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Tram che si chiama desiderio (Un) - Streetcar Named Desire (A)

Regia:Elia Kazan
Vietato:No
Video:Warner Home Video
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Letteratura drammatica, Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal dramma "Un tram che si chiama desiderio" di Tennessee Williams
Sceneggiatura:Oscar Saul, Tennessee Williams
Fotografia:Harry Stradling
Musiche:Alex North
Montaggio:David Weisbart
Scenografia:Richard Day
Costumi:Lucinda Ballard
Effetti:
Interpreti:Vivien Leigh (Blanche Dubois), Marlon Brando (Stanley Kovalski), Kim Hunter (Stella Kowalski), Karl Malden (Mitchell), Rudy Bond (Steve), Nick Dennis (Pablo), Peg Hillias (Eunice)
Produzione:Charles K. Feldman Group - Warner Bros.
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:Usa
Anno:1951
Durata:

122'

Trama:

Rimasta vedova a causa del suicidio del marito, la fragile Blanche si trasferisce da Laurel, Mississippi, a New Orleans, a vivere dalla sorella Stella, sposata con il brutale Stanley Kowalski. Blanche in realtà è fuggita a causa della sua condotta scandalosa e ha perduto la proprietà di famiglia, della quale una parte spettava a Stella, e comincia a raccontare una serie di bugie per coprire il suo passato, ma Stanley vuole vederci chiaro. Fra gli amici del cognato, Blanche conosce il timido Mitch, che subisce il fascino della donna, ma Stanley scopre la verità sulla cognata e informa l'amico, che si allontana, cancellando così la possibilità per Blanche di rifarsi una vita. Ma fra Stanley e la cognata c'è un sottile gioco di seduzione, a cui Blanche non è estranea, che finirà con uno stupro, conducendo la donna in manicomio, mentre Stanley si riconcilierà con la moglie che ha appena partorito.

Critica 1:Blanche Dubois, vedova sessualmente repressa, va ad abitare a New Orleans in casa della sorella Stella, cerca di farsi sposare da un maturo corteggiatore, ha un ambiguo rapporto di seduzione col rozzo cognato che si chiude con uno stupro e scivola nella follia. Tratto da un dramma in undici scene di Tennessee Williams (messo in scena dallo stesso E. Kazan nel 1947 con gli stessi interpreti principali e Jessica Tandy nella parte di Blanche). Kazan usa la cinepresa come un microscopio che penetra nella psicologia dei personaggi, punta sulla crudeltà del linguaggio nell'esibizione dei corpi, del sudore o dell'odore, scarta una scelta naturalistica nella scenografia, si affida alla violenza della parola per suggerire le pulsioni di morte che dominano il testo. Nove nomination agli Oscar e tre statuette per V. Leigh, K. Hunter, K. Malden (…). Rieditato nel 1993 con i 4 minuti a suo tempo censurati.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Dire che Un tram chiamato desiderio è un film sperimentale vuol dire situarlo in quella regione che sta sotto il segno dell'eccesso, della contraddizione, del fallimento (praticato magari con ostinazione). Si dice spesso che il film è un miracolo di recitazione. Certo, ma è un miracolo ostentato, fagocitante, barocco ed è questo il segreto di un'opera che, nata e pensata come trasferimento di un dramma di successo nel cinema, diventa la distruzione sistematica della parola teatrale a favore di una immagine cinematografica dilagante e assorbente.
La gestazione è indicativa. Kazan non vuole girarlo: l'esperienza teatrale aveva per lui esaurito le sollecitazioni del testo. Solo l'amicizia e l'insistenza di Williams valgono a convincerlo. Ma riprendere in mano il dramma significa praticare una rilettura che tenga conto delle esigenze specifiche del cinema. La si può fare - e di solito si fa - attraverso il tradizionale sistema della dilatazione scenica, cioè la moltiplicazione degli spazi e dei tempi in cui situare lo sviluppo narrativo. Ma a Kazan pare che in tal modo la storia perda efficacia: «Presi quindi una decisione radicale... mi risolsi di colpo a filmare semplicemente il dramma... Avrei dunque semplicemente fotografato la mia messa in scena teatrale del capolavoro di Williams senza cambiare pressoché niente di ciò che egli aveva scritto per la scena» (Kazan par Kazan, p. 114). La primitiva scelta «romanzesca», narrativa, cede il passo ad un approccio antinaturalistico. Lo stesso metodo Kazan applica alla scenografia. Scarta una scelta naturalistica in cui le scene fungono da aggettivazioni, depauperando cosí il nucleo drammatico. Poiché l'oggetto da esorcizzare è nient'altro che un testo che affida le sue chances di coinvolgimento alla violenza della parola, il problema è costruire immagini che abbiano un potere di evocazione tale da sostituirai efficacemente alla parola teatrale. Se la parola di Williams funziona come decomposizione e abbrutimento di rapporti dominati dall'ansia e dalla ferocia della distruzione, l'immagine deve essere nell'immaginazione dello spettatore veicolo principe di quest'effetto.
Kazan pone con rara chiarezza il problema della distanza tra scena teatrale e scena cinematografica «C'è una differenza tra la recitazione sulla scena e quella sullo schermo, benché in fondo il problema sia nei due casi lo stesso: di essere psicologicamente veri. Tuttavia sulla scena io devo prendere il fatto interiore per proiettarlo in un comportamento esteriore che sia abbastanza dilatato da essere visibile, o da apparire eloquente ad un pubblico. Al cinema potete fotografare una persona che pensa, potete fotografare il pensiero; la macchina da presa può anche essere utilizzata come un microscopio, è uno strumento che penetra» (intervista a «Film and Filming», marzo 1962). La metafora della macchina come microscopio che avvicina mostruosamente l'occhio dello spettatore all'immagine schermica è l'intuizione che il cinema ha il potere semantico di produrre una realtà «altra». Secondo il Metodo l'attore, per rappresentare la realtà di cui era funzione, aveva a disposizione uno spazio «globale». Il cinema lavora invece sulla parcellizzazione dello spazio, in quanto la macchina da presa inquadrando esclude il «fuori campo». Inoltre, mentre il personaggio sul palcoscenico ha una continuità di rappresentazione, sullo schermo è diviso, poiché la «verità» della sua rappresentazione è affidata al legame immaginario che si instaura tra una serie di segmentazioni. Il microscopio ingrandisce ma avvicinando disgiunge. Dell'unità dell'attore-personaggio restano dei frammenti, la cui verità è affidata a comunicazioni prevalentemente materiche, le quali appartengono alla materialità dell'immagine, che è la realtà immaginaria del cinema.
Queste riflessioni teoriche ci fanno intendere l'organizzazione linguistica che sottende il film. Se in teatro i personaggi potevano comunicare una verità globale, nel film la tensione di morte che domina il dramma è delegata a un meccanismo basato sull'immagine. Ciò che essa comunica è una crudeltà che ha rapporti con l'esibizione dei corpi, del sudore o dell'odore che producono nella tensione dell'eccitazione, delle maschere ottuse o imbellettate. Queste materie visive putrescenti non sono la metafora della storia. Sono esse stesse il corpo frantumato della storia. Non rinviano che a se stesse e al loro reciproco lavoro di significanza. In tal senso possiamo parlare di film sperimentale e di unicità sintomatica nella filmografia di Kazan: un film nato sotto il segno della crudeltà del linguaggio (come direbbe Artaud), tessuto escrementizio di immagini dominate dalla pulsione di morte, attivazione di una semantica del desiderio.
Autore critica:Alfredo Rossi
Fonte critica:Elia Kazan, Il Castoro Cinema
Data critica:

4/1977

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



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