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Lanterne rosse - Da Hong Deng Long Gao Gao Gua

Regia:Zhang Yimou
Vietato:No
Video:Pentavideo, Medusa Video, Cecchi Gori Home Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:La condizione femminile, Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Su Tong
Sceneggiatura:Ni Zhen
Fotografia:Zhao Fei
Musiche:Zhao Jiping
Montaggio:Du Yuan
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Cao Cuifeng, Ma Jingwu, Gong Li, Hu Shimiao, Jin Shuyuan
Produzione:Era International, Hong Kong - China Film Coproduction Corporation China
Distribuzione:Mikado
Origine:Hong Kong
Anno:1991
Durata:

125'

Trama:

Nel 1920 nella Cina del Nord, la diciannovenne Songlian, in contrasto con la matrigna, lasciata l'università accetta di sposare il cinquantenne Chen Zuoqin, signore di un'antica casata. Questi ha già tre mogli: l'anziana Yuru, che gli ha dato un figlio; Zhuoyun, donna abile ma ambigua; Meishan, ex cantante ancora attraente. Il segno del privilegio sono le lanterne rosse che il marito-padrone fa accendere davanti alla stanza della sposa con la quale trascorrerà la notte. La prescelta gode delle ancelle migliori, di un massaggio tonificante ai piedi e perfino del diritto di decidere i pasti del giorno dopo. Songlian scopre ben presto quali piccoli, ma brucianti roghi covino sotto le ceneri di un mondo che sembra consistere tutto nel cortile rettangolare e nelle eleganti decora-zioni architettoniche dell'antico palazzo.

