle frustrazioni delle persone di mezza età, alle nostalgie dei vecchi. Sonny diviene, per un certo periodo, l'amante della quarantenne Ruth, trascurata dal marito. Duane crede di aver conquistata la bella Jacy che lo tradisce invece con un altro e che, poi, mentre lui è assente, fugge con Sonny e lo sposa. Ma i due vengono raggiunti e separati dai ricchi genitori della ragazza, i quali mandano Jacy a Dallas, dove dovrebbe intrappolare, secondo gli insegnamenti della madre e con le arti muliebri sperimentate sugli sfortunati compaesani, qualche uomo danaroso. Sam muore lasciando la sua sala da biliardo in eredità a Sonny. Billy finisce sotto un autocarro. Lois (la madre di Jacy) e un'altra donna del paese dimostrano una certa comprensione per Sonny il quale, terrorizzato dal vuoto, addolorato per la partenza di Duane per la Corea, distrutto dalla morte di Billy, torna da Ruth.

Critica 1:Si è letto che Larry McMurtry, autore del romanzo Thalia da cui è tratto L’ultimo spettacolo, non può più tornare al suo paese. Archer City (Texas), perché la comunità lo odia come un pubblico diffamatore. È la vecchia polemica che divampò intorno a Sinclair Lewis quando scrisse Main Street: e l’oggetto del contendere è sempre la stessa imperitura provincia americana. Qui la piccola città (che nel film cambia ancora nome e si chiama Anarene) è colta sull’inizio degli anni cinquanta, un’epoca che sta suscitando negli Stati Uniti una nuova ondata di nostalgia. Peter Bogdanovich ha anticipato questo sentimento con un film in bianco e nero (fotografato da Robert Surtees) che si rifà esattamente ai modelli cinematografici di vent’anni fa e intona l’elegia di un’America forse scomparsa. Mentre si compie l’educazione sentimentale di un gruppo di ragazzi, minacciati dall’avvicinarsi della guerra di Corea, muore ad Anarene l’ultimo simbolo della leva pionieristica (l’attore è Ben Johnson, che Bogdanovich riesuma dai western militari di Ford); e non a caso il cinema, di cui il vecchio era proprietario, chiude per sempre i battenti con la proiezione di Il fiume rosso di Howard Hawks, che celebra distanziandoli i miti del secolo passato. L’ultimo spettacolo è un film sull’adolescenza di una generazione e sulla senilità di una nazione già simbolo di gioventù. Si direbbe l’opera di un Truffaut passato alla scuola di John Ford; e impone subito il nome di Bogdanovich come quello di un piccolo maestro del prossimo decennio.
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaIl Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977
Edizioni Il Formichiere
Data critica:



