Enrico IV -
Regia: | Marco Bellocchio |
Vietato: | No |
Video: | Biblioteca Rosta Nuova, visionabile solo in sede - Mondadori Video |
DVD: | Hobby & Work |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Letteratura drammatica, Letteratura italiana - 900 |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tratto da "Enrico IV " di Luigi Pirandello |
Sceneggiatura: | Marco Belloccio, Tonino Guerra |
Fotografia: | Giuseppe Lanci |
Musiche: | Astor Piazzolla |
Montaggio: | Mirco Garrone |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Luciano Bartoli (Enrico IV giovane), Giacomo Bertozzi, Paolo Bonacelli, Luciano Branchi, Claudia Cardinale (Matilde), Giuseppe Cederna, Latou Chardons, Gianfelice Imparato, Maria Loos, Fabrizio Macciantelli, Marcello Mastroianni (Enrico IV), Gianluigi Sedda, Claudio Spadaio, Leopoldo Trieste |
Produzione: | Rai Radiotelevisione Italiana Rete 2 - Tv Odyssia |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Italia |
Anno: | 1984 |
Durata:
| 85’
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Trama:
| Nel corso di una festosa cavalcata in maschera, un giovane subisce una grave caduta provocata dal Barone Belcredi, suo rivale in amore. Impazzito per il colpo, il giovane assume l'identità di Enrico IV di Germania, di cui indossa il costume al momento dell'incidente e, rinnegando il presente, si allontana dalla donna che respinge il suo amore e dagli amici che si fanno beffe di lui per rinchiudersi in un castello con un piccolo gruppo di servitori. Anche quando ha superato il trauma della caduta, egli conserva la maschera del pazzo recitando la commedia dell'imperatore tormentato dalla scomunica di Gregorio VII, ma nel suo animo esacerbato dalle delusioni e dalle finzioni del mondo, coltiva un amaro risentimento e progetti di rivalsa. Questo è l'antefatto del film di Bellocchio che si ispira al dramma di Pirandello. L'azione inizia venti anni dopo con la visita al castello del gruppo che un tempo aveva partecipato alla mascherata. In primo luogo Matilde, la donna amata dal finto Enrico IV, sua figlia Frida, Belcredi, che nel frattempo, è divenuto l'amante di Matilde, e uno psichiatra che vorrebbe con un esperimento tentare di guarire quello che credono un povero matto. La miseria morale e l'ipocrisia di questi personaggi provocano lo sdegno del folle - che peraltro folle non è - e lo inducono a rivelare la verità, prima ai servitori, poi ai nuovi venuti che accusa delle colpe del passato, della sua vita non vissuta e, infine, abbraccia Frida che somiglia tanto alla madre così da essere la donna che egli avrebbe voluto e che ora in Matilde invecchiata non trova più. La sorpresa sbigottisce i domestici che per anni erano stati compagni, musicisti e famigli dell'imperatore e riempie di spavento Matilde, Belcredi e lo psichiatra che sono stati smascherati da colui che credevano uno smemorato da compatire. In un ultimo gesto di ira, il finto Enrico IV alza la mano sull'amico che l'ha tradito; ma una mano armata di una spada da teatro, compiendo quindi un gesto che ha il valore di beffa. Poi torna a rinchiudersi nella definitiva finzione dalla follia, ben sapendo che la sua confessione di "normalità" lo ha paradossalmente reso prigioniero per sempre della pazzia.
