Senza tetto nè legge -
Regia: | Agnes Varda |
Vietato: | No |
Video: | General Video |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Disagio giovanile |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Agnes Varda |
Sceneggiatura: | Agnes Varda |
Fotografia: | Patrick Blossier |
Musiche: | Joanna Bruzdowicz |
Montaggio: | Patricia Mazury, Agnes Varda |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Sandrine Bonnaire (Mona), Laurence Cortadellas (Elaine), Joel Fosse (Paul), Stephane Freiss (Jean Pierre), Marthe Jarnias (Zia Lydie), Patrick Lepczinski (David), Macha Meril (Signora Landier) |
Produzione: | Cine Tamaris Film A 2 |
Distribuzione: | Academy |
Origine: | Francia |
Anno: | 1985 |
Durata:
| 105'
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Trama:
| Una campagna nel Mezzogiorno della Francia. Sul bordo di un campo, in una gelida alba invernale, un contadino trova il cadavere di una ragazza ventenne. Suicidio, omicidio o morte naturale, per il freddo terribile e gli stenti? La Polizia non ha elementi, nè trova documenti a riguardo della vagabonda, ma conclude per la terza ipotesi. Il film è il racconto delle varie dichiarazioni e testimonianze dei molti che hanno incontrato la giovane Mona: negozianti, barboni, una fitopatologa, la cameriera di una vecchia signora, un filosofo tornato alla natura che, con moglie e bambini, vive facendo il capraio e così via. Ed è, allo stesso tempo, la storia di una scelta di vita, tristemente conclusasi vicino alla strada, una di quelle che la ignota e taciturna ragazza, venuta da chi sa dove, percorreva ed amava nel suo incessante andare.
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Critica 1: | Mona, ex segretaria d'azienda e stenodattilografa, ha scelto la libertà della strada e la solitudine. In apparenza il film ha la struttura di un'inchiesta sulla sua morte, ma va ben oltre. Film vagabondo di grandi virtù stilistiche, con un linguaggio che ha la forza di essere semplice e la tenerezza rispettosa verso un personaggio raccontato ma non giudicato. Leone d'oro alla Mostra di Venezia 1985. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Si può eliminare, dall'analisi del film di Agnès Varda Senza tetto né legge, la coscienza della biografia di questa regista, discontinua e sempre affascinata da un'esperienza marginale del cinema (e della vita)?
Forse no. Così come i suoi film più recenti (cortometraggi, per lo più) rimanevano aggrappati alle case e ai muri, alle facciate e ai monumenti (Mur mur, il cortometraggio sulle Cariatidi parigine, lo stesso Daguerrotypes, girato nel chiuso di venti metri di quartiere, nella via della regista), allo stesso modo, con movimento opposto, ma assimilabile, Senza tetto né legge (il cui titolo è già una dichiarazione d'intenti) si preoccupa, invece, di assenza di case, di percorsi a morire sulla strada, di 'esterni', di case fatiscenti e occupate dai disperati della terra.
È una dialettica, questa, che, da sempre, affascina e incatena Varda, ma è anche il rivelarsi di una 'differenza' di vita che, negli anni '60 in particolare, ha segnato un'intera generazione di autori progressisti.
Il personaggio di Mona, non a caso, è stato costruito “dal vivo”, inseguendo, in tutta la Francia, le piste di un 'popolo dissidente' gettato sulla strada, accogliendo autostoppisti d'ogni sorta sull'automobile della regista che ascolta confessioni e rifiuti, accogliendo ragazzi in casa, come è successo con S., l'adolescente cui si ispira il film, presente durante tutta la lavorazione, nella stessa dimora della troupe. “Una volta - ricorda Sandrine Bonnaire - ha assistito alla proiezione dei giornalieri: ha visto la scena della morte, l'ho guardata chiedendomi cosa ne pensasse”. Nel film l'alter ego di Agnès Varda - madre ideale di tutti gli emarginati - è incarnato nella figura della studiosa di piante, Macha Méril.
