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Messa è finita (La) -

Regia:Nanni Moretti
Vietato:No
Video:Ricordi Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Spazio critico
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Nanni Moretti, Sandro Petraglia
Sceneggiatura:Nanni Moretti, Sandro Petraglia
Fotografia:Franco Di Giacomo
Musiche:Ennio Morricone, Nicola Piovani
Montaggio:Mirco Garrone
Scenografia:Giorgio Bertolini
Costumi:Lia Francesca Morandini
Effetti:
Interpreti:Nanni Moretti (Don Giulio), Marco Messeri (Saverio), Enrica Maria Modugno (Valentina), Dario Cantarelli (Gianni), Luisa De Santis (Lucia), Francesco Di Giacomo (Federico), Maurizio Fabretti (Simone), Antonella Fattori (Astrid), Vincenzo Salemme (Andrea), Carlina Torta (Arianna), Roberto Vezzosi (Cesare)
Produzione:Faso Film Roma
Distribuzione:Cineteca Nazionale
Origine:Italia
Anno:1985
Durata:

95’

Trama:

Dopo essere stato parroco in un'isola del Mar Tirreno, don Giulio - un giovane prete - viene trasferito a Roma e destinato ad una chiesa della periferia. A Roma egli ritrova i genitori e la sorella. Ma la realtà si manifesta subito molto difficile, per non dire ostica: la parrocchia è praticamente disertata dai fedeli (il suo predecessore si è sposato, ora ha un figlio e vive addirittura a pochi metri dalla canonica); i vecchi amici sono molto mutati (Andrea è sotto processo per terrorismo; Cesare vuol cambiare religione, diventare cattolico e pare intenzionato a farsi sacerdote; un terzo è un omosessuale dedito a squallide avventure; un altro ancora è stato abbandonato dall'amica e vive in una segregazione maniacale). Come se non bastasse, neppure l'ambiente familiare è destinato a rallegrare don Giulio: l'anziano padre lascia inopinatamente i suoi, perché innamorato di un'altra donna; la sorella è incinta del fidanzato Simone ed a fatica si lascia persuadere a non abortire; la madre - disperata per la sopravvenuta sua infelicità - si toglie la vita. Coinvolto in situazioni personali tanto gravi e difformi, scoraggiato e non sempre in grado di fornire ogni possibile aiuto o, quanto meno, le risposte che gli vengono chieste, poco a poco don Giulio avverte l'insoffribile peso della propria amara solitudine e la sua impotenza di fronte ad una serie di problemi. Non identificando più con certezza il proprio ruolo di sacerdote, in un ambiente ed in una città che gli sembrano lontani e quasi ostili, don Giulio fa una scelta: andrà nell'America del Sud, nella Terra di Magellano, là dove per lunghi anni ha svolto la propria operosa missione un vecchio francescano conosciuto a Roma. Là vi è una comunità di gente povera e sperduta, a cui egli pensa di potersi dedicare.