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Critica 1: | Dalla celebre opera di Pirandello, un film di grande forza, interpretato da un Mastroianni in stato di grazia e diretto da un Bellocchio sempre più interessato alle tematiche dell'umana follia. Cadendo da cavallo durante una festa in maschera, un giovane assume l'identità del costume che indossa, quello di Enrico IV. A vent'anni di distanza, la verità sarà svelata, ma la follia non potrà avere fine. |
Autore critica: | |
Fonte critica | mymovies.it |
Data critica:
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Critica 2: | Piaccia o no l'Enrico IV di Bellocchio rimanda a Pirandello e con questo bisogna fare i conti. La prima cosa che si può dire è che Bellocchio non ha adattato Pirandello, non l'ha trascritto né illustrato: ha fatto un film fedele al testo originario o, se si preferisce, ad alcune sue ispirazioni di fondo, per poi cercare la forma in altre strade. (…) L'Enrico di oggi si presenta, nella storia dell'autore piacentino, come un nuovo ritorno. Ancora nell'entroterra provinciale, fra le suggestioni di una collina che, pur trasfigurata dalla seduzione del colore, richiama il paesaggio lontano de I pugni in tasca. Stavolta però il rito viene celebrato senza il ricorso al pathos della morte, non accade nulla (né la verosimiglianza del fatto, né la simulazione) che ci riporti al percorso tragico e «liberatorio» di altre occasioni. Ogni percorso ha qualcosa di temporale: quello di Giovanni Pallidissimi in Gli occhi, la bocca ad es. si delineava in un doloroso scavo di memoria e si protendeva verso un futuro possibile, anche se incerto; Enrico IV offre invece qualche simulacro del tempo, allude ad esso solo per annullarlo e per confondere. Vi sono, è vero, rimandi percepibili ma tutto avviene nello stacco della citazione intertestuale. Si può dire allora che la fedeltà di Bellocchio a Pirandello è riconoscibile anzitutto in un atteggiamento di sfiducia verso quella che si suole definire come Storia e nel sacrificio (non sappiamo se e quanto provvisorio) dell'altro aspetto, quello della storia personale, a cui il regista ha dedicato sforzi e passione non secondari nelle ultime opere.
Nelle sequenze iniziali di Enrico IV c'è l'alba e un movimento che lambisce una superficie d'acqua. Non è l'alba chiara e domestica di Salto nel vuoto: il paesaggio riverbera le larghe striature rossastre del cielo e il punto di osservazione, l'abitacolo dell'automobile, presenta l'irregolarità di contorni delle figure in controluce.
Il profilo scuro di Matilde, col segno aspro del cappello e della veletta, allude alla iconografia tardo-simbolista e liberty; mano a mano che la luce del giorno cresce, appaiono altre immagini: uomini e donne in costume medioevale (le fotografie che Matilde osserva tornando al passato con la memoria) e, finalmente, nel sole ormai alto, il castello neogotico.
La Mercedes avanza con una certa estraneità (ma rendendo estraneo a sua volta il resto) in un ambiente stravagante, dove si incontrano domestici vestiti da scudieri. In alto, sul muro del castello c'è un orologio fermo. Già dal momento in cui i visitatori scendono dalla Mercedes è difficile vederli nel tempo che il loro abbigliamento suggerirebbe; appena prima, l'inseguimento scherzoso di due domestici ci aveva costretti a un'identificazione ambientale subito smentita dai suoni del dialetto e dall'usualità contemporanea dell'eloquio. Anche i flash-back che quasi senza soluzione di continuità avevano invaso lo schermo dei finestrini durante l'avvicinamento dell'automobile, portavano a un'immagine collaudata del medioevo cinematografico di «genere». Il gioco goliardico dei travestimenti agisce in un immaginario che sfasa continuamente la temporalità: quella dell'epoca a cui il travestimento stesso allude, quella del travestimento come tale e ancora quella vaga dei luoghi diversi della memoria o della proiezione fantastica. Lo spazio del castello somiglia un po' a un manicomio (libertario per certi versi, ma pur sempre segnato dalla minaccia simbolica di portoni e sbarre), un po' a una comunità terapeutica. Ci mostra il carnevale dimesso degli adulti goffi ma è anche un rifugio di infantile serenità. I bambini vi si trovano a proprio agio, perpetui e atemporali nel gioco, e anche Enrico IV, la cui stanza si anima del movimento di uccelli giocattolo appesi al soffitto quando si apre la finestra, vive in una specie di ludica parentesi. Se il passato è in qualche modo visibile nei rimandi della memoria e nella testimoniale esperienza del protagonista, resta tuttavia imprigionato dentro convenzioni rigide che lo sprofondano nell'astrattezza e, ancora una volta, nell'indefinibilità del tempo.
