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Caccia (La) - Chase (The)

Regia:Arthur Penn
Vietato:14
Video:Columbia Tristar Home Video (Columbia Classics)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo e dal dramma omonimo di Horton Foote
Sceneggiatura:Lillian Hellman
Fotografia:Joseph La Shelle, Robert Surtees
Musiche:John Barry
Montaggio:Gene Milford
Scenografia:
Costumi:
Effetti:Dave Koehler
Interpreti:Richard Bradford (Damon Fuller), Jocelyn Brando (Mrs. Briggs), Marlon Brando (Sceriffo Calder), Bruce Calbot (Sol), Angie Dickinson (Ruby Calder), Robert Duvall (Edwin Stewart), Jane Fonda (Anna Reeves), Henry Hull (Briggs), Martha Hyer (Mary Fuller), Diana Hyland (Elizabeth Rogers), Steve Ihnat (Archie), Clifton James (Lem), Maurice Manson (Moore), E.G. Marshall (Val Rogers), Lori Martin (Cutie), William Mims (George Seely), Robert Redford (Bubber Reeves), Ken Renard (Sam), Janice Rule (Emily Stewart), Marc Seaton (Paul)
Produzione:Sam Spiegel per Columbia (Leone Star - Horizonproduction)
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:Usa
Anno:1966
Durata:

123’

Trama:

Bubber Reeves, un giovane scappato dalla prigione con un altro carcerato, viene da questi abbandonato dopo il furto di una macchina e l'assassinio del proprietario. L'evaso vorrebbe raggiungere il Messico in treno; ma per sbaglio giunge nei pressi di Tarl, nel Texas, suo paese di origine. Qui risiede sua moglie Anna che, nel frattempo, è divenuta l'amante di Jake, figlio ed erede di Val Rogers, l'uomo più ricco di quel corrotto paese. Il paventato ritorno dell'ergastolano, oltre a mettere a disagio tutti coloro che temono una resa di conti per recenti o vecchi torti fatti a Bubber, scatena i più bassi istinti degli accoliti di Val Rogers, che sono decisi ad eliminare il fuggitivo. Solo Calder, sceriffo del paese, perfettamente conscio della situazione e deciso ad arrestare Reeves, si schiera dalla parte di questi ed invita Anne e Jake a convincere il giovane a costituirsi. I due amanti rintracciano Reeves e tentano di per suaderlo; ma l'arrivo della scatenata popolazione pregiudica la situazione e causa la morte di Bubber e di Jake.