Critica 1:Situata in un bellissimo edificio di articolata struttura architettonica, è una dolente sinfonia in rosso minore sulla condizione femminile, il rapporto dei sessi, le logiche del potere dove lo splendore formale si coniuga col rigore morale e l'asciuttezza narrativa. Leone d'argento alla Mostra di Venezia, non distribuito nella Cina Popolare.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Saremmo più felici, se sapessimo cosa significa alla lettera Dahong Denglong Gaogao Gua? Probabilmente no. Possiamo anche accontentarci del titolo internazionale (cioè inglese) The Raise of the Red Lanterns, che lungo la perigliosa via per arrivare sul nostro mercato si è assottigliato fino a diventare semplicemente Lanterne rosse. (…)
È pertinente, il discorso sul titolo? Sì, perché raramente i titoli internazionali dei film cinesi corrispondono letteralmente a quelli originali, e perché tutto Lanterne rosse gira intorno a un problema di denominazione. I personaggi del film hanno dei nomi ma non li usano. Da questo, poiché res sunt conseguentia nominum, e non viceversa, checché ne dica Umberto Eco, dipende il loro destino e la struttura stessa della storia che, tale destino, racconta. Songlian non è Songlian, ma la “quarta signora”, e allora Lanterne rosse potrebbe essere (pensando alla filmografia di Zhang) il “terzo film” dopo Sorgo rosso e Ju Dou, lo stesso Zhang il “primo regista” (del mondo: ne siamo convinti) e Gong Li l’“ultima attrice”, nel senso che dopo aver visto lei non ne vorresti più vedere nessun'altra. Ma questa non è più critica cinematografica, è estetica (in senso fisico e filosofico).
Scherzi a parte, ci sembra difficilmente contestabile che Gong Li è una delle più sfolgoranti apparizioni da quanto il cinema è nato; che i suoi primi piani sono da infarto; che con un suo primo piano si apre il film; e che proprio da quel primo piano bisogna far iniziare ogni discorso. In quel p.p., Songlian è ancora Songlian: diventerà la “quarta signora” solo dopo i titoli di testa. E l'inquadratura è l'unica (assieme alla successiva, un esterno sul quale scorrono i titoli e che, con il passaggio di quella portantina, è un ironico ammicco a Sorgo rosso) girata fuori da quell'autentico labirinto che è casa Chen. In essa Songlian parla con la madre ma la madre non si vede. Più avanti nel film scopriremo che è solo la matrigna. Comunque sta fuori campo, e fuori del film, così come il padre di Songlian, che è appena morto. Songlian ammette che ora, da orfana, non può più studiare, e allora si sposerà, e già che ci siamo sposerà un uomo ricco. “Ma allora sarai una concubina”, dice la voce/simulacro della matrigna; “Già, una concubina. È questa la sorte di ogni donna”. Lacrime, musica che sale, dissolvenza in nero. Poi comincia il film, e Songlian muore: arriva in casa Chen e diventa la quarta signora.
Liberiamo subito il campo da alcuni equivoci; ovvero, da alcune “esche” che Zhang semina nel film ad uso e consumo di gonzi e burocrati (questi ultimi, ahimè, non ci sono cascati: di questo parleremo poi). La suddetta portantina cita Sorgo rosso come dire: ricordate che film ho fatto, quella volta? Pieno di sangue, di azione, di colori? Bene, scordatevelo. Facciamo subito sparire la portantina e prepariamoci a un film completamente diverso: in cui il sangue, l'azione, i colori restano fuori dal quadro, come in una tragedia greca. E da questa prima, chiarissima indicazione di regia dipendono tutte le scelte narrative del film, a cominciare dalle altre “esche” che Zhang ci fa balenare sotto il naso. Inizialmente sembra che la studentessa Songlian debba in qualche modo ribellarsi all'ordine costituito di casa Chen, ma non è cosi. Più in là, sembra che fra lei e il figlio adolescente del padrone debba nascere una storia, ma anche stavolta non è così. Perché il figlio non esiste, gli uomini non esistono, nulla esiste al di fuori delle quattro signore che compongono un universo completo, conchiuso, autosufficiente. Gli uomini sono simulacri - o divinità, che è poi la stessa cosa. Uno dei primi atti a cui deve sottoporsi Songlian è la reverenza ai ritratti degli antenati, e padron Chen potrebbe benissimo essere anch'egli un quadro, appiccicato al muro: la sua funzione narrativa non ne verrebbe sminuita, anzi. Lui, il figlio, il padre morto, il medico, i servi (pronti a tramutarsi in carnefici) sono solo garanti: di un ordine che sopravvive nei secoli e all'interno del quale le signore possono giocare i propri giochi di potere. E, giocando, riconoscersi. Esistere. (…)
Il quadrato magico che si stabilisce fra le “signore” è talmente forte da diventare l'unico referente (linguistico e narrativo) di tutti i personaggi. Il giovane medico è un personaggio di qualche peso solo perché ha una relazione con la terza signora e “serve” a smascherare la finta gravidanza della quarta. Soprattutto, il quadrato è essenziale per capire l'unico personaggio importante al di fuori delle quattro mogli: la giovane servetta di Songlian. Chiaramente la ragazza è stata sedotta dal padrone (Songlian la scopre insieme a lui) e ha accarezzato il folle sogno di diventare lei, la quarta signora. Un'altra cameriera glielo dice chiaramente, in un momento di bella “solidarietà” di classe: “Tu sei nata per fare la serva”. In altre parole, la ragazza ha vanamente sperato di inserirsi in un modello (sociale e comportamentale) che la esclude senza nessuna possibilità di speranza. Per certi versi anche lei è uno strumento del destino: è lei che fa capire a Songlian quanto la odi la seconda signora, è lei a tradire Songlian rivelando alla seconda signora di aver trovato tracce di sangue sulla sua biancheria. Ed è la notizia della sua morte ad abbattere ulteriormente Songlian, spingendola all'ubriachezza, e alla terribile rivelazione sull'adulterio della terza signora. Il fulcro narrativo di tutto il film, comunque, è sicuramente la scena in cui Songlian entra nella stanza della serva, scopre le lanterne “illecitamente” accese, e trova il bambolotto con il proprio nome trafitto dagli spilli. Il nome, appunto. Songlian ne è sconvolta non solo perché la sua presenza rivela l'odio della seconda signora, ma anche perché, al suo nome, non è più abituata. Quel “Songlian” emerge come un retaggio del passato (e il bambolotto non è forse un “segno” infantile?). Come il ritorno inatteso di una coscienza sepolta. L'analisi delle denominazioni interne al film è fondamentale per capire quale tipo di modello (sociale e narrativo) Zhang Yimou mette in scena.