Come già nel testo pirandelliano la storia si svolge a vent'anni di distanza dal famoso incidente che ha condotto il protagonista alla pazzia; Bellocchio richiama quegli anni lontani con tre citazioni. Nella prima c'è una festa e uno spogliarello sulla musica (il cha, cha, cha) de La dolce vita, nella seconda un'allusione al ritorno di Sandra nell'antica dimora familiare di Volterra in Vaghe stelle dell'orsa, nella terza il pazzo Enrico che, appena alzato, si trattiene con un ragazzino a cui fa da anomalo maestro come Ale ne I pugni in tasca. Sono tre citazioni successive (anche in ordine alla cronologia cui si riferiscono) collocate una dopo l'altra nei primi venti minuti di film. Non si tratta di citazioni esplicite, ma piuttosto di analogie: il boom della Dolce Vita, l'entroterra arcaico del film di Visconti che rivive nell'espressione assorta della stessa attrice (ha il volto appena invecchiato in ombra, come allora, sotto il lembo del cappello) e infine l'accenno all'esordio che ai primi due, ma specialmente al secondo, doveva moltissimo. Dopo di questo il tempo si ferma, la percepibile distanza confonde i contorni della citazione (della memoria), l'analogia resta pura convenzione testuale, cinematografica, puro reperto, e si confonde con altre, sparse nell'immaginario. È quasi un appiattimento (o una desolazione della profondità) dove, assieme al senso temporale viene meno lo stesso punto di osservazione. Così la macchina da presa si muove come per assecondare l'inaffidabilità di Enrico, si adatta all'eterodossia spaziale del castello, alle sue bislacche architetture. Da queste angolazioni la scena e l'infinito gioco di specchi cui dà luogo, possono essere ulteriormente deformati: mentre il gruppo degli ospiti si agita nell'emozione del giochetto teatral-psichiatrico che si sta preparando, Enrico segue dall'alto appena anticipato da un movimento di macchina che lo riprende in perpendicolare. Mentre la macchina da
presa avanza, il senso di prospettiva verso il basso si smarrisce e si ha l'impressione di uno spostamento bidimensionale verso l'alto finchè, giunto al balconcino interno da cui Enrico si affaccia, la profondità di campo torna evidente. Frattanto l'orologio del castello resta immobile. Il tempo non si può interrompere senza annullarsi: una sola volta l'orologio riprende a funzionare ma è per gioco e le lancette girano impazzite.
L'affinità più profonda di Bellocchio col testo pirandelliano ci pare stia proprio in questo modo di lavorare con la citazione. L'Enrico IV di Pirandello è leggibile anche in questa chiave. La mascherata grottesca che prepara la tragedia fa pensare immediatamente ai contemporanei del periodo, ai drammi storici dannunziani e a Sem Benelli ma non può, per la profondità delle sue rotture e la metafisica funzione della pazzia, non far pensare alla tradizione drammatica più antica: alla tragedia elisabettiana. Passando per la volgarizzazione filodrammatica dei suoi contemporanei Pirandello carica la propria citazione di un senso di vanità che sposta e aggiorna i termini fatalistici della tragedia tradizionale. Nonostante che l'attiguità fra comico e tragico si faccia sempre più avvertibile l'Enrico IV di Pirandello decide pur sempre per la lacerazione tragica, ancora differita, forse, rispetto ai Sei personaggi, ma risolutiva. Bellocchio propende invece per il comico. Quasi nella consapevolezza dichiarata di agire nel disagio di un testo «saputo», il regista ricorre anche ai rischiosi espedienti della farsa variando il tono rispetto al bersaglio: la mantiene cioè carica di sarcasmo (e qui resta ben legato alla tradizione) nel rivolgerla contro il gruppo degli ospiti, l'addolcisce col protagonista e i suoi compagni-complici. (...) |
Autore critica: | Tullio Masoni |
Fonte critica: | Cineforum n. 239 |
Data critica:
| 11/1984
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Critica 3: | |
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Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | Enrico IV |
Autore libro: | Pirandello Luigi |
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