Critica 2:Il regista affida le parti principali a una decina di attori, professionisti e non; le altre sono date agli abitanti del luogo. Gli stessi attori, pri­ma di girare, vivono per due settimane a contatto con la gente del posto, per penetrarne mentalità ed abitudini. Ne risulta un film percorso da volti « anonimi », che sembrano appartenere ad un'umanità perduta, di­versa anche nell'atteggiamento, nell'espressione, nello sguardo. The last picture show è la storia di un paese del South West americano in cui gio­vani e vecchi si consumano in un'esistenza senza scopo, nella noia di un presente insopportabile e nella rassegnazione di un futuro impossibile. C'è il vecchio Sam, detto «il leone», proprietario dell'unico cinema della città, il Royal, e del bar, che passa il suo tempo a ricordare il passato amore; c'è Billy, un ragazzino ritardato che segue i più grandi nelle loro « avventure » e che muore, alla fine del film, travolto da un camion nella strada che aveva l'abitudine di pulire dalla polvere, e ci sono i giovani co­me Sonny e Duane che tentano di uscire dal loro torpore esistenziale at­traverso esperienze tutte destinate al fallimento. Sonny intreccia una re­lazione con Ruth, la moglie del suo insegnante di educazione fisica, per la quale egli rappresenta l'ultima, anche se illusoria, àncora di salvezza al disastro del matrimonio, alla sua infelicità del sentirsi trascurata. Duane ha una avventura con Jacy, la ragazza piú carina del villaggio, la quale vede in questo rapporto soltanto il primo passo verso l'evasione dal pro­prio ambiente.
L'immaturità della ragazza, unita al desiderio di sentirsi piú viva, la spinge infatti a lasciare Duane, a far la civetta persino con l'amante della madre e a portare via Sonny a Ruth, convincendolo a fuggire con lei: illudendolo di volerlo sposare in un altro stato, fa in modo che i ge­nitori possano ritrovarla prima che ciò avvenga. Quando Duane (che, dopo essere stato lasciato da Jacy, si è recato in città per cambiare vita) sa dell'accaduto, cerca Sonny per picchiarlo. Nella collutazione lo feri­sce all'occhio, poi decide di arruolarsi volontario per la guerra di Corea. I due però si riconciliano prima della partenza di Duane e passano insieme l'ultima serata al cinema. È lo spettacolo di chiusura: morto Sam, il lo­cale si arrende alla concorrenza della televisione, chiude i battenti. Sonny torna da Ruth, mentre Jacy va a vivere in città. L'ultima inquadratura è una panoramica sulla sala cinematografica, come all'inizio del film, ma ora è chiusa, simbolo della morte del paese.
Il film è tutto qui. Ma in questa vicenda senza trama, in questo in­treccio quasi casuale, in questa microanalisi di una pigra quotidianità consumata senza piú ideali e senza piú illusioni, si può ritrovare la storia, la vita, la letteratura ed il cinema d'America. The last picture show an­che se è piú teso al rigore della metafora che ad una semplice fedeltà cronologica si colloca in un preciso momento storico, gli inizi del Cin­quanta, un periodo percorso, a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale, da profondi cambiamenti nella struttura economica. È il mo­mento del «Fair Deal» di Truman (la forzosa continuazione del «New Deal» rooseveltiano degli Anni Trenta), caratterizzato dalla politica in­ternazionale della «guerra fredda» che genera la corsa al riarmo, la paura del conflitto atomico e la strategia dell'anticomunismo sfrenato, iniziata nel 1947 sotto la guida del famigerato senatore Joseph McCarthy, nel quadro della espansione imperialistica verso l'Oriente, con la guerra di Corea. All'interno del paese, lo scontro tra il vecchio ordinamento agri­colo e la nascente società tecnologica è tremendo: la fuga verso la città acquista la dimensione di un nuovo urbanesimo; il conflitto generazio­nale si acutizza, dovendo la vecchia cultura contadina cedere il passo ad un progresso piú spregiudicato e ai suoi nuovi «valori»; si fa strada il consumismo con il suo piú appropriato mass-medium, la televisione. È un'epoca di grande tensione, che si ripeterà con impressionante analogia agli inizi del decennio successivo, con la guerra del Vietnam ed il crollo del mito della «nuova frontiera» Kennediana, frantumato con la morte violenta del suo presidente. Il senso del film sta in una evocazione che si dilata simbolicamente a comprenderle entrambe, poiché Bogdanovich, nel­le sua rivisitazione critica del recente passato del suo paese, non dà rilie­vo ai fatti, ma all'inevitabile crisi esistenziale, collettiva ed individuale, che ne è la logica conseguenza, ricreando filmicamente l'ultimo spettacolo di un'America in agonia.
