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Querelle de Brest - Querelle

Regia:Rainer Werner Fassbinder
Vietato:18
Video:General Video (Diamanti)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Le diversità, Letteratura francese - 900
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo "Querelle de Brest" di Jean Genet
Sceneggiatura:Burkhard Driest, Rainer Werner Fassbinder, Kurt Raab
Fotografia:Xaver Schwarzenberger, Josef Vavra
Musiche:Peer Raben
Montaggio:Rainer Werner Fassbinder, Juliane Lorenz
Scenografia:Rolf Zehetbauer
Costumi:Barbara Baum, Monika Jacobs
Effetti:
Interpreti:Brad Davis (Querelle), Franco Nero (il tenente Seblon), Jeanne Moreau (Lysiane), Laurent Malet (Robert), Hanno Poschl (Gil/Robert), Burkhard Driest (il poliziotto Mario), Gunther Kaufmann (Nono)
Produzione:Planet Film Productions – Gaumont - Albatros Filmproduktion - Opera Film Productions
Distribuzione:Cineteca dell’Aquila - Collettivo dell’Immagine – Cineteca Lucana – Uicc - Ventana
Origine:Francia, Germania
Anno:1982
Durata:

116'

Trama:

La vicenda ha come protagonista il marinaio Querelle (derivato da "macquerelle" termine femminilizzato di "macquereau", in italiano "magnaccia"). Querelle è imbarcato sulla nave "Vengeur", ancorata nel porto di Brest, è bello e forte ed è nascostamente amato dal comandante della nave, il tenente Seblon. Sceso a terra, conosce in un bistrot-bordello il padrone del sordido locale, Nono, sua moglie Lysiane, amante del fratello di Querelle, Robert. Querelle vende oppio a Nono; gioca a dadi con Nono la sua integrità, perde e ne subisce le conseguenze; soffia al fratello l'amante Lysiane; intesse una nefanda tresca con Mario, un bestiale poliziotto, al quale denuncia Gil, un assassino del quale si è innamorato, e infine supplica il suo innamorato tenente Seblon di sfogare su di lui i suoi perversi desideri, per raggiungere finalmente l'identità che va disperatamente cercando nell'esperienza di ogni nefandezza.

