Repulsion - Repulsion
Regia: | Roman Polanski |
Vietato: | 18 |
Video: | L'unita' Video |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Gerard Brach, Roman Polanski |
Sceneggiatura: | Gerard Brach, Roman Polanski |
Fotografia: | Gilbert Taylor |
Musiche: | Chico Hamilton |
Montaggio: | Alastair McIntyre |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Catherine Deneuve (Carol), Yvonne Fourneaux (Helen), Helen Fraser (Bridget), John Fraser (Colin), Hugh Futcher (Reggie), Ian Hendry (Michael), Monica Merlin (Mrs. Renlesham), Valerie Taylor (Madame Denise), James Villiers (John) |
Produzione: | Compton |
Distribuzione: | Cineteca del Friuli - Lab80 |
Origine: | Gran Bretagna |
Anno: | 1965 |
Durata:
| 105’
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Trama:
| A Londra, una giovane donna, Caroline Ledoux, che lavora in un istituto di bellezza, vive con la sorella Helen. I suoi frequenti momenti d'astrazione sembrano dovuti a sogni d'amore, ma in effetti ella soffre per la presenza in casa di Michael, l'amante della sorella; e lo stato ansioso si sviluppa in schizofrenia sempre più intensa, tanto da allontanarla da Colin, il suo innamorato. Questa repulsione diviene ossessione quando, di notte, mentre echeggiano nell'aria i rintocchi della campana del convento vicino, ascolta i sospiri amorosi di Helen e di Michael. Nonostante le sue suppliche, i due amanti l'abbandonano per trascorrere un periodo di vacanza in Italia. Rimasta sola, Caroline si chiude in se stessa e soffre d'allucinazioni che culminano con la visione di uomini in atto di violentarla. Tornata al lavoro, deliberatamente ferisce una cliente, e la visione del sangue la sconvolge del tutto. Di ritorno a casa, e completamente al di fuori della realtà, quando Colin, insospettito dal suo atteggiamento, penetra violentemente nell'appartamento, lo uccide. Altrettanto fa con il padrone di casa, venuto per riscuotere l'affitto. Diversi giorni dopo, quando la sorella e l'amante tornano, la trovano morente per inedia nell'appartamento sconvolto e popolato di cadaveri.
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Critica 1: | La lenta discesa di Carol Ledoux (C. Deneuve), manicure belga a Londra, verso la dissociazione psichica. Lasciata sola in casa dalla sorella (Y. Furneaux), è vittima di incubi, allucinazioni sessuofobiche, deliri. Quando due uomini un corteggiatore e il proprietario di casa penetrano nell'appartamento, vengono uccisi. Scritto con Gérard Brach con cui a Parigi aveva già collaborato per un episodio di Le più belle truffe del mondo (1963), è il primo lungometraggio realizzato da R. Polanski fuori dalla Polonia. Opera di realismo psicologico, ma anche fantastica dove la poetica degli oggetti, costante nel suo cinema, acquista una forza visionaria in cui si sentono le influenze dell'espressionismo tedesco, di Cocteau, dei macabri marchingegni del cinema di spavento e dell'orrore. È la descrizione "del paesaggio del cervello di Carol" (R. Polanski), ma anche l'analisi puntigliosa dell'itinerario sociale ed esterno da lei compiuto per "arrivare a sé stessa". Magistrale fotografia di Gilbert Taylor, musiche di Chico Hamilton, Orso d'argento al Festival di Berlino. E una Deneuve di straziante intensità. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | (…) Ricorrere agli schemi rigidi e pedanteschi dei «generi», metodo critico discutibile in generale, appare impossibile nel caso di Repulsion. Il goffo tentativo di quadratura del cerchio deve lasciare il posto a un'analisi del film che affondi le sue radici nell'humus complesso e contraddittorio che lo percorre dalla prima all'ultima sequenza, senza tentare frettolose e approssimative riduzioni problematiche. Repulsion descrive la lenta discesa di Carol Ledoux verso la dissociazione psichica. Polanski accetta le categorie dell'escatologia cristiana, il regno di Dio e di Belzebú, i cori angelici dei buoni, dei normali, dei saggi, dei difensori delle leggi umane, dei martiri delle verità eterne, e le terrificanti malebolge in cui si dibattono i malvagi, gli invertiti, i folli, gli eversori, i criminali, gli atei e i blasfemi. Polanski non ha però letto La città di Dio o, perlomeno, non ne conosce il finale. Il Faust goethiano, al contrario, non sembra essergli del tutto ignoto. Nella cosmogonia cinematografica del regista polacco le forze del Male e dell'Irrazionale finiscono sempre per trionfare. Di fronte all'estasi contemplativa e al serafico ordine del Paradiso borghese, la loro affermazione non è la vittoria del disvalore sul valore, né di un valore diverso eppure simile al Bene ma il trionfo di un valore piú profondo perché piú tragico, piú autentico perché piú crudele. Per dare fuoco alle polveri antiborghesi Polanski guarda a Mann, senza peraltro rinnegare il bagaglio culturale del pessimismo polacco. La sua lugubre fede decadente lo guiderà tra i fantasmi ossessivi di Repulsion, tra gli anacronistici vampiri di Per favore... non mordermi sul collo, tra gli ambigui stregoni di Rosemary's baby, tra le angosciose streghe di Macbeth ad annunciare la necessità di una nuova Apocalisse che sappia rimettere il mondo sui piedi.
