Ora di religione (L') -
Regia: | Marco Bellocchio |
Vietato: | No |
Video: | Video Warner B. |
DVD: | Elle U Multimedia |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Diventare grandi, I giovani e la politica |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Marco Bellocchio |
Sceneggiatura: | Marco Bellocchio |
Fotografia: | Pasquale Mari |
Musiche: | |
Montaggio: | Francesca Calvelli |
Scenografia: | Marco Dentici |
Costumi: | Sergio Ballo |
Effetti: | |
Interpreti: | Sergio Castellitto (Ernesto), Piera Degli Esposti (zia Maria), Jacqueline Lustig (Irene), Chiara Conti (Diana) |
Produzione: | Film Albatros, Rai Cinema |
Distribuzione: | Istituto Luce |
Origine: | Italia |
Anno: | 2001 |
Durata:
| 111’
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Trama:
| Ernesto, ex comunista ed ancora profondamente ateo, si ritrova nell’incubo della beatificazione della madre, procedura richiesta dai suoi fratelli. E come se non bastasse, suo figlio vuole frequentare a scuola l’ora di religione per non sentirsi diverso. L’unico spiraglio di luce arriva ad Ernesto dall'improvviso innamoramento per Diana.
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Critica 1: | Un uomo maturo, un pittore che vive nel centro di Roma, un giorno scopre che tutta la sua famiglia ex moglie compresa, ha organizzato a sua insaputa il processo di beatificazione di sua madre. Perplesso, Ernesto si aggira nei meandri di un parentado e di conoscenze che all'improvviso riscopre papaline e conformiste, costretto suo malgrado a riaprire i conti con un passato che, nel suo convinto e quieto ateismo, pensava di aver superato. Riscopre sul suo volto, ogni tanto, quel sorriso aleggiante che tutti, urtati, gli rimproverano e che lui riconosce come eredità sgradita, vagamente indifferente e sacrificale, di quella madre che non ha mai condiviso. E percorre, tra un amore nuovo al quale non si sottrae e un gesto di quotidiana attenzione verso il suo bambino, un cammino kafkiano che lo riconferma nella coerenza della sua vita: un po' ai margini dell'inquadratura, senza mai apparire in televisione, senza padri e padrini che facciano di lui qualcuno, senza madri. Con L'ora di religione Marco Bellocchio firma non solo il suo film più denso e rigoroso degli ultimi anni, ma anche una limpida dichiarazione d'intenti morale. Come essere e come il mondo intorno a noi (anche le persone più care) vorrebbe che fossimo; e il bisogno incessante di scrollarsi di dosso le tentazioni dell'acquiescenza e del buon senso, di ripercorrere la propria storia fino all'ultima contraddizione, fino all'ultimo dolore. Per riuscire a darle un senso, che può essere quello semplicissimo di accompagnare il proprio bambino a scuola e magari di riuscire così a condurlo in un posto dove Dio non ci sia e lui possa finalmente essere libero di stare solo. Con Ernesto, ci aggiriamo tra il paradosso e l'incredulità, avviluppati in un'atmosfera che passa senza soluzione di continuità dalle volute opprimenti di un incubo vaticano (la festa con i suoi ralenti, l'improvvisa apparizione e i discorsi deliranti dei nobili neri, il surreale duello all'alba) alla straordinaria pulizia d'immagine della vita di tutti i giorni, delle strade romane riprese attraverso i finestrini di un'auto, della scuola elementare, del giardino illuminato nel quale il bambino cerca di nascondersi da Dio. Bellocchio ci dimostra ancora una volta che lo stile non è un accessorio discrezionale, ma è il film, con le sue inquietudini e le sue illuminazioni, con la strada, precisa, che deve percorrere. Ci sono momenti in L'ora di religione in cui, come il suo protagonista, ci perdiamo; c'è un'inquadratura, che ritorna più volte, puntuale, con un guizzo di ironia e forse di orrore sotterranei, a farci ritrovare la strada (quella della famiglia schierata, e poi in marcia verso l'udienza papale - e non andremo, come il protagonista, in quella direzione); c'é, infine, un attimo di straziata commozione, in cui tutti i conti di una vita tornano, in cui si toccano con mano il dolore, lo spreco, il sacrificio, la disperazione. C'è un povero matto in un manicomio che urla bestemmiando la sua tragedia, che ci ributta a capofitto nei gesti e nei singulti di Alessandro nei Pugni in tasca, 37 anni fa, una vita fa, un mondo fa. La pace non è con noi; ma a quel povero matto e al suo urlo disperato qualcosa dobbiamo. Non fosse altro che un pochino di rigore. |
Autore critica: | Emanuela Martini |
Fonte critica | Film TV |
Data critica:
| 20/4/2002
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Critica 2: | L'ora di religione, ora disponibile su supporto digitale, è un film che ha la forza di rovesciare la crosta delle apparenze svelando un formidabile marketing dell'oppio dei popoli, ma anche l'ombra inquietante di un regime: in cui forse già viviamo.