Critica 1:Le peripezie - il calvario?- del marinaio Querelle (B. Davis) che sbarca a Brest e va incontro al suo destino di contrabbandiere d'oppio, sodomita, assassino. Ultimo film di R.W. Fassbinder (1945 -10 giugno 1982), in concorso a Venezia nel settembre dello stesso anno e distribuito in Italia (dopo una bocciatura in censura) con 48 m (meno di due minuti) in meno e il titolo del romanzo di Jean Genet da cui è tratto. "Ha ragione il regista a rivendicare come tema del film non l'omicidio e l'omosessualità, ma il problema dell'identità... Querelle è l'esatta rappresentazione di un cortocircuito dei ruoli e della divisione" (Lodovico Stefanoni). Sebbene la tematica della violenza e della sopraffazione che dominano i rapporti umani sia costante nel cinema di Fassbinder, anche nei suoi film di taglio omosessuale (Le lacrime amare di Petra von Kant, Il diritto del più forte), non sembra felice il suo incontro con Genet che tende a fare un'esaltazione mistica dell'abiezione e del delitto. Fassbinder non è mai stato un mistico. A livello figurativo il fascino del film è innegabile per la glaciale sapienza luministica (giallo, arancio, blu) e la stilizzazione teatrale della scenografia, ma forte è il sospetto che si tratti di un film manieristico e decorativo, sia pur di un manierismo di alta classe. C'è stilizzazione, non stile.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:È sempre difficile scrivere su un'opera che è al centro di polemiche così dense e accalorate quali quelle riguardanti questo film. Lo è, quanto meno, perché si rischia di parlare d'altro e dunque di fare un'offesa a un oggetto che chiede (se lo chiede) di esser giudicato per quel che è e nient'altro. In particolare, l'annoso dibattito su arte e censura - pur importantissimo - devia l'attenzione dall'oggetto e porta ad astrologare su questioni che o non sono pertinenti o non sono concretamente riferibili all'opera e all'opera soltanto.
Esordiamo dunque subito con un'affermazione personale, ma diretta: Querelle è uno splendido film, un'opera di rilievo come da tempo il cinema mondiale non conosceva, una pellicola (per dirla con Marcel Carné) che forse merita di entrare nella storia del cinema. Affermazioni compromettenti? Chi ha mai visto un intrecciarsi così perfetto di cinema e teatro, una creatività luministica talmente originale, una stilizzazione dei movimenti attoriali di tanta attenzione? Ma queste sono affermazioni tutto sommato generiche che come tali non dicono nulla. Premettendo che chi scrive non ha alcuna particolare passione per Jean Genet (…), qui si tratta di porsi in un luogo d'osservazione che escluda tare all'esercizio della critica. Intanto, questo Fassbinder ha un grande merito: quello di avere trattato fenomenologicamente (ed insieme simbolicamente) il tema (non il problema!) dell'omosessualità. Il che non significa che il regista si è fatto scienziato freddo e distaccato, descrittore naturalista dell'oggetto del suo studio, ma che il cinema (e non solo il cinema) ci aveva abituati a un trattamento dell'omosessualità in difetto o in eccesso. Da un lato opere che ce l'avevano presentata sotto luci ambigue, morbose, malsane, secondo l'imperante mentalità collettiva. Dall'altro opere che ne facevano una bandiera di discorso sulle libertà civili. In ambedue i casi l'omosessualità veniva esibita come pretesto e non come testo. Fassbinder in Querelle usa senza dubbio le leve dello stupore, ma non in relazione al luogo comune, bensì all'interno della struttura stessa dell'opera. Egli, cioè, non gira il film avendo in mente di épater le bourgeois, né tantomeno di farsi tribuno a fianco di minoranze per troppo tempo oppresse, ecc. ecc., ma mirando alla costruzione di una pellicola che sia studio dei meandri dell'attrazione, del desiderio, del piacere, del sesso tout court, nonché dei rapporti fra tutto questo e la trasgressione, che in sostanza si riassume nell'omicidio (e specificamente nell'omicidio del nostro oggetto di desiderio, piacere, ecc.).
Se è vero, quindi, come scrisse Adorno, che «Unico principio della morale sessuale: l'accusatore ha sempre torto», Fassbinder non ha girato un film sull'omosessualità (come troppi hanno detto) ma sulla libertà. Non la libertà dei teorici della politica, dei democratici e dei governanti, non la libertà che ci insegnano sui banchi di scuola, testo della Costituzione alla mano, non la libertà dell'eguaglianza razziale, religiosa, ecc. Ma la libertà come assoluto, e dunque come demonio. Certo, non il demonio delle religioni latine, il Signore del Male, ma il daimon greco, il potere divino assoluto che si arroga naturalmente il diritto di vita e di morte. Se proprio si vuole trovare un qualche accostamento «culturale» a questo film inaccostabile (nel senso di originalissimo) viene in mente lo Oshima di L'impero dei sensi. Ma non si tratta di un accostamento casuale: eterosessualità od omosessualità, il discorso è sempre lo stesso. In Oshima, tuttavia, i suoi risvolti morali non venivano trattati (la cultura