Critica 1:Tornato nella Roma natia dopo dieci anni, Don Giulio si trova alle prese col dolore, i problemi, i drammi piccoli e grandi dei suoi parrocchiani. Oppresso da un forte senso d'impotenza, decide di andarsene. Scritto con Sandro Petraglia, quinto film di N. Moretti, il più grave e il meno nevrotico: la pena prevale sul sarcasmo, la costernazione sull'indignazione. Pur nel suo lucido laicismo di fondo, è il primo film italiano sulla condizione sacerdotale. Nonostante una certa invadenza dell'attore a scapito del regista, Moretti ha alzato il tiro e fatto centro. Orso d'argento al Festival di Berlino.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:In realtà (…) l'impotenza è anche la vera cifra stilistica de La messa è finita, un film interamente costruito sulla strategia dei «circuiti interrotti». E quella sorridente frase di Don Giulio, apparentemente innocua: «Noi preti pensiamo di sì ed io anche!» sottolinea addirittura uno scarto comunicativo tra il personaggio e lo stesso autore/interprete.
Interruzioni, frasi e gesti spezzati consueti dell'attore Moretti, azioni ripetute come in un classico incubo di impotenza (basti pensare alla sequenza del prete che tenta vanamente di spiegarsi, mentre l'automobilista lo ricaccia più volte in acqua). E ancora: brandelli di lettera e di dialogo che si colgono appena tra le note di una canzone pronta a sommergere la banalità delle parole.
Don Giulio non vuole ascoltare e non viene ascoltato. Si trova inesorabilmente imprigionato da porte che gli si chiudono addosso come nella scena dell'incontro con il vecchio amico Saverio stanco del mondo o in quella in cui rimane isolato sul terrazzino del Centro d'igiene Mentale dove è arrivato inseguendo la sorella.
La comunicazione si nega attraverso quegli stessi strumenti che la dovrebbero facilitare: «Questa è una segreteria telefonica. Sono in casa ma non ho voglia di parlare...», lascia inciso Saverio. Quello in cui Don Giulio cerca di spendere il suo infuocato e vano altruismo è un mondo dove prevalgono, ormai, i segni dell'isolamento e della chiusura. Ma non c'è rimedio, niente e nessuno dà segno di buona volontà. Non la sorella, che rifugge l'ossessiva insistenza delle inchieste condotte dal fratello prete: «E Simone, quant'è che non lo vedi? Da un mese, da una settimana, da quanto...? ...non rispondi?». Non l'amico Andrea, terrorista che non ha nulla da spiegare né da dire sulle proprie scelte. Che non desidera neppure essere difeso.
Persino la madre di Don Giulio, abbandonata, rifiuta la realtà a favore di un delirio che si risolve solo nella morte. Nell'estremo silenzio. Mentre sul suo comodino rimane, forse non a caso, un libro interrotto.
Ma per Don Giulio il silenzio degli altri non è sufficiente a mandare in crisi la sua personale missione, quella di portare candidamente felicità anche a chi non la chiede. «I fedeli non vengono, non c'è nessuno» esplode con i suoi chierichetti «Allora andiamo. Celebriamo la Messa!». Solo alla fine - nonostante la breve illusione delle danze in Chiesa - il silenzio e il rifiuto sembrano vincere la fibra idealisticamente resistente del nostro prete che, a questo punto, decide di emigrare verso la Terra del Fuoco.
Ma quello dell'«interruzione» non è solo un meccanismo che regola gli scambi tra i personaggi. Di più: rappresenta il punto di vista di Nanni Moretti sul cinema. La costruzione per episodi chiusi e blocchi significanti - dove sono meno importanti il movimento di macchina o il vezzo di montaggio rispetto al «senso» - ci riporta ad una pulizia di costruzione sin troppo simile ad un voluto «raggelamento» narrativo. Il film - come sempre - si costruisce quasi per «quadri», ma stavolta - tra un «quadro» e l'altro, appunto - s'annidano maggiori malinconie e struggimenti.
Può trattarsi di disgressioni, come quella che riporta Don Giulio nella sua vecchia stanza dei giochi; di stacchi musicali in raccordo tra una sequenza e l'altra; di lievi e sobri carrelli - quasi impalpabili, ma evidenti - che si avvicinano al volto e alla nuca di Moretti e, semplicemente, ne enfatizzano il movimento. Ecco i segnali di un'improvvisa tenerezza di Moretti verso il cinema e il proprio personaggio. Forse, verso il mondo.
E se il raggelamento e l'impotenza tentano di rimanere il metodo di scrittura e di interpretazione della realtà del regista Moretti, è vero anche che vengono violentemente contraddetti da quel pianto trattenuto - eppure urgente e dolorosissimo - che in almeno tre occasioni brucia gli occhi di Don Giulio. E quello sguardo arrossato e gonfio, senza pudore, rimarrà, forse, il momento più lacerante del film.
Don Giulio vorrebbe tanto separarsi, vivere intensamente in solitudine, guardando la felicità degli altri di qua dalla finestra, come gli accade quando osserva la festa piena di regali organizzata dall'ex-parroco per il figlio Matteo. Ma poi, in quella casa, finisce sempre per entrarci. «Come mai Gesù nell'orto disse ai suoi discepoli 'restate'?» chiede Don Giulio ad un ragazzino nell'ora di catechismo. A rispondergli, però, non può essere che un adulto: «Perché si sentiva solo ed aveva paura».
L'immortalità infantile non permetterebbe ancora questa risposta.
Espressioni ricorrenti nei dialoghi di La messa è finita? «Capita», «Succede», «È successo».