Il film inizia e si chiude, si è detto, con la medesima inquadratura. Le due immagini sono uguali, tranne in un particolare: all'inizio il cine­ma Royal funziona mentre alla fine è definitivamente chiuso, non ci si pro­ietta piú nulla, gli spazi per i cartelloni pubblicitari restano vuoti in un paese deserto abitato soltanto dal vento. La parte di Sam, il centro mo­rale del film, come si vedrà piú avanti, è affidata a Ben Johnson, un at­tore fordiano interprete tra l'altro di Wagon Master (La carovana dei Mormoni, 1950) il film corale sulla comunità in viaggio verso la nuova terra promessa. Ma allo spirito della comunità espresso in quel film è su­bentrato l'egoismo individuale; ai giorni felici, in cui cantare la speranza quotidiana del proprio futuro, è succeduto il momento dell'isolamento in­dividuale e del crollo morale della collettività. La scelta si rivela dunque non accidentale: The last picture show è una sorta di Wagon Master al negativo, perché anch'esso è un film corale, ma sulla morte, cosí come le fondamenta di Tombstone, il paese eretto in festa in My Darling Cle­mentine sono diventate le rovine di Anarene, la città morta. Lo stesso ordine cronologico che assumono le due immagini in testa e in coda al film è capovolto, secondo un procedimento caratteristico di tutta l'opera. In realtà è l'immagine finale a dare piú propriamente l'avvio al film, per­ché quello di Bogdanovich è un «atto di archeologia» alla riscoperta di un passato. Ed il vento che solleva la polvere posatasi in vent'anni sui ruderi della città riporta alla luce una epoca che può rivivere per raccon­tare, come avveniva nelle poesie di Spoon River, la sua vita e la sua morte. Per un attimo, suggestivo e tragico, un'umanità dimenticata ha la possi­bilità di riproporsi e, veramente sincera solo nella morte, può tornare a riflettere sui sogni infranti e sulle speranze deluse.
Bogdanovich sceglie la dimensione del ricordo eleggendo a struttura dell'opera il «villaggio», tipico luogo letterario americano, fulcro al­l'inappagamento esistenziale della collettività che vi abita. Si riallaccia a Winesburg Ohio (I racconti dell'Ohio) di Sherwood Anderson, a The story of a country town (Storia di una città di provincia) di E. W. Howe e, soprattutto, alla Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters, nonché a tutta la tradizione dei rappresentanti del risentimento di fronte alla perdita dell'antica dignità: l'aderenza tra letteratura e cinema è, ancora una volta, perfetta. Ma nell'affrontare la disfatta che investe giovani e vec­chi, Bogdanovich usa un procedimento narrativo che quanto più si avvi­cina alla convenzionalità tanto piú la nega, riproponendola immediata­mente per quello che è. I personaggi del film infatti riprendono atteggia­menti tipici dei film del passato, ma tutto è diverso: attraverso l'assun­zione totale di un modello linguistico, in realtà si compie una critica del significato, una verifica morfologica che diviene presto distruzione del senso precedente. Bogdanovich aderisce totalmente alla scrittura cinema­tografica dei grandi registi di Hollywood, ma il suo non è un acritico at­to d'amore, perché l'amore, che pur si avverte in ogni sequenza (e biso­gna aver molto amato per essere cosf critici), si è fatto anche ragione.
Cosí il senso di autenticità che percorre The last picture show fa sí che ad una prima impressione si possa addirittura cadere nell'equivoco di credere di assistere ad un film realmente girato negli anni Cinquanta. Ma ad uno sguardo piú attento ci si accorge che non è, non può essere, un film di quella data. Si avverte che il regista ha dato vita ad un pas­sato «intellettuale» piú che reale, trasferendo nella immagine del tem­po l'espressione di una diversa verità. Senza farsi imprigionare dalla sug­gestione del passato in quanto tale, egli apre un discorso nuovo che si po­ne, oggettivamente, contro alcuni valori trasmessi da quel cinema; sem­pre all'interno beninteso di quel suo amore per un cinema «antico», la cui importanza e la cui bellezza non sono mai messe in discussione. L'opera supera l'appassionata emulazione del «cinéphile» per diventare
un atto critico, il cui risultato sostanziale prescinde dalla constatazione diretta di un contenuto preesistente, per assumere l'aspetto prioritario del dissolvimento di uno schema linguistico e dell'ideologia in esso nascosta. Senza tradire il cinema, le sue leggi e la sua armonia, ma anzi valorizzan­dolo in ogni sfumatura ed assumendolo come esempio perfetto di cinema/ cinema, in sé risolto e in sé completo, Bogdanovich giunge infatti all'eliminaziope del mito, la menzogna ideologica che è stata la componente dominante della cinematografia americana.
Autore critica:Vittorio Giacci
Fonte critica:Peter Bogdanovich, Il Castoro Cinema
Data critica:

11/1975

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro: Thalia
Autore libro:Larry McMurtry

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