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Dreamers (The) - I sognatori -

Regia:Bernardo Bertolucci
Vietato:14
Video:Medusa
DVD:Medusa
Genere:Drammatico
Tipologia:I giovani e la politica
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Gilbert Adair
Sceneggiatura:Gilbert Adair
Fotografia:Fabio Cianchetti
Musiche:
Montaggio:Jacopo Quadri
Scenografia:Jean Rabasse
Costumi:Louise Stjernsward
Effetti:Gregoire Delage
Interpreti:Louis Garrel (Theo), Eva Green (Isabelle), Michael Pitt (Matthew), Robin Renucci (padre), Anna Chancellor (madre), Florian Cadiou (Patrick), Anna Karina (Odile), Jean-Pierre Kalfon (se stesso), Jean-Pierre Leaud (se stesso)
Produzione:Peninsula Films - Fiction Films - Medusa Films - Recorded Pictures Company
Distribuzione:Medusa
Origine:Francia - Gran Bretagna - Italia
Anno:2003
Durata:

130’

Trama:

Rimasti soli a Parigi nell'estate del 1967 (che precede la grande contestazione), dopo che i loro genitori sono partiti per le vacanze, Isabelle e suo fratello Theo invitano nel loro appartamento l'amico Matthew, un americano conosciuto per caso alla Cineteca Nazionale. I tre decidono di chiudersi in casa stabilendo ferree regole di comportamento. Poco alla volta arrivano a conoscersi a fondo attraverso una serie di giochi mentali sempre più estremi.

Critica 1:Il Sessantotto è prologo ed epilogo in due manifestazioni: una di rivolta culturale all'inizio, e alla fine una molto più dura che definisce separandoli violenti e non violenti. Ma il bellissimo film comunica soprattutto il rimpianto della giovinezza con le sue passioni, le sue allegrie, le sue furie".
Autore critica:Lietta Tornabuoni
Fonte criticaLa Stampa
Data critica:

10/10/2003

Critica 2:Il Sessantotto è altrove, è un sentimento, è l’aria di un periodo di grandi speranze giovanili, è la certezza di un mondo che sarebbe mutato anche per merito dei ragazzi che volevano cambiarlo: ma The Dreamers - I sognatori di Bernardo Bertolucci, presentato fuori concorso alla Mostra, è un film su tre adolescenti che, in autoreclusione passionale in un appartamento parigino, fanno l’amore. Soltanto all’inizio e alla fine ci sono due manifestazioni. La prima rievoca la protesta collettiva e alla fine vittoriosa del 1968 contro il licenziamento, voluto dal ministro Malraux, di Henry Langlois, creatore e direttore della Cinematheque di Parigi, santuario e università di registi e cinefili internazionali: il film mescola a perfezione documenti visivi d’epoca (con Truffant, Godard, Belmondo, Malle, Jean-Pierre Leaud) e lo stesso Leaud che un quarto di secolo dopo, nella ricostruzione reclama un volantino tra grida e tumulti di ragazzi e cariche della polizia. La manifestazione conclusiva è molto più dura: il corteo che scandisce «dans la rue» (scendete in strada) e «questo è solo l’inizio», sassi, incendi, automobili rovesciate, fumo, cariche poliziesche, bottiglie molotov, un ragazzo americano che quasi piangendo fa professione di non-violenza, «questo è sbagliato, è violento, sono loro che fanno questo e non noi, noi facciamo l’amore e il cinema, è sbagliato», ma gli amici francesi non gli danno retta, corrono avanti all’attacco con le loro molotov, e lui volta le spalle alla manifestazione, se ne va. In rari momenti, chiusi nell’appartamento, parlano di Mao («la rivoluzione non è un pranzo di gala»), dell’unanimità sospetta del Libretto Rosso delle Guardie Rosse. Ma sono appena parentesi. Nella storia, tratta dal romanzo di Gilbert Adair, un ragazzo americano a Parigi conosce alla Cinématheque due ragazzi francesi, sorella e fratello gemelli, che lo ospitano in casa durante un’assenza dei genitori; tutti e tre cinefili appassionati, fanno giochi di cinema e di eros, si amano esultano e soffrono, invadono l’appartamento borghese con i loro corpi belli, giovani e nudi, sono gelosi, si conoscono psicologicamente e carnalmente, crescono, diventano adulti o quasi. I giochi di cinema, molto divertenti e raffinati, comprendono citazioni da vecchi film, alla maniera già sperimentata da Alain Resnais in Mon oncle d’Amerique. Quiz: chi da fastidio a chi ballando, in quale film? Ed ecco Fred Astaire in Cappello a cilindro che, danzando, disturba il sonno di Ginger Rogers al piano di sotto. Greta Garbo esplora una stanza che vuole ricordare per sempre ne La regina Cristina; Jean Seberg vende il «New York Herald Tribune» sugli Champs Elysees nel primo film di Godard, Fino all’ultimo respiro; il ragazzo francese si masturba davanti ad una fotografia di Marlene Dietrich che riappare in Venere bionda, i mostri di Freaks ripetono momento di allegria («È uno dei nostri!») e Scarface ritorna vincitore. I giochi dell’eros, nell’appartamento vasto e labirintico, scherzosi e profondi, stabiliscono un’intimità naturale. Quando il ragazzo americano possiede la ragazza francese da lui creduta molto esperta, si accorge che è invece vergine: e il sangue dell’imene, stropicciato sulle facce dei due giovani amanti, è come una bandiera. I due gemelli si amano, sulla loro congiunzione manca soltanto il coito, dormono e vivono insieme, sono come un’unica persona nel legame che garantisce loro un’infanzia perenne («Dimmi che è per sempre», è l’implorazione di lei rivolta al fratello). Nella casa, di giorno in giorno, l’atmosfera si fa un poco soffocante, quasi non escono più, la ragazza è tentata dal suicidio, i genitori che tornano una sera li trovano insieme nudi e addormentati che ripartono lasciando un assegno: finché un sasso non infrange un vetro, i tre scendono in strada, si separano, e alla conclusione del film Edith Piaf canta «Je ne regrette rien», non rimpiango nulla, la nostalgia della giovinezza è una compagna amata. In The Dreamers, interpretato da attori giovanissimi ben scelti e magnificamente diretti (Michael Pitt, Eva Green, Louis Garrel), Bertolucci ha realizzato con grande maestria le scene più difficili al cinema, quelle di sesso e quelle di manifestazioni; e ha fatto un film pieno di vitalità, energia e freschezza, bellissimo.
Autore critica:Lietta Tornabuoni
Fonte critica:La Stampa
Data critica:

