Volti - Faces
Regia: | John Cassavetes |
Vietato: | No |
Video: | Biblioteca Rosta Nuova, visionabile solo in sede |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | John Cassavetes |
Sceneggiatura: | John Cassavetes |
Fotografia: | Al Ruban |
Musiche: | Jack Ackerman |
Montaggio: | Maurice McEndree, Al Ruban |
Scenografia: | Phedon Papamichael |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | John Marley (Richard Forst), Gena Rowlands (Jannie Rapp), Lynn Carlin (Maria Forst), Seymour Cassel (Chet), Fred Draper (Freddie), Val Avery (Jim McCarthy), Dorothy Gulliver (Florence), Jim Bridges (Jim Mortensen), Anne Chirley (Anne), Darlene Conley (Billy Mae), Gene Darfler (Joe Jackson), Elizabeth Deering (Stella), Joanna Moore (Louise) |
Produzione: | Maurice McEndree, John Cassavetes e Al Ruban |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Usa |
Anno: | 1968 |
Durata:
| 129’
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Trama:
| Una volta giunto all'età matura Richard Forst, un agiato uomo d'affari di Los Angeles, decide all'improvviso di lasciare la moglie Maria per la giovane Jeannie Rapp.
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Critica 1: | Grave crisi coniugale di una coppia borghese a Los Angeles, Maria (L. Carlin) e Richard Frost (J. Marley), uomo d'affari. Dopo il clamoroso esordio con Ombre (1958-59) e la parentesi hollywoodiana, è il primo film con cui J. Cassavetes (1929-80) afferma il suo peculiare modo di far cinema. Fu girato nel 1964 in 16 mm per 6 mesi e circa 150 ore di pellicola registrata con attori e tecnici non pagati. Il montaggio durò quasi 4 anni. Una 1a edizione di 220 minuti (marzo 1968), oggi introvabile, fu ridotta alla durata i 130 minuti. Il montaggio fu curato dal produttore Maurice McEndree e dal direttore della fotografia Al Ruban. E miracoloso che in queste condizioni abbia avuto tre nomination agli Oscar: Cassavetes come sceneggiatore e i due attori Carlin e S. Cassel. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Con Faces l'assunto "polifonico" del cinema di Cassavetes, quel suo contaminarsi col guazzabuglio urbano e umano, col " carnevale " della vita, si definisce compiutamente. (…)
Faces è appunto strutturato come libero e autonomo « flusso di coscienza », di parole e immagini che interagiscono entro un campo di forze apertissimo, sul filo esilissimo di un pretesto narrativo quanto mai comune: un doppio adulterio consumato e "parlato" nell'arco di trentasei ore (il modello joyciano non è poi così estraneo) da una coppia in crisi. Nulla di più "quotidiano".
La peculiarità del film risiede proprio in quell'inseguire frammenti di vissuto da ricomporre sulla tastiera del divenire filmico. E qui la tessitura polifonica di Cassavetes attinge la sua perfezione. L'impiego "dialogico" della parola ("concertante", in un'accezione musicale che rimanda a quella suggestione dell'elemento sonoro che ha tanta parte nel cinema del regista) comprende, da parte di ciascun personaggio, la pronuncia della parola propria non disgiunta dal possibile riconoscimento della parola altrui, un riconoscimento che tuttavia si fa a tratti problematico fino a divenire assai labile. È il momento in cui la parola propria si appropria di quella altrui, la soggioga, la incorpora in sé, fino a tacerla, e le voci si scontrano senza ascoltarsi, sovrapponendo i punti di vista e i suoni.
Prolifera una pluralità di coscienze (voci) indipendenti dall'autorità del regista, che le ha appunto "liberate", e ciascuna parla per sé (di sé, con sé, tra sé), torrenzialmente, e invade il territorio altrui, che è poi il territorio della messinscena filmica. Da sottolineare ancora che la conflittualità tipica della drammaturgia naturalista è esclusa, in quanto non sono sentimenti che duellano ma voci, che si sovrappongono e si confondono in
un magma umano che semmai della arida linearità naturalista è un'atroce parodia. E naturalista sarebbe lo spunto della fabula di Faces, la banale tranche de vie di una coppia sull'orlo del divorzio (lui che va a cercare conforto da una prostituta mentre lei ospita in casa un giovane), ma non lo è il trattamento filmico, del tutto avulso da qualsiasi nozione di «rappresentazione».
« Faces avrebbe potuto essere, come tanti altri film americani, uno specchio più o meno compiacente della piccola borghesia americana: ma esso rifiuta, per un principio narrativo che è tutt'uno col suo principia di lavorazione, la funzione descrittiva abitualmente assegnata al cinema. I vuoti e le vampate di vertigine di quattro americani medi, due donne e due uomini, non vi sono descritti come "riproduzione" di fatti e gesti che si sono già verificati o che avrebbero potuto verificarsi, in un altrove supposto più " reale " del film, alla cui realtà il film tenterebbe di adeguare il suo "realismo". (...) È il movimento del film stesso che produce questi comportamenti, queste relazioni, questa fiction e i suoi personaggi. Si agitano, gridano, ridono e soprattutto parlano sullo schermo, non fingono la replica di rumori e furori di un'esistenza e di una storia situata fuori dal film e che essi mimerebbero per le necessità dello spettacolo » (Jean-Louis Comolli, in un acuto saggio sui «Cahiers», n. 205, p. 38). Sono loro il film (e poco importa se le loro battute e i loro gesti sono previsti dal copione o meno). Le loro smanie, le loro ebbrezze fanno il film. Sylvie Pierre (sullo stesso numero dei «Cahiers») ha notato questo pervasivo clima di euforia che fa delirare il film, che lo allucina raggrumandolo rapsodicamente attorno ad alcune cellule significanti, trascurando spesso le connessioni logico-drammatiche, le "spiegazioni" dei fatti. «Lo scandalo è tale che lo spettatore ha l'impressione che manchino delle scene, in particolare in relazione a quella del suicidio della moglie: come, perché?», si chiede Sylvie Pierre.