Questo 'maternage' portato alle estreme conseguenze (ma che non sembra valere per gli attori dei suoi film, almeno stando alle dichiarazioni di Sandrine Bonnaíre) è, per Varda, un atteggiamento essenziale della vita, dunque della sua biografia personale. (...)
Mona, l'interprete di Senza tetto nè legge, era, dunque, già parte essenziale delle possibilità creative di Agnès Varda. Un'antica ossessione, tanto è vero che tutte le donne di Varda hanno tentato di assomigliarle, da Cleo (Cleo dalle 5 alle 7), a Viva, l'estremizzata star underground che compare assieme a Shirley Ciark in Lion's Love, alle due donne, tipizzate dal femminismo, che interpretano l'improbabile L'une chante, l'autre pas del 1977. Allo stesso modo, aveva tentato di assomigliarle anche il Depardieu dell'incompiuto Christmas Carol, un attore, non a caso, che nasce sotto il segno dell'ambiguità e della sensibilità, femminile (Duras e Varda sono le sue madri cinematografiche).
È vero, in Senza tetto né legge, c'è un evidente ritorno al cinema più fertile degli anni '60/70. Al di là di alcuni evidenti procedimenti formali (su cui ritorneremo) il tessuto di questo film cela una aspirazione all'assoluto e al sublime che il cinema successivo sembra aver dimenticato. Mona, infatti, non è l'ultima figura di 'sbandata' (bande à part avrebbe detto Godard) concepibile al cinema, ma un'attualizzazione della santità femminile, ricerca dell'estremo che diventa avventura solitaria e crudele sulle strade del mondo. Non è neppure la 'deriva' gelida e di fine-civiltà, che coglie le due autostoppiste di Messidor, splendido film di Tanner molto simile, nella minor fortuna, a quello di Varda.
Mona è dura e priva di cedimenti, non si lascia convincere dalla tranquillità borghese, ma neppure dalla fraternità di segno alternativo. Santifica se stessa attraverso la privazione e il martirio della carne, sperimenta la solitudine sino al parossismo, sino al deliquio che la coglie nel freddo bruciante dell'inverno, nella serra. E si fa Santa nella morte, il cui arrivo improvviso non contrasta, nonostante i terrori sordi che la colgono verso la fine dell'avventura.
La donna - da sempre - è al centro dell'universo narrativo di Varda, ma, per fortuna, la santità e il martirio sono altra cosa dal femminismo, ben altra cosa dalle petulanti avventure delle due donne - simbolo di L'une chante, l'autre pas, ultimo lungometraggio della regista prima di Senza tetto né legge, vincitore a Venezia.
Santità è quella di Cleo (1961) che scopre di essere veramente ammalata e comincia a vivere in quel momento; santità è quella della moglie di Il verde prato dell'amore (1965), suicida per lasciare posto alla rivale. Esperienze limite. Come quella vissuta dalla terrorizzata consorte dello scrittore in Les creatures. Sono i film dell'esordio, quelli verso cui maggiormente si volge lo sguardo di Mona; quelli che precedono - nella vita di Varda - la fuga americana, la passione per il movimento hippie, per l'underground, i black panthers, il femminismo troppo declamato.
La carriera di Varda, infatti, è discontinua ìn modo quasi imbarazzante, come può esserlo la carriera di chi preferisce sperimentare la vita e la sua urgenza, piuttosto che controllare il materiale espressivo, la produzione. In questo senso, forse, è una carriera più 'femminile' di altre, che si lascia investire da quanto accade attorno al set piuttosto che isolarlo per 'produrre'. Il set, insomma, sembra essersi confuso troppo spesso, per Varda, con la vita, senza però dare quei risultati espressivi estremi che una tale commistione potrebbe produrre, limitandosi, piuttosto, a spingere il suo cinema verso un rigonfio kitch, privo spesso, anche, delle giustificazioni stilistiche evidenti in film come Il verde prato dell'amore (film giocato tutto su stereotipi e uso simbolico del colore),
Basti pensare a Lion's love, dove la messa in scena' psichedelica' confonde vita reale della regista Shirley Clark, movimenti politici americani dei periodo (siamo nel 1970) ed eccentriche stranezze di una Los Angeles all'allucinogeno.