2/9/2003

Critica 3:The Dreamers è un film in cui le citazioni si fanno stile, poetica. Per cui, elenchiamone alcune: sparse nella trama, Bertolucci ci mostra scene di Shock Corridor di Fuller, Fino all’ultimo respiro e Bande à part di Godard, The Cameraman di Keaton, Cappello a cilindro con Fred Astaire, Freaks di Browning, Venere bionda di Sternberg (la famosa scena di Marlene vestita da scimmione) e tanti altri, per finire con Mouchette di Bresson, la più inaspettata ed emozionante di tutte. In colonna sonora, invece, ci sono Jimi Hendrix (Third Stone From the Sun, fin dai titoli di testa), i Doors, Janis Joplin, Bob Dylan e i Grateful Dead, mescolati a Michel Polnareff, Charles Trenet (La mer, ovviamente), Nino Ferrer e Françoise Hardy (Tous les garçons et les filles). Come vedete, Bertolucci mescola i suoi due mondi di riferimento cinefilo, culturale, sentimentale, politico: l’America e la Francia. E li mescola con la propria vita, identificandosi sia in Matthew, ragazzo americano in vacanza a Parigi nei giorni roventi del maggio ‘68 e assiduo frequentatore della Cinémathèque (una vacanza di formazione che Bernardo fece nel ‘60, in piena esplosione Nouvelle Vague), sia con i gemelli francesi Theo e Isabelle, come lui figli di un poeta, borghesi e innamorati della rivoluzione. Matthew è l’America ingenua e aperta al nuovo, Theo e Isabelle sono l’Europa colta, borghese e un po’ corrotta, chiusa nei propri giochi intellettuali e tarda ad accorgersi di ciò che sta avvenendo sulle barricate che già bloccano i boulevard. Chiusi in un appartamento, reciprocamente attratti, i tre ragazzi ricreano una situazione che (per citazione, stavolta, «segreta»: Bertolucci ipse dixit) fonde il triangolo di Jules et Jim con la clausura auto-distruttiva di Ultimo tango a Parigi. Il sesso diventa strumento di comunicazione, ma sempre vissuto in maniera mediata (ancora una volta, cinefila: spudorata, persino fastidiosa, e pure a suo modo candida e disarmante la scena in cui Theo, su ordine di Isabelle, si masturba davanti alla foto di Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro). Ma se gli amanti di Truffaut, così come quelli del Bertolucci di trent’anni fa, trovavano nella morte l’unica via d’uscita dalle proprie ossessioni, stavolta c’è una speranza. O forse un riproporsi dell’utopia. Sta di fatto che anche Isabelle, ispirata dalla Mouchette di Bresson, medita il suicidio di gruppo: ma poi un sasso, scagliato dalla via, rompe il vetro di una finestra e i tre giovani vengono trascinati «dans la rue», nel cuore della rivolta. Il film termina con le vie di Parigi che bruciano, per le molotov scagliate contro i «flics», e con la chitarra di Jimi Hendrix che risale, violenta, in colonna sonora. I detrattori del film avranno gioco facile nel dire che i sessantottini di Bertolucci sono immaturi, pensano solo al sesso e al cinema, non sanno nulla della vita. Si saranno così fermati alla prima lettura di The Dreamers, opera apparentemente semplice e in realtà complessa, stratificata. Il primo strato è il ‘68 come ce l’hanno raccontato i suoi protagonisti più ingenui: rivolta spensierata, liberazione dei sensi, sesso droga & rock’n’roll. Queste cose, nel film, ci sono: ovviamente incrociate con il cinema che per Bertolucci rimane l’arte più rivoluzionaria, che libera i corpi e scoperchia le menti. Ma il film è un modo di confrontarsi con gli aspetti mitici del ‘68, di valutare la loro tenuta nel tempo. Bertolucci sa benissimo che quel cinema, quella musica, quella carica creativa non ci sono più: lo sa talmente bene che non prova nemmeno a «rifare» Godard o i classici hollywoodiani, ma li inserisce direttamente nel film, come dei tasselli di coscienza, come delle «madeleines» proustiane attraverso le quali i tre ragazzi si costruiscono una memoria «in progress», sono nostalgici di se stessi nel momento stesso in cui vivono (meravigliosa, in questo senso, la sequenza in cui giocano a rifare la scena di Bande à part in cui gli eroi di Godard corrono festosamente per i saloni del Louvre). La nostalgia è una chiave forte del film. Ma non è la nostalgia di chi oggi è vecchio e rimpiange la gioventù: è la nostalgia di chi allora sapeva già di vivere in un sogno destinato a scontrarsi con le dure leggi della realtà. In questo senso, The Dreamers dice una cosa molto chiara: il ‘68 non ha cambiato il mondo a livello di macrostrutture, di istituzioni politiche; ma l’ha profondamente cambiato nelle microstrutture, nei nostri comportamenti quotidiani, nel modo stesso di pensare e di affrontare la vita. Se ci «limitiamo» alla politica, il ‘68 è stato un fallimento e aveva ragione Pasolini, maestro e amico di Bertolucci, quando scriveva la sua provocatoria poesia «contro» gli studenti borghesi e «a favore» dei poliziotti proletari. Ma se ci allarghiamo all’esistenza, la dolorosa profezia di Pasolini non è più univoca, la forbice tra illusioni e conquiste si restringe. The Dreamers è l’opera di chi ha avuto un sogno, e oggi ne rievoca la fragilità senza dimenticarne la bellezza. Fra qualche giorno un altro sessantottino, Marco Bellocchio, verrà al Lido a raccontarci il delitto Moro, uno dei tanti incubi che hanno distrutto quel sogno.
Autore critica:Alberto Crespi
Fonte critica:l'Unità
Data critica:

2/9/2003

Libro da cui e' stato tratto il film
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