giapponese, del resto, ha una storia diversa da quella occidentale); in Fassbinder, invece, è proprio quello che in genere definiamo ambito della morale che è in gioco. La frase di lancio del film (che è anche il titolo della canzone cantata dalla Moreau), «Ogni uomo uccide la cosa che ama», si presta a malintesi. Non è certo Fassbinder il primo a dirci questa verità: Freud, per citarne uno soltanto, ci aveva già pensato. No, la frase è di un'ambiguità diabolica: basta solo sottolineare uno o l'altro o l'altro ancora degli elementi che la compongono per ottenere un significato ogni volta diverso. (…) Torniamo allora al film, e continuiamo con una finzione. Fingiamo che tutto quanto detto sinora non solo non c'entri, ma non esista, non sia stato pronunciato. Guardiamo la pellicola. Guardiamo la terra di nessuno cui Fassbinder è riuscito a dare luce (ritorneremo in seguito sul tema della «donazione di luce»); quella taverna nella quale - come dice bene Giorgio Cremonini - c'è l'intera storia del cinema (da La taverna dei sette peccati di Garnett a Il selvaggio di Benedek, da La taverna della Giamaica di Hitchcock a Sfida infernale di Ford, il tòpos del locale pubblico come linea di demarcazione fra il lecito e l'illecito, il noto e l'ignoto, la normalità e la trasgressione, come porta verso altri mondi, o semplicemente come teatro di aberrazioni, è davvero parte della storia del cinema); quel sole elettrico e metafisicamente, nonché teatralmente, crepuscolare; quei falli enormi che sembrano pali marittimi; quel mondo portuale del tutto stilizzato in cui i colori degli abiti urlano la presenza di corpi - desiderio sotto di loro. E guardiamo anche la danza dei due fratelli che si sfidano, questo numero musicale senza musical che ci rimanda a Nick Ray (Johnny Guitar, Gioventù bruciata) e forse persino a Minnelli (Qualcuno verrà); guardiamo questo pianeta estraneo al complesso siderale dell'universo, probabilmente, ma non a quello delle nostre profondità mentali, spirituali, sessuali, ai nostri abissi inconfessati d'impulso, di distruzione, di violenza, d'aggressione. Che sogno familiare! Ma «familiare» nel senso freudiano di Unheimlich, cioè il «non familiare» che pure ci parla come una sirena di cose che conosciamo e che vogliamo sapere, in un continuo gioco di finzione fra conoscenza e ignoranza, fra noto e ignoto. Fassbinder è tra i pochi artisti contemporanei a sapere che noi sappiamo già tutto e che la rivelazione di quel che fingiamo di non sapere è per noi una croce e una delizia. Non rispondiamogli, banalmente, volgarmente, che noi non siamo omosessuali e che dunque questo film non ci riguarda personalmente: lui non ci sta dicendo il contrario, ma soltanto ci parla, in quanto omosessuale, di qualcosa che ci accomuna a lui e ad altri «diversi» da noi. È qui, anzi, che l'arte (il cinema) gioca un ruolo essenziale, perché è il terreno su cui si fonda questa comunicazione. Un terreno dove le distinzioni sessuali non valgono più: è questa la verifica dell'artisticità del film, un messaggio partito da un preciso retroterra che, pure, copre altri ambiti, altri codici, altri linguaggi, altri costumi. È attraverso questo uso del cinema che Fassbinder ritrova la sua omosessualità nel momento in cui ritrova anche ciò che non la distingue dall'etero. Molto di più: riprendendo una sorta di gioco di parole più sopra citato, egli dà luce, nel senso di «dà alla luce», partorisce insomma il film: non è questo un senso possibile da attribuire alla luministica particolarissima di Querelle? Un mondo la cui luce artificiale allude forse anche all'artificio della procreazione artistica, del parto estetico, filmico. Non dunque crepuscolo, ma luce aurorale, ancorché artefatta. La sua condizione anzi è e non può essere altro che quella dell'artificio, perché la naturalità dell'arte è cultura.
E questo è tanto più vero quanto più l'iconografia e la dinamica della pellicola sembrano avvicinarsi alle sponde della naïveté. Tutto il gioco sta lì, nel portarsi il più possibile verso quelle sponde senza mai toccarle, in questo modo attribuendo paradossalmente all'opera il massimo grado di inevitabile artificio. Tutto in questo film è artefatto, a cominciare dall'unica donna che mostra, una Jeanne Moreau ormai mummificata cui il belletto tenta quasi tragicamente di conferire fascinazione. Certo, non c'è attrazione diretta per chi - anche solo superficialmente, attraverso immagini proiettate su uno schermo - intende osservare il comune oggetto del desiderio. Ma questo riguarda Fassbinder e lui soltanto, le sue scelte strutturali, compositive di omosessuale. Guai se ci fermassimo a questo livello di lettura: finiremmo come quel signore che se n'è uscito sdegnato, oltraggiato, incamminandosi a passo sostenuto verso la Questura. (...)
Autore critica:Franco La Polla
Fonte critica:Cineforum n. 222
Data critica:

3/1983

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Querelle de Brest
Autore libro:Genet Jean

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