Nell'andamento ondulatorio della carriera espressiva di Varda, la passione per la documentazione poetica si alterna all'esplosione dei toni e dei temi eccessivamente ridondanti, colorati e privi di spessore reale. Così a Cleo risponde l'ancora affascinante Il verde prato dell'amore, a Les creatures l'eccesso di Lion's Love o di L'une chante, l'autre pas. Dopo il 1977, l'abbandono della fiction e il ritorno al breve racconto di radice documentaristica, sembrano scelte felici e irreversibili, E, invece, eravamo solo in attesa di Mona.
Quasi tutti hanno sorvolato, nell'analisi di Senza tetto né legge, su due episodi apparentemente incomprensibili del film: la scossa elettrica subitanea e anti-narrativa che fa vibrare assieme alle lampade del bagno Macha Méril e l'arrivo di Mona nel paesino del Sud dove si gioca annualmente una truculenta corrida tra uomini-albero coperti da bisacce gonfie di vino. Due scene orripilanti. Due scene-chiave, nonostante la loro collocazione apparentemente difficile all'interno della struttura secca dei film. Due soprassalti dell'inconscio che aprono squarci profondi nella visione 'separata' dello spettatore.
Fantasmi di oscuri terrori che l'arrivo di Mona fa sorgere in chi la frequenta, ma, soprattutto, fantasmi di Agnès Varda, ossessioni visive di un eccesso che ha, nel passato, turbato il suo cinema e che oggi la regista stessa ci indica con ironia, gettando un piccolo enigma all'interno di un racconto sin troppo lineare.
Scarnificazione, sembra essere la parola d'ordine che presiede ad un film come Senza tetto nè legge. Lasciare il dato fenomenologico e sottrarre tutto quanto concerne l'interpretazione, il 'discorso', l'analisi. Il ritorno al cinema teorico è, d'altro canto, evidente: la gente guarda in macchina, racconta da testimone il percorso di Mona, sovrappone la propria presenza a quella della ragazza scomparsa. Ma se il tono è distaccato, non è però gelidamente antinarrativo. Anzi, la narrazione ritorna regina, proprio perché rifiuta il 'manierismo' contemporaneo, la simulazione del racconto, lo sforzo inetto verso il plot.
La narrazione, insomma, in Senza tetto né legge, non è solo condanna e dovere come accade, ultimamente, in molto cinema europeo e, in particolare, francese. Qui, preferisce abbandonare gli argini sicuri della sceneggiatura troppo di ferro (come adesso usa, in un sussulto postmodernista di ritorno al narrare) per snodarsi, invece, tra case vuote e disabitate, strade polverose, vigneti e campi sui cui si addensano bruma e brina, sulla spinta di forze ben più concrete e luminose di quelle fornite da enigmi narrativi più o meno riusciti. E queste forze sono il corpo e il passo infaticabile di Mona, i suoi capelli pesanti e unti, il volto imbronciato, il suo rifiuto totale e netto.
Un rifiuto che Sandrine Bonnaire interpreta con assoluta determinazione, riuscendo a cancellare, sotto la sua forza, anche gli episodi deboli del film, come l'incontro con il pastore ecologo alternativo, somma fastidiosa di impossibili stereotipi. Un rifiuto che, nel corso dei film, è diventato rigetto e ostilità nei confronti di una regista poco sensibile all'impegno dell'attrice. “Agnès - dice Sandrine -è molto precisa sul piano tecnico, per quanto concerne l'immagine. È più attratta dall'immagine che dall'attore. Varda discute a lungo l'inquadratura. A me diceva poco o niente, non mi parlava del personaggio: 'Adesso giriamo, tu fai questo, tu fai quello'. Tutto qua. Si girava la scena. Al momento di fermare, diceva: 'Avete visto il camion che è passato in secondo piano?'. Talvolta avrei voluto trasformarmi in camion (...) Quando Varda parla delle nostre relazioni durante la lavorazione dei film, dice: 'Non c'erano cameratismo e amicizia, tra di noi'. lo preferisco dire: 'Non c'era complicità'”.