«La follia fa paura perché sapete che voi arrivate a voi stessi» (« Cahiers du Cinéma » 208 1969). La definizione che Polanski dà della malattia mentale è punto fermo e imprescindibile per comprendere il
significato della malattia mentale della protagonista. La caduta nel vortice della dissociazione psichica è provocata dall'aggressività del microcosmo sociale in cui Carol è costretta a vivere. Soltanto la descrizione del mondo borghese, che si sfalda attorno a lei, e delle sue leggi di violenza, tanto piú dure quanto piú prossima appare la fine, danno ragione e spessore sociale alle tragiche allucinazioni che attendono lo spettatore, costretto da Polanski a tuffarsi nel mondo interiore di Carol.
L'occhio della protagonista, che fa da sfondo ai titoli di testa, è sbarrato sul volto di morte della cliente, che sembra decomporsi sotto la maschera di crema e che riesce a scuotersi solo per ordinarle di accelerare i tempi. Dalla prima sequenza dunque inizia il processo di rifiuto da parte di Carol della realtà esterna, che si presenta sotto le non mentite spoglie dello sfruttamento. La solidarietà familiare è annientata dalla presenza invadente di Michael, l'amante della sorella, maschio irruento per cui prova attrazione e repulsione al tempo stesso. Anche Londra, la sua vita frenetica e rumorosa, sembra inchiodare la giovane, emigrata dal Belgio, alla sua solitudine. Lungo i viali della metropoli sventrati da improvvise voragini, su marciapiedi segnati da profonde spaccature, Carol fugge la città prima che essa sprofondi completamente erosa. Sfruttata sul posto di lavoro, spersonalizzata e frustrata dal suo desiderio di affetto da complessi rapporti familiari, ridotta a microscopico ed inutile relitto nel vasto oceano londinese, la protagonista fugge la società che detesta nelle quiete penombre del suo appartamento, che la sorella e Michael hanno abbandonato per una breve vacanza. Il rifiuto del sesso. Il rifiuto del mondo. La fuga continua. La frustrazione cova sotto le ceneri della follia un inconscio desiderio di rivolta omicida.
Carol riscopre nei silenzi agghiaccianti dell'appartamento il calore del ventre materno, al punto di restare afferrata per sempre al loro fascino stregonesco. Impossibile uscirne: attraverso il processo di dissociazione psichica essa intuisce d'istinto il senso della soggettività negata, e, attraverso il progredire della follia, riscatta a livello irrazionale la volontà di una prassi dissacrante, obnubilata dalle inibizioni psicologiche imposte dalla società. Come sempre in Polanski, il dramma scatta dalla viva dialettica fra spazio chiuso e spazio aperto, dalla coscienza che soltanto all'interno di un cerchio tragico è possibile avvertire le proprie segrete aspirazioni, per incarnarle poi in azioni positive. Coscienza amara, perché la consapevolezza della prassi, prigioniera dello spazio chiuso, non riesce a cancellare il sogno di un agire umano proiettato in un fuori dove la società gioca da sempre le sue partite decisive.
L'asettico appartamento, retto dalle ferree leggi domestiche della sorella, si trasforma, per l'intervento della soggettività dissociata di Carol, in unità vitale e repellente. Polanski impone alla macchina da presa l'obbiettivo deformante della fantasia allucinata della protagonista. Mentre il soffitto si abbassa a comprimere l'angoscia in una morsa claustrofobica, le pareti si aprono in ampie crepe con lugubre lamento, si dilatano a dismisura di fronte all'incalzare delle ombre, smarriscono ogni fisica consistenza nell'incubo di un molle impasto. Lo spazio ha abiurato a ogni fede euclidea; il tempo, ormai dimentico del progredire meccanico delle lancette, si decompone lentamente in macabra sintonia con il coniglio che imputridisce sul piatto.