Critica 1:Da un romanzo di Horton Foote. Detenuto evaso raggiunge la cittadina natia. Sua moglie e lo sceriffo locale cercano di convincerlo a costituirsi, ma i suoi concittadini gli danno una caccia feroce per linciarlo. Nonostante una certa enfasi melodrammatica e le interferenze del produttore Spiegel sul lavoro di A. Penn (soprattutto nel montaggio), il film, scritto da Lillian Hellman, è un dramma civile che taglia come un rasoio con un Brando massiccio, opaco e masochista e un Redford ancora in bozzolo.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Di nuovo, Penn, accettando il compromesso produttivo, si serve della classicità di un modello drammaturgico consolidato del cinema americano: l'analisi "partecipata" di un nucleo di personaggi, all'interno di una realtà (di provincia) circoscritta. Nonostante che il momento storico preso in esame sia attualizzato, in verità le linee del racconto sono quelle ben stabilizzate del film western. Il Texas è, ancora una volta, il territorio di frontiera nel quale si confrontano lo sceriffo nobile e incompreso, il cattivo arricchito dal petrolio e l'innocente perseguitato. Su questa trama Penn inserisce i suoi materiali: il mito della sconfitta e del fallimento, l'eroe in lotta contro un destino spietato che lo lega alla vita quanto alla morte. Bubber Reeves, nella pur sommaria "descrizione"; è l'archetipo dell'uomo completamente asservito al destino; la sua tenacia appare impotente e tragica. La sua unica possibilità vitale sarà sempre la fuga. Lo scappare, per il regista, non è simbolo di resa o di vigliaccheria ma, anzi, la prova di uno smarrimento che nel movimento frenetico trova ogni sua ragione "morale". La fuga è sinonimo di resistenza e rifiuto della logica della conformità, dell'adattamento. L'evasione diventa una esigenza quasi "trascendentale"; l'espressione di una incontaminazione che induce il personaggio sì all'angoscia, ma anche alla scelta del rifiuto. Lo sceriffo Calder accetta invece le regole del gioco, pur cercando di districarsene; in questo modo la sua originaria purezza viene "contaminata"; le sue motivazioni e il suo agire sono sempre mal compresi, vivono nell'ambiguità delle regole cui egli partecipa. La mafia dei Rogers non comprende la sua onestà e anche la madre di Bubber non gli crede. Nel sud della violenza e della corruzione, la moralità è scambiata per avidità. L' ordine che Calder vorrebbe stabilire è solo il disordine di una legge astratta e inutile, inutilmente pura.
Nell'abbozzo scarno di Bubber, Penn gioca integralmente il suo modello di destino. L'evaso fugge il più lontano possibile, ma il destino vuole che la direzione di fuga sia sbagliata, completamente "autolesionistica". Bubber si trova di fronte ad un cartello («Proprietà di Val Rogers») e non può altro che tirarvi del fango. La sua fuga è finita. Il tragitto maledetto è compiuto. La corsa lo ha condotto, suo malgrado, nella tana dell'orco. In una citazione attualissima in quegli anni, Bubber finirà poi come Oswald, la pedina più inconsistente del «Grande Gioco/Spettacolo» della morte di J.F Kennedy. Anche lui nel Texas, nel luogo mitico di ogni perdizione, dove la Storia diventa show e viceversa.
La piccola cittadina partecipa in massa alla caccia, alla festa della presunta legalità. Ben presto ogni cittadino rivela interessi di parte anche in questa missione che lo vede, armato, costituirsi in bande civiche. Lo sceriffo Calder, nella sana preoccupazione di evitare un linciaggio, è colui che sciupa la festa e per questo è punibile, da porre sotto lo stesso mantello di odio nel quale è avvolto il "fuorilegge". Il linciaggio, nell'immaginario collettivo americano, è il riconoscimento, di fatto, del proprio diritto a essere nazione e popolo. E la violenza cieca e disordinata si colloca perfettamente nell'altro potentissimo mito americano dello spettacolo: i fuochi con cui si cerca di bruciare Bubber sono visti dagli abitanti come fuochi d'artificio, come conclusione lieta della grande festa del padrone della città.
Penn non dimentica, per rafforzare l'effetto drammatico, le classiche unità tragiche di Tempo (il week-end della festa, il «saturday night»), Luogo (Tarl City, il cimitero d'automobili) e Azione che sono linee narrative autonome per ogni personaggio, ma convergenti nel luogo di infanzia dei tre amici e nell'intreccio indissolubile che li trova uniti. L’unica, grande festa divisa in tre "parti" illustra perfettamente la divisione macroscopica delle classi americane e la loro indissolubile unità di riferimento, ideologica e culturale: la festa per il compleanno del padrone Val Rogers, i cui inviti sono rigorosamente chiusi («Forse ci ha invitati perché gli siamo simpatici», dice Ruby, la moglie di Calder, al marito; oppure, Val Rogers allo sceriffo: «Me lo devi dire dove è andato. Me lo devi!», riferendosi al figlio Jake che si è allontanato in compagnia dell'amante Anna).