Eppure, proprio tale mancanza di complicità tra personaggio e creatrice e l'abbandono, da parte di Varda, di un 'maternage' che le è altrimenti consueto, sono gli elementi di forza del film, quelli che permettono alla solitudine estrema e radicale di Mona di salire al volto di Sandrine Bonnaire ed arrivare a frangere la barriera dello schermo, dell'obbiettivo. Oltre il quale, lo si capisce, sta l'odiata regista. |
Autore critica: | Piera Detrassis |
Fonte critica: | Cineforum n. 254 |
Data critica:
| 5/1986
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Critica 3: | Senzatetto, senza documenti, sacco in spalla e grinta da una che vuole essere lasciata in pace, Mona percorre solitaria e silenziosa le strade del Sud della Francia d’inverno, piantando la sua tenda dove capita e girando in tondo, senza meta e senza attese, con il conforto dell’erba finché ne ha. La regista non racconta Mona direttamente, la fa raccontare dalle persone più disparate che l’hanno incontrata nel suo cammino. Di lei non dice l’origine (“forse è venuta dal mare”), l’ambiente da cui proviene, non dà spiegazioni della sua rottura con la vita precedente e della scelta del suo vagabondare da sola in luoghi sempre diversi. Mostra semplicemente come vive, come si comporta, dove dorme.
Di Mona si conosce quel poco che lei rivela - il suo nome e cognome e qualche accenno alla sua vita precedente di segretaria d’azienda -, quel poco che gli altri hanno afferrato di lei e come hanno reagito al suo incontro. Ne risulta un ritratto della ragazza aperto e senza suspense perché fin dall’inizio lo spettatore vede la sua morte. Mona è un personaggio inafferrabile, che sfugge alla comprensione altrui. È tutta nei suoi comportamenti e nei suoi incontri casuali, nell’esperienza tragica solo accennata della violenza sessuale, e nella morte. È “altra” rispetto a quelli/e che incontra; a volte sembra possibile una comunicazione - con David, con l’esperta di platani, con il tunisino, con Yolande e la vecchia signora – comunicazione che però è presto interrotta. Il suo essere chiusa, il suo apparire indifferente e fredda ha come conseguenza che altri e altre che la incontrano e ne parlano proiettino su di lei i loro sogni, rimpianti, pregiudizi e paure, e smascherino le loro contraddizioni; qualcuno la definisce barbona e squinternata, giramondo scapestrata e lazzarona, drogata, ma una ragazzina le invidia la libertà e una donna in contrasto con il marito afferma “quella ragazza ha carattere, sa cosa vuole”.
La brutalità delle persone che può incontrare per strada rappresentano per Mona il pericolo, ma lei non ha il ruolo della vittima, ha piuttosto l’aria di quella che non ha bisogno di niente. La libertà che cerca non è un valore morale o ideologico, è piuttosto un “lasciatemi in pace”, “sto bene da sola”, una libertà senza illusioni e senza progetto. Non è portatrice di un messaggio chiaro di contestazione; non si conosce la molla della sua ribellione alla legge comune e alle regole sociali, non fa rivendicazioni, ha bisogno di poco. È emblematica la discussione con il professore di filosofia diventato allevatore di capre, che le offre ospitalità e lavoro nella sua fattoria: quando la rimprovera di non far altro che dormire e stare nella sporcizia, Mona si ribella all’idea che lui, come un nuovo capufficio, voglia imporle limiti e doveri. E il professore, che ha scelto di rifiutare il sistema tornando alla terra, la giudica un’illusa che ha letto troppi romanzetti rosa, un essere inutile, senza desideri e ambizioni.
Il viaggio, il cammino di Mona da un posto all’altro senza meta, non è un mezzo di crescita o di maturazione, ma piuttosto un percorso di autodistruzione consapevole, una deriva attraverso cui sembra passare indifferente fino a poco prima della morte, quando tra gli emarginati della stazione non ce la fa più, sta male, dice che è stanca, dimostra una nuova rabbia. E l’ultima sua immagine nel fosso è di pianto e di tremito per il freddo. |
Autore critica: | Carla Colombelli |
Fonte critica: | Aiace Torino |
Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | |
Autore libro: | |
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