Ma non è solo l'acme del tentato suicidio di Maria (Lynn Carlin, attrice non professionista), che si ritrova ripugnante dopo la squallida esperienza con Chett, un amante occasionale (Seymur Cassell). È tutta la piattaforma narrativa che sussulta e si sgretola con lo sgretolarsi dell'ipotesi-famiglia postulata dal film. Gli atomi del racconto sono risucchiati in un mulinello di menzioni-smentite, di mascheramenti, di ambivalenti carnevalizzazioni della realtà. Maria più è confusa e più ride, camuffando con la sua risata stridula il proprio smarrimento. La donna detesta il marito e, in una pausa, gli bacia il viso pacatamente, come per inerzia, poi sbotta in una risata insensata: più tardi, scendendo dal letto, proclama: «Voglio il divorzio». Jeannie, la prostituta d'alto bordo che "ricovera" Dick, il marito di Maria, per una notte in casa propria (lei è Gena Rowlands, lui John Marley), ha con lo stesso Dick momenti di tenerezza fanciullesca, in cui è prefigurato quello stato di grazia di adulti-bambini che sarà di Minnie e Moskowitz: lei modula rime infantili ed è una Gena-prostituta che ha già il pudore della sposa-madre, quello di Minnie, Mabel e Gloria (forse perché, fuori di finzione, è già nella parte, incinta del terzo figlio data la prolungata gestazione del film); e lui, invece, al risveglio, il mattino seguente, non può fare a meno di brutalizzarla, dicendole che cucina uova schifose e aggiungendo: «Ti metti le ciglia finte. Sei stupida». Per converso, quando Chett insulta Louise, un'amica di Maria, le altre donne presenti ridacchiano fra loro, malignando e schernendo la malcapitata.
È una giostra di ribaltamenti. Nella scena più straordinaria del film, la prima delle lunghe estenuanti "sedute" di Cassavetes in tempo reale, con dilatazione smisurata dell'infinitesimale, Dick e Maria, a tavola all'ora di pranzo, discutono di Darlene e Freddy, una coppia come loro, con figli ormai grandicelli e un matrimonio a pezzi. A un certo punto, per proteggersi dalla fantasmizzazione di sé che involontariamente le loro parole hanno evocato, prendono a beffarla, a frantumarla, con risate fragorose, abnormi, incongrue. E prende a frantumarsi anche la visione ravvicinata dei loro volti, "tagliati" da angolature sghembe, scissi, mai insieme nello stesso fotogramma, sbalzati da una dinamica sussultoria dell'immagine, sempre saettante in più direzioni. La cospirazione parodica degli opposti continua. Prendiamo i due grandi squarci polifonici del film, quello a casa di Jeannie e quello in discoteca, con Maria e i suoi amici (è lì che incontra Chett, come in seguito, in Una moglie, Mabel preleverà Garson Cross in un bar e se lo porterà a casa per la notte). In entrambi, veri e propri caleidoscopi di smorfie (faces significa anche questo), impietose pantografie di sciattezze, la pletora dei convenuti improvvisa un "carnevale" a base di motteggi e canti per dissimulare l'imbarazzo e lo spleen di esistenze dilaniate, per confonderli e confondersi in una promiscuità ottundente. Nel secondo, in particolare, lo sfogo del canto assomiglia a quello dell'ubriaco, stanco di tutto, della propria solitudine e della festa che avrebbe dovuto placarla.
Comincia qui quell'epopea di guitti spesso sbracati che scandirà, di film in film, la complessa orchestrazione cassavetesiana dello spaesamento collettivo, sintomo peculiare - per il regista - del nostro presente. Lo stesso sconsolante adulterio di Maria è chiosato, all'alba, dalla grottesca fuga di Chett sul tetto, non appena si profila l'arrivo di Dick. E persino il successivo incontrarsi di Dick e Maria, ambedue pirandellianamente adulteri l'uno all'insaputa dell'altro, lungo una scala troppo stretta che li costringe a scambiarsi le posizioni nel tentativo di evitarsi, è il definitivo suggello farsesco a una «commedia degli errori» dai sottintesi terribilmente seri, addirittura laceranti. «Odio la vita. Non ti amo più»: sono le ultime parole di Maria (e del film), ma sono come tuffate in una dimensione di tale allarme generale che l'allarme personale di cui sono un'eco non fa più specie, oppure assume una "specie" stravolta, deformata. L'abilità di Cassavetes - già intravista in Ombre - nel rimescolare le carte dello scontento per farle apparire meno brutte di quanto non siano in realtà e salvare così - truccandola - una partita data per persa, in Faces diventa una tecnica ormai affinata. |
Autore critica: | Sergio Arecco |
Fonte critica: | John Cassavetes, Il Castoro cinema |
Data critica:
| 10/1980
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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