Nel film esistono solo le “quattro signore” e il “padrone”. I loro veri nomi vengono detti ma non sono quasi mai usati. Soprattutto, non vengono mai usati nelle formule di rito, nei rituali sociali che si compiono all'interno della casa.
(…) Le quattro case delle quattro signore sono tutte uguali e la distribuzione degli spazi è, a volte incongrua, come quando le quattro signore vengono convocate sulla soglia, in attesa di sapere dove verranno accese le lanterne: e le soglie sono tutte sullo stesso corridoio, mentre in altri momenti del film pare di capire che ad ogni casa corrisponda un corridoio diverso.
(…)In Lanterne rosse non è lo spazio a modellare i personaggi perché le quattro signore hanno case tutte uguali, e quindi il modello è unico, unitario, compatto: quell'unità di spazio che è tipica della tragedia classica e all'interno della quale, a far la differenza, sono i rapporti di potere che si stabiliscono fra i personaggi. Lanterne rosse è a tutti gli effetti un testo tragico perché tutti gli spostamenti narrativi dipendono dal potere che le quattro donne conquistano, e mettono in campo ciascuna nei confronti delle altre tre. L'uomo, assente, è il simbolo di questo potere. In quanto simbolo può essere altrove. Lo è di fatto, nella parte finale del film, quando viene scoperto l'adulterio della terza signora. Ma lo è sempre, in realtà. Non si capisce, e non si dice mai, dove abiti il padrone; cambia casa ogni notte, a seconda della moglie prescelta, ma non ha un luogo proprio. Il suo posto è ovunque e in nessun luogo, il potere pervade tutto lo spazio senza essere concretamente in nessun punto specifico di quello spazio medesimo.
È perfettamente coerente a questo modello tragico che Songlian comprenda i termini della propria tragedia, senza poter far nulla per modificarla. Quando emerge la coscienza della tragedia, il rosso invade lo schermo. Le lanterne rosse vengono accese in permanenza nella casa di Songlian, quando ella fa credere di essere incinta: “come segno di longevità”, ci viene detto. Ma Zhang ha spiegato in svariate interviste che il rosso, in Cina, è colore simbolo di molte cose: della nascita e della morte, fra l'altro. In Lanterne rosse diventa simbolo della vana consapevolezza che Songlian conquista in almeno due momenti fondamentali: la suddetta scena nella stanza della serva, e la stupenda scena in cui le lanterne risplendono nella casa della terza signora appena uccisa. Sono i due momenti in cui la quarta signora esce dal proprio ruolo e ridiventa, per un attimo, la Songlian della prima inquadratura: ma è un “fuori da sé” illusorio, la quarta signora non può infrangere le pareti del quadrangolo maledetto; ed è un “fuori da sé” che confina - ancora una volta, tragicamente - con la follia, con l'accusa di essere “diventata pazza” che il marito le ritorce immediatamente contro.
Al di fuori del rosso, il film è quasi in bianco e nero. Non si vede mai il blu del cielo (a dire il vero, quasi non si vede il cielo, se non in qualche scorcio). Il bianco della neve e l'ocra dei muri invadono lo schermo. Ma forse non è un caso che le uniche macchie di azzurro del film siano una maschera e un vestito nella casa della terza signora, e l'abito che indossa Songlian nell'ultima parte del film. Il blu e l'azzurro sono segnali di morte e di estraneità. Songlian è vestita di blu anche nella sequenza, anch'essa stupenda, in cui segue sul tetto i servi che portano a morte la terza signora, e scopre il cadavere di quest'ultima. Il suo urlo, sentito da lontano, in campo lunghissimo, è già quello di un fantasma. E “tra gli uomini e i fantasmi, la sola differenza è il respiro”.
Lanterne rosse è un film proibito in Cina. Questo non dovrebbe essere materia di un'analisi testuale, ma una piccola riflessione può essere opportuna. Apparentemente ai funzionari del PC cinese un film del genere, sulla Cina degli anni Venti, dovrebbe piacere: perché viene da pensare che, se le cose andavano così, valeva davvero la pena di fare una rivoluzione. In realtà, i suddetti funzionari si sono forse rivelati intenditori di cinema più fini del previsto: hanno capito benissimo che Zhang parla dell'oggi, e il fatto che Songlian sia una studentessa dev'esser sembrato un riferimento alla Tian An Men troppo diretto per essere sopportabile. Ma forse bisogna fare un balzo interpretativo in più. Da un lato occorre considerare che se Songlian “è” una studentessa della Tian An Men, allora Lanterne rosse è un film che guarda a quella rivolta con grande amarezza: perché Songlian non è una ribelle, ma si rivela del tutto funzionale e interna a quella struttura di potere che sembra, all'inizio del film, voler mettere in discussione. Dall'altro, si può tranquillamente post-datare il film agli anni Venti e considerarlo sempre altamente eversivo. (…) Se le radici della società cinese sono li, in quel modello tragico che Zhang propone, Lanterne rosse è un film amaro da qualunque punto di vista lo si legga. La sua proibizione in Cina é uno scandalo che poteva essere ben difficilmente evitato. (…)
Tutta la nostra lettura di Lanterne rosse è, lo ammettiamo, fatta con gli occhi dell'occidente. Non potrebbe essere altrimenti, e riconoscerlo è giusto. E se ci mascherassimo da cinesi saremmo, appunto, solo delle maschere grottesche. Per scusarci del nostro eurocentrismo, diremo solo una cosa. Ci sono passaggi in Lanterne rosse che esulano da qualunque lettura intellettuale e sono “solo” grandi momenti di costruzione cinematografica. In particolare i suoni che popolano casa Chen: i massaggi “sonori” con le palline, i canti della terza signora, il disco che risuona dopo la sua morte, il flauto suonato dal figlio del padrone. Sono tutti richiami irresistibili ai quali i personaggi non possono non rispondere. Ci hanno ricordato un film dell'altro grande talento cinese, l'hongkongese Tsui Hark. In Shanghai Blues, il suo capolavoro dell'84, è una melodia suonata al violino che fa da richiamo, a distanza di anni, fra i due protagonisti. E si tratta sempre di melodie violentemente, spudoratamente romantiche. Chissà se Zhang ha mai visto i film di Tsui. Ci piace pensare di sì. Ci piace pensare che nel terreno dell'immaginario le tre Cine (e Taiwan è coinvolta in Lanterne rosse, nella figura del produttore Hou Hsiaohsien, il grande regista di Città dolente) siano più unite di quanto non si creda. Solo un sogno? Chissà.
Autore critica:Alberto Crespi
Fonte critica:Cineforum n.311
Data critica:

1-2/1992

Critica 3:
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