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Diario di un curato di campagna (Il) - Journal d'un cure' de campagne

Regia:Robert Bresson
Vietato:No
Video:S.Paolo film
DVD:
Genere:Drammatico - Psicologico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Georges Bernanos
Sceneggiatura:Robert Bresson
Fotografia:Léonce-Henry Burel
Musiche:Jean-Jacques Grunenwald
Montaggio:Paulette Robert
Scenografia:Pierre Charbonnier
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Claude Laydu Il curato d'Ambricourt, Leon Arnel Fabregard, Antoine Balpetre' Dottor Delbende, Jean Danet Olivier Il prete spretato, Jeanne Etievant Padrona di casa, Marie-Monique Arkell La contessa, Andre' Guibert Il curato di Torcy, Bernard Hubrenne Curato Dufrety, Nicole Ladmiral Chantal, Martine Lemaire Seraphita, Nicole Maurey L'istitutrice, Jean Riveyre Il conte
Produzione:Union General Cinematographique
Distribuzione:Cineteca Griffith
Origine:Francia
Anno:1951
Durata:

110'

Trama:

Un giovane sacerdote, appena uscito dal seminario, viene chiamato ad esercitare il suo ministero, come parroco, ad Ambricourt, modesto villaggio francese. Egli è deciso ad ispirare la sua azione non semplicemente alla lettera, ma allo spirito del Vangelo; ma questo suo atteggiamento lo mette in contrasto coi parrocchiani. Dalle circostanze e dal sentimento del dovere, rafforzato dalla profonda fede, il giovane sacerdote è indotto ad occuparsi della situazione esistente nella famiglia d'un conte. Questi ha una relazione con la governante della figliola giovinetta, Chantal; la contessa trascurata dal marito, tutta assorta nel ricordo d'un figlioletto morto, non si cura della figliola, è nemica di tutti, ribelle a Dio. Il giovane parroco l'avvicina, l'induce ad una confessione completa e la riporta alla Fede; ma la notte seguente la contessa muore. Questo episodio in cui il sacerdote ha potuto salvare un'anima, rafforza la generale ostilità contro di lui. Un nuovo assalto del male, che lo travaglia, l'induce a consultare un medico cittadino, dal quale apprende d'essere affetto da cancro. Egli morrà poco dopo, dilaniato nel corpo, ma certo della Grazia Divina.