Gli oggetti, elementi espressivi fondamentali della poetica polanskiana, acquistano in Repulsion valenza drammatica diversa. L'armadio del primo cortometraggio, la slitta dei Mammiferi, il coltello disperso nei laghi di Masuria, assolvevano funzione determinante a livello narrativo. In Repulsion, cosí come poi anche in Cul de sac, essi acquistano anche e soprattutto valore espressivo. Le oscillazioni ossessive del lampadario, le patate metamorfosate da infiorescenze vermiformi in bestie immonde, il coniglio divorato dagli insetti, scandiscono il tempo nella sua lenta discesa verso l'annichilimento e offrono plastica densità agli incubi di Carol. La «poetica degli oggetti», su cui sarà necessario tornare a soffermarsi, presenta cadenze deliranti e kafkiane. Il dettaglio insignificante, osservato ripetutamente al microscopio del realismo senza mutarne il fuoco, appare stravolto e allucinante. Polanski percorre sentieri già battuti da Hitchcock ma li rinnova con la carica visionaria tipica del suo stile. Non disdegna infatti la possibilità di rivisitare l'espressionismo tedesco, di scomodare Cocteau o il Poe di Il pozzo e il pendolo, né tanto meno di riproporre i macabri marchingegni della vecchia pellaccia di Jean Ray. Utilizza queste premesse formali per mutare l'inanimato appartamento in una pianta vorace. In questo la struttura drammaturgica di Repulsion risulta diversa da quella di L'angelo sterminatore di Buñuel, a cui per altri versi sembra molto vicino. Lo spazio chiuso e lo spazio aperto nel film del regista spagnolo sono vasi non comunicanti, o forse meglio, cerchi concentrici, simili eppur infinitamente distanti quando scocca l'ora fatale. Lo spazio chiuso di Repulsion è al contrario un fiore carnivoro che permette un rapporto dialettico unidirezionale, dall'esterno verso l'interno.
Il giovane spasimante e il padrone di casa penetrano a viva forza nell'abitazione ad accendere della loro violenza l'abulia schizofrenica di Carol, ma non esiste per loro possibilità di fuga se non nella morte. Colin sfonda la porta per declamare alla donna amore e comprensione, il locatario usa la chiave per entrare in casa a riscuotere l'affitto e a tentare equivoci approcci. Il tempio della dissociazione è per sempre violato. Al di là delle vuote affermazioni di solidarietà pelosa, l'irruzione dei due uomini rappresenta l'estrema aggressione della società, decisa ad infrangere in ogni modo il cristallo della soggettività di Carol. È necessario che il mondo esterno forzi il recinto che delimita l'area drammatica sacra alla protagonista, perché essa possa passare dalla consapevolezza alla prassi in cui si realizzano i vuoti fantasmi della rivolta interiore. Attraverso la violenza della società, che la spinge all'alienazione mentale, Carol intravede i contorni sfumati dall'irrazionale, il volto ben piú ributtante della sua alienazione umana, da cui riesce a liberarsi solo per difendere la soggettività ritrovata al fondo di infinite allucinazioni.
Repulsion è dunque certamente, come ha detto il cineasta polacco, la descrizione «del paesaggio del cervello di Carol», ma anche analisi dell'arco coscienziale da lei compiuto per «arrivare a se stessa». La violenza liberatrice assume valore positivo e demistificatorio solo all'interno del processo di estrinsecazione della coscienza di fronte a se stessa, mentre finisce per afflosciarsi impotente quando si pone sul piano della prassi reale a scalfire la dura scorza del mondo esterno. Gli omicidi di Carol, testimonianza di una ribellione criminale alle leggi repressive e frustranti della società, sono ridotti all'umile rango di follia dagli uomini che ruminano a testa bassa un'esistenza borghese.
Il ritorno di Helen e Michael, la scoperta dei due cadaveri, l'imbarazzato e grottesco comportamento dei vicini, che guardano Carol con freddo terrore, senza un barlume di umana solidarietà, riconducono la narrazione sui binari dell'oggettività. Lo spettatore che si rifiuta di «arrivare a se stesso» può tirare un sospiro di sollievo. Il mondo esterno ha espugnato l'ultima trincea: l'oggettività torna a regnare sul deserto infinito.