Chissà se il cinema serve davvero a farci divertire come pazzi, a farci dimenticare chi siamo, ad abbandonarci all'estasi immediata e impagabile di una funzione così intrusiva e violenta nella nostra routine da farci uscire dal cinema grati e commossi, o spensierati. Nessuna teoria del cinema come evasione è mai riuscita sul serio a dimostrare che la semplice vacanza emotiva e intellettuale del grande scherno non implichi allo stesso tempo una sorta di risveglio in grado di renderci migliori quanto qualsiasi impegno intellettuale d'alto profilo. Ma si potrebbe dire qualcosa di molto simile per il contrario. Il vero cinema di ricerca, quello capace di rovesciare la crosta delle apparenze, di portare allo scoperto quanto di insopportabile e odioso accettiamo quotidianamente nel mondo, nessun vero autore è mai riuscito a toccare sul serio uno spettatore senza prima averlo scosso con emozioni profonde in cui è difficile separare l'angoscia dal più scatenato divertimento. L'ultimo film di Marco Bellocchio, L'ora di religione è una autentica testimonianza di ciò. Diciamo che siete impegnati nella vostra normale giornata di lavoro, opure siete a casa indaffarati in qualcosa di totalmente ordinario, diciamo che qualcuno suoni alla porta per comunicarvi che vostra madre, defunta da anni, sta per essere proclamata beata e quindi candidata alla santità dalle più alte gerarchie ecclesiastiche. Potrebbe essere l'inizio di un film di Totò o l'esordio di un incubo alla Kafka. E' ciò che succede al protagonista del film, Sergio Castellitto, uno dei nostri migliori attori, come dimostra la strategia di stupore e fastidio, rabbia e incredulità che porta avanti con eroica determinazione e adirata tolleranza per tutto il film. E' uno scherzo? No, è una cospirazione. Alla quale, scopre con orrore il protagonista, hanno partecipato, a sua insaputa, da anni, la quasi totalità delle persone alle quali è legato. La moglie dalla quale si sta separando, i fratelli, tutti (sia quelli che hanno scelto da tempo il conformismo più vieto, sia quelli che dopo la militanza armata si sono nascosti, pentiti, in una frustrata mediocrità). Tutti. Le vecchie zie, i cardinali, gli amici potenti, i dottori. La verità è che la madre, una donna modesta e limitata, è morta per mano di un figlio squilibrato e infelice. Lo stesso che, pressato dai parenti e dalle autorità, dovrebbe ora confessare, nella stanza dell'istituto psichico in cui si trova, di essere stato spinto al folle gesto da forze maligne. E' il momento più emozionante e commovente del film, anche se occupato da una tremenda bestemmia: l' unico atto di autentica religiosità dell'intero film perchè esploso da un uomo che si trova nel rovescio della piramide del suo dolore e della sua disperazione. E' il posto nel quale, come sanno tutti i cattolici, Dio ama incontrare gli uomini alla ricerca di conforto, di tregua dal mondo e di amore. Nulla di più lontano da ciò che la religione sembra essere oggi secondo il film di Bellocchio. Uno strumento di ambizione sociale, di egoismo e arricchimento, il territorio in cui una gerarchia di specialisti (dalla truppa dei sagrestani al quartier generale dei cardinali) si muove per il mondo militarizzando con arroganza e ferocia il proprio presidio. Sarebbe facile leggere L'ora di religione come un'allarmata disamina del fondamentalismo che ha rotto gli argini in tutto il mondo o ammirare l'originalità con la quale Bellocchio descrive l'instaurazione di un regime invisibile nell'Italia di oggi, non attraverso la descrizione delle sue forme di potere istituzionale ma attraverso l'insinuazione osmotica del cinismo spietato e dell'individualismo più abominevole nella forma apparentemente neutra della legittima ricerca del proprio interesse: se più di due terzi del pianeta credono in un dio, qualche ragione ci sarà, è l'argomentazione che viene offerta dal parente più cinico e calcolatore, interpretato da una Piera Degli Esposti che galvanizza in una sola sequenza un personaggio indimenticabile. Ma la verità è che Bellocchio non è interessato alla denuncia dell'aggressività dei nuovi volontari di santa romana chiesa o dell'ambiente politico che costituisce il suo fisiologico humus (una Roma iperdestrorsa e neomonarchica, aristocratica, gaglioffa, decadente, erede