Critica 1:Splendida, austera trasposizione del romanzo (1936) di Georges Bernanos. "Un'opera tutta fatta di verità interiore ha potuto per la prima volta passare sullo schermo senza la più piccola concessione" (Julien Green). Indimenticabile.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Prima del film di Bresson, due tentativi di adattamento erano stati scritti, ma poi rifiutati, nel 1947: il primo progetto, di Jean Aurenche, fu rifiutato da Bernanos (cominciava con la signorina Chantal che sputava l'ostia sul suo messale!); il secondo, di padre Brückberger, trasponeva la storia nel periodo dell'occupazione tedesca. Nel 1948, il produttore Pierre Gérin chiede a Bresson di tentare a sua volta. Bresson ci lavora per sei mesi, ma il suo lavoro è giudicato privo di interesse drammatico. Nel 1949 cambia allora produttore, e può girare esattamente quello che aveva scritto, a Equirre, nel Nord, dal febbraio all'aprile del 1950.
A Bresson non piaceva l'idea di un adattamento. Anche se aveva ampliato i testi che gli erano serviti come base per i suoi due primi lungometraggi, questa volta bisognava stringere, liberare i personaggi da una valanga di annotazioni psicologiche, trovare una continuità nel mezzo della mistura di fatti e pensieri, costruire dei rapporti umani ma soprattutto conservare la confessione dolorosa di una vita divisa tra le piccole faccende quotidiane, la lotta anima contro anima (con la contessa e sua figlia) e l'avventura mistica sul cammino dell'agonia di Cristo.
A quest'ultimo aspetto il cineasta ha prestato tutta la propria attenzione. Nel suo saggio, Jean Sémolué scrive che il film si presenta come una “epurazione del romanzo ”, nel quale i fatti (malattia, incomprensione, ostilità del castellano) “contano meno dell'influenza che essi esercitano” sul curato d'Ambricourt. Meno dispersivo che nel libro, “il senso del film è molto più chiaro di quello del romanzo: mostra le tappe di un cammino verso la santità ”. In effetti, l'abilità dell'adattamento è notevole. Bresson condensa numerose visite del curato di Torcy in una o due sole, e fa la stessa cosa con la contessina e con il conte. Così la lettera della contessa sfugge al curato durante l'in-contro con il conte, che segue immediatamente la morte della moglie; la lettera viene invece scoperta per caso den-tro al libro durante un precedente incontro nel presbiterio, che però il regista non prende in considerazione. Mol-tiplicando i rimaneggiamenti e gli spostamenti, Bresson ha strutturato i suoi passaggi (passaggi da una sequenza a un'altra) a partire da frasi essenziali, il più delle volte trat-te da due lunghi brani in cui Bernanos contrappone il curato a Chantal e poi alla madre di questa. In questo modo la tensione viene mantenuta con forza, e Jean Sémo-ué mostra come queste semplici puntualizzazioni si trasformino in articolazioni importanti.
Come nel suo approccio a Diderot, Bresson rispetta la struttura molto sbilanciata del romanzo, perché pensa che lo scrittore si riveli meglio attraverso questa organizzazione dei fatti, anche se un tale tipo di drammaturgia non corrisponde alle convenzioni cinematografiche. Il cineasta sacrifica invece alcuni personaggi (Sulpice Mitonnet, la signora Pégriot, il decano di Blangermont ... ), riduce un po' l'importanza di altri (l'istitutrice, la piccola Séraphita) e non mantiene la cesura dei tre capitoli di Bernanos (uno molto lungo, inquadrato fra due molto corti). Mantiene invece l'evoluzione che, dallo spazio molto ampio della parrocchia, si richiude prima sul prete e su due o tre personaggi (il curato di Torcy, Chantal, la contessa), per inquadrare alla fine solo il prete che sprofonda nella propria vita interiore quando si scopre prigioniero della Santa Agonia. Bresson precisa inoltre il proprio “sistema”: utilizza ormai solo pochi attori professionisti (Antoine Balpétré incarna il dottor Delbende, Marie-Monique Arkell la contessa ... ), e affida il ruolo principale del curato d'Ambricourt a un giovane sconosciuto e quello del curato di Torcy a uno psichiatra parigino.
Di fronte alla necessità di ridurre la lunghezza del romanzo, Bresson approfondisce la sua arte della litote, dell'ellissi e della sobrietà, ancora poco evidenti nei primi due lungometraggi. Dai primissimi piani del diario e del viso del prete all'inizio, fino alla famosa croce della fine, la carne si consuma fuori dal tempo (non vi è alcun riferimento temporale), ma al ritmo di una coscienza. Questa scienza della cancellatura fa miracoli nella scena del confessionale. Bernanos mostrava il curato mentre obbligava Chantal a inginocchiarsi e a recitare un atto di contrizione. Bresson elimina quest'aspetto movimentato: la giovane resta in piedi sul fondo e il curato d'Ambricourt non entra nel confessionale. È in primo piano di profilo e lo scambio è giocato al livello delle luci. Allo stesso modo, dalla scena con la contessa è stato eliminato il momento in cui il curato si scotta, mentre recupera il medaglione dal focolare, cosa che porta la castellana a fargli una fasciatura. La morte di quest'ultima è resa solo attraverso un effetto sonoro: si sente il soffio del prete che spegne la lampada. Una semioscurità inonda il quaderno sul quale si stende l'inchiostro fresco: “La signora contessa è morta questa notte”. Il rumore dei passi del curato sulle scale, sempre più precipitosi, consente all'immagine di permanere più a lungo di quanto sia necessario per la lettura.