La festa dei dipendenti di Rogers. Il party dei mortificati dal mancato invito, che, nevroticamente, mimano la fuga e la cattura di Bubber. La festa borghese dove esplodono la colpevolezza e il perbenistico erotismo dei coniugi Stewart, e due magnifiche interpretazioni di Robert Duvall e Janice Rule. Infine la festa dei giovani che imitano le furie alcooliche e fanatiche dei padri.
La cerimonia, la festa e il ballo sono un agglomerato tipico della diegetica cinematografica. Un topos ricorrente che ha spesso il compito di ritrovare o rivelare le "fonti" logiche da cui trarre le dimostrazioni e le argomentazioni di ogni possibile trama. Penn arriva quindi a sfruttare questa tòpica e lo fa con una sapienza autorevole, usando le tre feste come un indagine fenomenologica di tutta una serie di categorie umane. Il fine è ancora una volta quello della ricerca di una identità, ma mentre negli altri film la ricerca era dei protagonisti (quindi problematizzata, e, dunque, drammatica), qui è, inconsapevole, quella di una serie di personaggi che subiscono il problema, che agonizzano, nella più assoluta "ignoranza" («Conosco questa gente maniaca - dice Calder alla moglie - gente dal cervello vuoto, che non ha letto un libro»). La non-identità degli abitanti di Tarl City è il pretesto del regista per analizzarne la violenza, la crudeltà e la volgarità. Nella messa in scena Penn concentra e motiva la sua "divisione" passionale, istintiva e, quindi, manichea di una intera società. La "caduta" nel fango e nella desolazione da parte dei cittadini di Tarl City è tanto drastica quanto le intenzioni e le motivazioni dei personaggi. Questa furia a volte eccessiva o forzata, tipica del cinema americano di quegli anni, è tesa ad accentuare il più possibile la separazione da un cinema del passato che esaltava nel culto dell'«american way of life» i modelli "sani" del moralismo e di una «realtà edulcorata». Si pensi, al contrario, ad opere immediatamente successive a The Chase quali: Blue Soldier, Easv Rider o Five Easv Pieces.
Gli autentici e unici protagonisti del film sono la città e lo sceriffo Calder che la rappresenta. Questi cercherà in ogni modo di inserirsi, come un maestro in una nuova classe di allievi. È così l'ennesima figura di "educatore" del cinema di Penn. Il suo ruolo ufficiale gli impone ciò, solo che non ha l'esperienza e la saggezza di Tunstall alle spalle, né il volontaristico fideismo di Annie Sullivan, né la nascente ideologia evangelica di Ray in Alice's Restaurant. Calder non ha terreno sufficiente dove erigere le proprie convinzioni morali. È un disperso, un nuotatore traballante e solitario. Non ha più neppure il tessuto mitico che nel west faceva dello sceriffo il vero"personaggio", non sa imporre la propria individualità come Pat Garrett perché forse non ne ha una. Si hanno dubbi sulla sua virilità (la moglie Ruby non riesce ad avere figli) e la sua aderenza al ruolo di esecutore della legge "morale" dello Stato è pedissequa e scolastica. Il Calder di Marlon Brando assomiglia così moltissimo al personaggio di Reflection in a Golden Eye (Riflessi in un occhio di oro) di J. Huston: la stessa debolezza e la stessa docile vocazione allo smarrimento e alla fuga. Nella presunzione, nell'ignoranza, nell'intolleranza dei cittadini di Tarl, è continuamente a disagio. L'onestà della sua "timidezza" non riesce a scalfire la violenza che cova nella piccola polveriera. La sua fuga finale, assieme alla moglie fedele, avverrà all'alba, nel paese vuoto che dorme dopo l'ubriacatura della notte. In silenzio, in punta di piedi. Immerso in un cielo livido e "falso", così come era "falso" il cielo del linciaggio e quello che si vede durante la fuga di Bubber Reeves. Penn ha voluto sporcare il film con colori forti, decisi. Ha chiesto al direttore della fotografia Joseph La Shelle il barocco dei salotti texani che hanno sempre alle pareti un quadro o un arazzo. «I sentimenti risentono di questo modo franco di stendere i rossi, i gialli, gli ocra, sui visi, sugli oggetti, sugli ambienti in cui muovono tutti i protagonisti» (cfr. E. Bruno in «Filmcritica» n. 171, ottobre 1966). Proprio in questa dimensione, in questa luce narrativa melodrammatica (diversa da quella di The Miracle Worker che era asciutta e lucida, senza barocco, senza "melò"), Penn realizza il suo film più pessimista e disperato. (…)
Autore critica:Paolo Vernaglione
Fonte critica:Arthur Penn, Il Castoro Cinema
Data critica:

7-8/1987

Critica 3:
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Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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