grottesca della nobiltà della Dolce vita: ad essa appartengono personaggi, come quello di Toni Bertorelli, che colorano il film delle scene più irreali e divertenti, più brillantemente inquietanti), più di quanto lo sia a trasmettere l'oscura e densa sensazione di isolamento ed emarginazione che prova chi non è connivente con il nuovo formidabile marketing dell'oppio dei popoli. Ogni obiezione è oggetto di scandalo e censura, ogni dubbio inopportuno, ogni ironia scatena manovre punitive. Chi non ha altri dogmi da oppore a tale esercito, e ha deciso di non averne dopo averne professati e smascherati degli altri altrettanto ingannevoli, è costretto alla disfatta sin dall'inizio. Si può solo sognare la rimozione simbolica di quest'orrore (velleità utopica che il protagonista materializza, nella sua professione di grafico e pittore, immaginando con il computer di cancellare l'Altare della Patria dal mondo con photoshop). O rifugiarsi in qualcosa - come fa lui con una donna alla fine del film - che possa promettere davvero abbandono, momentaneo annullamento e passione da scambiare con altri esseri inermi e confusi su questo pianeta. Qualcosa che può essere offerto solo dall'amore. E forse dal cinema. |
Autore critica: | Mario Sesti |
Fonte critica: | Kwcinema |
Data critica:
| 4 dicembre 2002
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Critica 3: | Dice molto bene Marco Bellocchio quando spiega che il suo nuovo film, L'ora di religione, nasce da un'immagine: la visita di un sacerdote all'ignaro pittore Ernesto Picciafuoco, per annunciargli che è in corso il processo di beatificazione di sua madre. L'immagine è talmente nitida e spiazzante che da essa il film "nasce" anche per lo spettatore, facendolo entrare in un suspenser metafisico, una specie di giallo diverso da tutti i gialli. Nonché dal Bellocchio che conoscevamo: perché questa volta il regista immerge temi da sempre appartenenti al suo immaginario (la famiglia, l'ipocrisia che impregna i rapporti sociali) in un insolito bagno d'ironia nervosa, sospesa, che è la cifra di un film straordinariamente riuscito. Sorpreso dalla notizia, e ancor più dall'apprendere che la congiura tra i preti e i suoi famigliari dura da tre anni, il pittore scivola in una crisi depressiva. Se non ha mai amato se stesso, è perché ha il sorriso identico a quello della madre, la "beata", morta per mano di un altro figlio: in realtà l'ambiguo sorriso da Gioconda di una donna insensibile, anaffettiva, cui Ernesto teme di somigliare. Intorno all'uomo in crisi, perno della storia, si muovono due universi concentrici: la sua famiglia e l'ambiente delle gerarchie vaticane, tra cardinali e nobiltà nera capace - ancora - di sfidarti a duello. Bellocchio rappresenta il secondo come un mondo d'ombre, popolato di zombi paludati e grotteschi, che non spiacerebbe affatto a Fellini; anzi, che in fondo non fa nulla per celare la propria discendenza iconografica dalle "sfilate" ecclesiastiche di Federico il Grande. Benché laico fin nelle midolla, ateo dichiarato, il pittore rischia di lasciarsi avvolgere da quel clima insinuante, limaccioso e mellifluo, capace di neutralizzare qualsiasi voce dissidente in un bigottismo di maniera sotto cui si celano cinismo e culto dei propri interessi (vedi il geniale personaggio di zia Maria, affidato a Piera Degli Esposti). Nella dimensione in cui Ernesto si ritrova a vagare anche gli angeli, come la bella insegnante di religione di suo figlio, che ha appena conosciuto e di cui si è innamorato, potrebbero essere agenti dell'Opus Dei; ma è proprio qui che l'uomo dovrà compiere una scelta radicale, mettendo in gioco la propria identità. Oltre al valore intrinseco del film, è bello vedere che Bellocchio non ha aperto i pugni che teneva stretti in tasca poco meno di quarant'anni fa. L'ora di religione è un film disposto a prendere posizione come pochi, risoluto, lontano le mille leghe sia dai compromessi ideologici, sia da quelli estetici. Quando, tra un mese, rappresenterà il nostro cinema al festival di Cannes, avremo qualcosa di cui andare fieri. |
Autore critica: | Roberto Nepoti |
Fonte critica: | la Repubblica |
Data critica:
| 20/4/2002
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | |
Autore libro: | |
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