Follia o sconfitta di una rivolta irrazionale? Carol siede in terra muta ed assente. Afasia universalis o rifiuto di una società, che sa vincere ma non convincere? «Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in quest'altro. Voglio solo che non sia sicuro di niente. È questa la cosa piú importante: l'incertezza» («Cahiers du Cinéma» 208, 1969). L'ambiguità dell'opera aperta affida alla coscienza critica dello spettatore la scelta della soluzione finale. (…) |
Autore critica: | Stefano Rulli |
Fonte critica: | Roman Polanski, Il Castoro Cinema |
Data critica:
| 3/1975
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Critica 3: | Ad una prima analisi, Repulsion è un film di terrore puro. Non è un difetto di poco conto per un audience satura di Fantômas pastorizzati in autoclave, prigioniera di un confort morale rigorosamente asettico, del quale l’orribile istituto di bellezza dove lavora Carol è la replica approssimativa sottovetro. Come scriveva François Truffaut: «La paura è un’emozione nobile e può essere una cosa nobile fare paura. È nobile confessare che si ha paura e che ciò ha procurato piacere. Un giorno o l’altro, solo i bambini avranno ancora questa nobiltà». E aggiungeva – a proposito di Gli uccelli – che non era stato perdonato a Hitchcock di averci voluto spaventare e soprattutto di esserci riuscito. Per quanto paradossale possa sembrare, sono più o meno gli stessi rimproveri che sono stati rivolti a Polanski. Penso a quel cronista stupito e furiosamente deluso di non trovare affatto qui le ingenue attrattive di certi film di paura. A malapena l’esegeta, seguendo la moda, arriva a simulare qualche piacere alla proiezione di un mediocre Freddie Francis che già si trovava a confrontarsi con un’opera apparentemente dello stesso registro, ma infinitamente più elaborata e, a conti fatti, più intelligente della media delle produzioni correnti. Come prendere le distanze da tutto ciò? Come fuggire al film se i procedimenti rifiutano di farsi vedere ad un primo colpo d’occhio? Ne verranno una confusione ed uno smarrimento comprensibili ai quali si farà fronte accusando Repulsion di essere una farsa macabra o un esercizio grandguignolesco, ciò che precisamente il film di Polanski non è in nessun momento. Bisogna notare a questo proposito che la prima parte del film, prima dell’assassinio, è certamente la più angosciante e la più terrificante. Infatti non veniamo messi a confronto con alcuna situazione identificabile e quindi rassicurante. Polanski si accontenta di svelare con precauzione i segni ai quali, al momento opportuno, darà un senso. Come il personaggio di Carol, attorno al quale si muove con movimento pendolare, il film è ancora vuoto, caricato di un potenziale di terrore che non tarderà a manifestarsi, ma del quale è impossibile anticipare la forma fisica. Questo universo di limpidezza felpata e di erranze sonnambulesche si impone come il veicolo ideale della paura. Non è solamente la calma prima della tempesta – il che rivelerebbe alla fine dei procedimenti usitati – è, in sé, la descrizione di un autentico incubo condizionato dove le forme e gli oggetti più quotidiani diventano medium incomprensibili della paura. Un incubo immobile, dunque, che evoca senza fatica quegli insopportabili locali rigorosamente insonorizzati dove il più piccolo fruscìo prende una dimensione apocalittica. Contrariamente a quanto è stato scritto, Carol non è indifferente alle cose del sesso. Mettiamo i puntini sulle i: si tratta di una ninfomane, ma lei sola sa, in sogno, farsi l’amore. Le sue allucinazioni sono popolate di stupri che, per il loro carattere ossessivo, sono totalmente all’opposto della sessualità normale della sorella. Quando sente la coppia nella camera vicina, i gemiti e i lamenti, che indicano con stupefacente realismo le differenti fasi dell’orgasmo, sono per lei richiami indecifrabili provenienti da un mondo sconosciuto. Proprio per il piacere che è in grado di dare – di infliggere? – Carol detesta il maschio. Quando l’approccio diventa troppo carico di implicazioni sessuali (le avances del proprietario) lei non si accontenta solo di fracassarne il cranio; impugna un rasoio che sottintende la funzione di castrazione. Ancora una volta, anche in questo film di Polanski, c’è il ritratto di una donna. Ritratto senza compiacimento alcuno, dove nessuno viene risparmiato, a cominciare da quelle temibili tardone, fanatiche del lift e del peeling, che danno all’amore un sapore di fibre sintetiche. Solo Carol beneficia di tanto in tanto di una reale simpatia o di uno sprazzo di pietà dopo il terrore. Senza dubbio, nelle ultime inquadrature, si è riconciliata con se stessa. Senza dubbio è troppo tardi e Polanski alla fine acconsente – come se ciò non avesse più importanza – a svelare il viso di Carol bambina. Questo sguardo straordinario – il solo che non fissa l’obiettivo del fotografo – che si congiunge nel tempo con l’altro sguardo che apriva il film. |
Autore critica: | Michael Caen |
Fonte critica: | Cahiers du Cinéma, n. 176 |
Data critica:
| 3/1966
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | |
Autore libro: | |
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