Così si giustifica l'ex-parroco, indicando la moglie all'imbarazzo di Don Giulio: «Mi era capitata questa cosa. Che in fondo può capitare, no?». E il padre che fugge con la ragazza, di trent'anni più giovane: «Beh, cosa c'è da dire? E successo...». L'innocente e ineluttabile casualità di ciò che «capita», rivendicata a viva voce dai personaggi, definisce i confini di quella «falsa tolleranza» che Pasolini aveva già indicato nei suoi Scritti Corsari (in particolare - e la citazione non vuol esser casuale - nel famoso articolo sull'aborto). «La falsa tolleranza del nuovo potere totalitario dei consumi», per citare esattamente il testo. Quello che interessa a Moretti è, stavolta, il censimento delle finzioni di libertà che regolano i comportamenti di una generazione ben precisa, visto che la tipicità dei suoi personaggi non lascia dubbi. I luoghi comuni del «progressismo», divenuti troppo spesso delle vere e proprie prigioni, sono tutti classificati, basti pensare alla figura di Antonio, l'ex-parroco che ripete in ostinazione banalità libertarie, quasi per convincere se stesso: «Dicono che non posso fare il prete ed essere padre... quello che non capiscono è che Matteo e mia moglie non diminuiscono la mia vocazione, ma, anzi, l'accrescono». Luoghi comuni ed eccessi di zelo (da cui non è esente lo stesso Don Giulio) che conosciamo bene, ma che, nell'astrazione in cui li lascia cadere Moretti, ci si rivelano in
tutta la loro scontata insignificanza. Sarà per questo che anche noi, assieme a Don Giulio, giriamo imbarazzati lo sguardo quando il solito Antonio racconta, con finto entusiasmo, i particolari erotici della vita del figlio. E ci sentiamo tutti - d'un colpo - ridotti al ruolo di guardoni. Eccesso di zelo anche quello dimostrato dall'ex-parroco che, in fondo, non si rassegna del proprio tradimento e cerca rassicurazione negli altri. Eccesso di zelo l'enfasi da conversione di Cesare; e la passione senile del padre che si sfoga in lettere da romanzo d'appendice; e l'aborto troppo scontato della sorella. «Se lo fai, prima ammazzo te e poi ammazzo me!» urla Don Giulio e il paradosso è eclatante: per rispondere ad una possibile violenza minacciarne una ancora più grande. Ma è proprio questa sconsiderata evocazione del sacrificio e del martirio esemplare, l'unica arma che rimane a Don Giulio/Moretti per rispondere alla banalizzazione e all'omologazione insensata dai valori da parte di un'intera generazione: la sua.In tal senso il personaggio più sentito del film sarà Saverio, l'uomo che ha deciso per il silenzio e l'inedia totale dopo l'abbandono da parte della sua donna. È forse l'unico, Saverio - di fronte al ragazzino nato dopo la separazione e mai conosciuto - a saper trovare le poche parole non conformiste del film. «Povero pesciolino» biascica, mentre lo spia dalle vetrate della piscina «che cosa gli diremo quando sarà grande e saremo tornati assieme? Che quando lui è nato io e la sua mamma eravamo distratti?». Saverio, assieme a Don Giulio, è il personaggio più dolente di un film che non dà tregua. E il gioco narrativo intrapreso dal regista si fa ancor più sottile e impegnativo quando entrano in conflitto tra loro la sedimentata autobiografia morettiana e il «nuovo mondo» ideologico di quest'ultimo personaggio, Don Giulio, che ha pur sempre il volto di Moretti. È proprio il rapporto conflittuale fra quanto sappiamo di lui - dell'autore e del personaggio chiave di Moretti: Michele - e quanto, invece, ci dice oggi nelle vesti di Don Giulio, quello che impedisce una sorridente unanimità e scatena durezze e angoscie. Quando Don Giulio si scaglia contro la sorella urlandole: «La vera felicità è vivere in due», lo spettatore non può non avvertire uno scarto inquietante, ma familiare, tra quanto ha appreso dalla biografia dei precedenti personaggi morettiani e quanto apprende ora da Don Giulio. Il vero nodo (quanto indistricabile!) è da cercare, dunque, nel vuoto che si apre tra la solitudine scelta del prete e la sua lacerante consapevolezza che la felicità stia comunque altrove.
Da uno spazio urbano spesso indefinito, cadente e abbandonato per lo più, il film si allarga al mare di Ventotene e alla montagna (ma sullo sfondo riluce un lago) del Parco Nazionale degli Abruzzi. L'uscita dai confini chiusi della capitale è ormai un dato di fatto del cinema di Moretti, così come l'urgenza di spalancare gli spazi, di non ristagnare troppo negli interni piccolo e medio borghesi, che rimangono comunque una sua passione scenografica.
Ci sono ossessioni morettiane che proseguono (e di cui abbiamo volutamente evitato di parlare, perché di cioccolata, Nutella e uova di Pasqua si sa ormai tutto) e ce ne sono delle altre che vanno affiorando, in particolare in quest'ultimo film. Ossessioni vere e proprie o non piuttosto motivi figurativi e spaziali che delineano e «mettono in scena» il mondo dell'autore?
La ricorrenza del motivo dell'acqua, ad esempio, è una traccia stilistica che molti hanno notato e che forse non va ricondotta esclusivamente alla biografia dell'autore, provetto giocatore di pallanuoto.
La lunga nuotata iniziale nel mare di Ventotene apre il film senza esitazioni, introducendoci, con un solo piano-sequenza, alla sostanziale solitudine del protagonista. Il mondo acquatico è un mondo sussurrato, isolato, denso di silenzi e ovattato, così come la performance del nuotatore è forse la più solitaria che esista. L'acqua racchiude, conforta e protegge, eliminando la gravità. E a questa dimensione «diversa» Moretti sembra guardare con desiderio: più volte si fa ricacciare la testa sott'acqua dal teppistello del traffico, mentre la sequenza forse più rivelatrice è proprio quella in cui Saverio e Don Giulio assistono, nell'azzurro chiuso della piscina, alla nuotata del bambino «pesciolino».
II torpore dell'acqua, gli spazi a serra e le grandi vetrate che incontriamo più volte nel corso del film paiono suggerire scenograficamente la suggestione d'un enorme acquario, attraversato da tagli di luce e rifrazioni. Un acquario dilatato nella cui luminosità rarefatta e silenziosa naviga - sotto lo sguardo acido e commosso di Moretti - un'umanità ferita dalla solitudine.
Autore critica:Piera Detassis
Fonte critica:Cineforum n. 251
Data critica:

1-2/1986

Critica 3:
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Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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