Il cineasta ha accettato la sfida della trasposizione in immagini della vita spirituale, conservando la presenza materiale di un diario invece di sostituire la confessione con uno sguardo esterno che metta in scena i personaggi. Bernanos sarebbe stato allora tradito, poiché il romanzo mescola i diversi livelli del racconto (aneddoti, riflessioni, lunghi dialoghi, esami di coscienza, vale a dire narrazione e metafisica), e l'unità si impone proprio attraverso la scrittura del diario che tenta di fissare l'avventura interiore del sacerdote.
Per privilegiare l'aspetto spirituale, Bresson sopprime del tutto le rare informazioni psicologiche o sociali di Bernanos conservando al contempo il groviglio di annotazioni del diario. Alcuni temi si ripetono dunque diverse volte. Jean Sémolué ne trova tre (malattia, vocazione sacerdotale, sofferenza), ma il cuore del film è costituito da ciò che Estève chiama “la doppia tentazione del dubbio e della disperazione”. La solitudine cresce e il curato d'Ambricourt si impegna nella prova finale che lo porta a rivivere la Santa Agonia di Cristo. Si è così passati da una discussione ragionata sul tema del Bene e del Male (puntellata dai rapporti con il curato di Torcy e con il dottor Delbende) a un'esperienza mistica simile a quella di Anne-Marie (La conversa di Belfort), che può trovare una risoluzione solo nella morte. Nella sua personale Passione, non mancano né il sudario della Veronica (Séraphita asciuga con uno straccio il suo viso macchiato di sangue e di vino), né le cadute nel fango, come sotto il peso della croce, accompagnate da svenimenti (malattia? estasi?), sotto il cielo uggioso del Nord coraggiosamente rispettato dall'illuminazione di L.H. Burel che elimina al massimo i contrasti per sottolineare i grigi all'esterno e l'oscurità all'interno. Così il crocifisso della sua camera, lungi dal risaltare, è quasi sempre nell'ombra, mentre il volto del sacerdote è generalmente un po' più illuminato rispetto al resto, soprattutto nella famosa scena del confessionale con la signorina Chantal. Fuori non c'è mai il sole; dentro regna la luce smorzata dal paralume di una lampada a petrolio. Per Jean Sémolué, gli interni hanno la luce dei quadri di Georges de La Tour, e gli esterni “la nitidezza velata di tenerezza” tipica di Corot, “due pittori di una penetrante dolcezza ”.
Un punto di forza del romanzo, accentuato ulteriormente nel film, consiste nel legare intimamente il dolore fisico (il cancro allo stomaco) alla sofferenza morale (la solitudine, il dubbio) tanto da non sapere più che cosa il viso malaticcio e la magrezza di Claude Laydu dicano esattamente nel corso delle atroci crisi dalle quali il sacerdote esce esausto. Lo spettatore viene allora toccato nel cuore; la riflessione intellettuale giunge solo in un secondo tempo. Il “messaggio” passa attraverso un “transfert” di sensibilità, dapprima fisica, ma subito dopo anche spirituale.
Fin dall'inizio, Bresson restituisce il corrispondente cinematografico del diario facendo leggere al sacerdote la frase che l'immagine mostra scritta. In questo modo, “Bresson rende definitivamente giustizia di quel luogo comune della critica secondo il quale l'immagine e il suono non dovrebbero mai sovrapporsi. I momenti più commoventi del film sono proprio quelli in cui si presume che il testo debba dire esattamente la stessa cosa dell'immagine, ma lo dice in una maniera diversa ( ... ). L'immagine raggiunge, soprattutto verso la fine, una così grande potenza emotiva, proprio perché il film è tutto costruito su questa relazione”. (…)
(…) Bresson sottolinea il carattere letterario dell'opera mostrando molto spesso il quaderno, la scrittura, la mano, le pagine, la carta assorbente, il calamaio, la penna, oggetti che letteralmente spezzano il racconto propriamente cinematografico, incapace di liberarsi da questo dominio, anche se la voce fuoricampo fa spesso da intermediaria. Vi è una sorta di ritorno perverso al tracciato materiale del testo, che fa parte dell'immagine allo stesso titolo del volto del curato d'Ambricourt o della sua bicicletta, come se Bresson avesse voluto far riscrivere al suo interprete il romanzo di Bernanos sotto lo sguardo inquisitore della cinepresa. D'altronde il cineasta non ha mai trasformato il testo con lo scopo di accorciarlo. Taglia, leva e rincolla, ma rispetta le parole e le frasi con fedeltà al testo originale: “Come il blocco di marmo viene dalla cava, le parole pronunciate nel film continuano ad appartenere al romanzo”; voce fuori campo e voce in campo hanno sonorità molto vicine, tali da assicurare l'unità dell'opera.
Autore critica:René Prédal
Fonte critica:Tutto il cinema di Bresson, Baldini e Gastoldi
Data critica:



Critica 3:Sottigliezza, tensione interiore, compostezza figurativa: sono le qualità unanimemente riconosciute a quel regista solitario che è Robert Bresson (Bromont-Lamothe, Puy-de-Dóme, 25 settembre 1907). L'incontro fra lui e Le Journal d'un curé de campagne avvenne nel 1950, dopo che egli aveva girato Les anges du péché (1943) e Les dames du Bois de Boulogne (1945), il secondo ricavato da un episodio di Jacques le fataliste di Diderot. Fu un incontro, egli dice, casuale: una commissione ricevuta. Ma il risultato dimostra quanto fosse stata coerente, per Bresson, la scelta di quello che è considerato il capolavoro di Georges Bernanos (1888-1948). Non è un caso, del resto, che il regista sia tornato a ispirarsi allo scrittore cattolico, sedici anni dopo, per Mouchette. Il passaggio dalla pagina scritta alle immagini cinematografiche rappresenta un indubbio impoverimento del romanzo, privato dell'alone sociale che avvolge la vicenda del curato di Ambricourt. Ma non è questo che può interessare un Bresson. Nulla che nasca dalla complicazione esterna dei fatti e delle passioni può essere materia del suo cinema. “Un sospiro, un silenzio, una parola, una frase, uno strepito, una mano” ha scritto, rivolgendosi a se stesso, in Notes sur le cinématographe “il tuo modello nella sua interezza, il suo viso, fermo, il movimento, di profilo, di fronte, una visuale immensa, uno spazio ristretto”. Un quaderno, un foglio di carta assorbente, una mano che scrive. Una voce fuori campo legge: “Non credo di far niente di male annotando qui, giorno per giorno, con assoluta sincerità, gli umili e insignificanti segreti di una vita che non ha d'altronde misteri”. Il quaderno e la voce (il diario mostrato nella sua povera concretezza ed evocato da una parola atona, priva di emozione) saranno il filo conduttore della storia del giovane curato che, arrivando nella sua prima parrocchia, si imbatte in una umanità afflitta dalle contraddizioni del peccato. Tutti lo disprezzano e, forse, lo temono. Il suo osservare e intervenire per redimere - o, se non è possibile, per illuminare le coscienze - è scambiato per una indebita intrusione nella vita altrui. Il conte, che ha una tresca con la istitutrice della figlia, vede in lui un pericolo, lo riceve con malagrazia e appena può lo mette alla porta. La figlia stessa, sconvolta dal comportamento del padre, non comprende che cosa voglia. Una ragazzina perfida lo provoca e lo schernisce. Ma il curato sente che deve continuare la sua opera. Ne ha conferma quando riesce a toccare il cuore della contessa (che la perdita del figlio ha gettato nella prostrazione) e ad accompagnarla alla morte in grazia di Dio. A poco a poco le forze gli vengono a mancare. Un giorno va a Lilla e apprende da un medico che ha un cancro. Invaso dal terrore, si rifugia in casa di Dufréty, un compagno di seminario che si è spretato. Compie ancora un ultimo sforzo, per ricondurlo sulla via della fede. Il film termina con la lettera che costui ha scritto al curato di Torcy, per annunciargli la morte dell'amico e comunicargli le ultime parole che ha pronunciato: “Che cosa importa? Tutto è grazia”. La lettera dissolve lentamente su, una grande croce nera. Pochi movimenti (c'è solo un lungo carrello per accompagnare il colloquio fra il curato e Chantal, la figlia del conte), una fitta concatenazione di inquadrature immobili, un'atmosfera grigia e piovosa, un impiego discreto della musica, una generale sobrietà di toni (anche nelle punte drammatiche, come lo “scontro” fra il curato e la contessa) che lascia appena trapelare la fortissima tensione di fondo, un continuo stupore dinanzi al mistero delle cose (degli uomini, degli avvenimenti, del male): questo è il Journal di Bresson.
Autore critica:Fernaldo Di Giammatteo
Fonte critica:100 film da salvare, Mondadori
Data critica:

1978

Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

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