Cose di questo mondo - In This World
Regia: | Michael Winterbottom |
Vietato: | No |
Video: | Cecchi Gori |
DVD: | Dolmen home video |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Migrazioni |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tony Grisoni |
Sceneggiatura: | Tony Grisoni |
Fotografia: | Marcel Zyskind |
Musiche: | Dario Marianelli |
Montaggio: | Peter Christelis |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Jamal Udin Torabi (Jamal), Enayatullah (Enayat), Imran Paracha (agente di viaggi), Hiddayatullah (fratello di Enayat), Jamau (padre di Enayat) Wakeel Khan (zio di Enayat), Abdul Ahmad (sposo), Allah Bauhsh (Farid), Mirwais Torabi (fratello maggiore di Jamal), Amanullah Torabi (fratello minore di Jamal) |
Produzione: | Bbc, Film Council, Revolution Films, The Film Consortium, The Works |
Distribuzione: | Mikado |
Origine: | Gran Bretagna |
Anno: | 2002 |
Durata:
| 90'
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Trama:
| Pakistan. Nella città di Feshawa un milione di profughi afghani, arrivati dopo i bombardamenti ordinati dal presidente Clinton, alla fine degli anni Novanta, per colpire le presunte basi dei terroristi protetti dal regime dei talebani. Jamal è un ragazzo che vive in un immenso campo profughi alle porte della città. Enayatullah, un suo cugino più grande, vuole emigrare a Londra e la famiglia decide che sarà proprio Jamal a doverlo accompagnare in quanto conosce la lingua inglese. La coppia parte così, in treno, per la città di Quetta e poi, in auto, giunge a Taftan sul confine con l'Iran dove entra illegalmente non potendo esibire documenti. Ad un posto di blocco, i due vengono rispediti in Pakistan da dove, sborsando altri soldi, ritentano l'avventura aggirando la frontiera. Giungono così a Teheran, quindi al confine con la Turchia dove vengono accolti da una comunità che vive sui monti. Enayatullah è molto religioso, per natura diffidente verso gli estranei, timoroso di un viaggio verso l'ignoto: l'affiatamento e la solidarietà con Jamal, più smaliziato, sono totali nonostante le traversie che si trovano ad affrontare.
Passato a piedi, ancora clandestinamente, il confine turco, riescono ad arrivare ad Istanbul dove si fermano qualche tempo a lavorare e stringono amicizia con altri profughi pronti a partire per l'Europa. Ad Istanbul vengono rinchiusi in un container trasportato da una nave diretta a Trieste. Solo Jamal e un neonato sopravvivono. Il ragazzo, ormai solo, si paga con un borseggio il viaggio per Parigi e poi per la Normandia, dove in un campo d'accoglienza attende l'occasione per attraversare la Manica. Lo farà, insieme con un nuovo compagno, nascosto sotto il semiasse di un Tir che transita nel tunnel sottomarino tra Francia e Inghilterra. Giunto a Londra, telefonerà ai parenti per comunicare la morte del cugino che andrà a ricordare nella preghiera alla moschea.
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Critica 1: | Orso d’oro a Berlino, questo film girato come un documentario senza però tralasciare dei veri e propri estetismi cinematografici, è forse la prova migliore di Michael Winterbottom. Un’odissea moderna, raccontata attraverso gli occhi di due giovani afgani, seguiti dalla camera digitale, è questo e molto di più il film toccante e indimenticabile. Seguendo Jamal e Enayat, i due attori non attori, si viene trascinati lentamente e inesorabilmente nell’inferno tutto terreno dei clandestini.
Le speranze e i sogni dei profughi si infrangono contro la realtà occidentale, che li respinge inesorabilmente, ma anche contro lo stesso mondo da cui provengono che li risucchia e li rimanda indietro come in un girone infernale. Alla fine di questo viaggio doloroso e disperato, che Winterbottom segue in modo scarno senza inutili patetismi, sembra quasi che ogni ragazzo con l’aria da vagabondo agli angoli delle nostre strade, si riveli e ci mostri tutto ciò che si nasconde dietro la sua faccia sporca. Un film imperdibile, non solo perché permette di vivere in minima parte l’avventura crudele dei profughi, ma anche perché suggerisce al cuore di ognuno un utile e sano moto di sdegno. |
Autore critica: | Danila Filippone |
Fonte critica | |
Data critica:
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Critica 2: | Programmaticamente, e non poteva essere altrimenti, Cose di questo mondo si pone in scomoda relazione con la cronaca. Niente di più immediato, infatti, della tragica e "sfruttata" epopea dei profughi, una delle tante "parole d'ordine" del carrozzone mediatico. L'interferenza con l'attualità del film di Winterbottom si spinge però ben al di là delle implicazioni contenutistiche o della volontà di denuncia insite nel suo oggetto.
Converrà dunque riassumere la "vita" del film. Il progetto nasce prima dell'11 settembre quando il regista resta particolarmente colpito dalla morte di una cinquantina di cinesi che tentavano di raggiungere il Regno Unito. Il soggetto si basa sulle testimonianze di numerosi profughi, un materiale composito su cui a lavorato lo sceneggiatore Tony Grisoni (Paura e delirio a Las Vegas). Le riprese iniziano in concomitanza con l'intervento occidentale in Afghanistan.
Jamal, il giovane protagonista del film, un autentico profugo afghano di Peshawar, dopo la conclusione delle riprese e il ritorno a "casa", ha compiuto di nuovo l'allucinante viaggio attraverso Medio Oriente ed Europa: come nella fiction ce l'ha fatta, vive a Londra anche se non è riuscito ad ottenere la status di rifugiato politico e verrà espulso al compimento del diciottesimo anno di età. Il film è stato poi presentato al Festival di Berlino in concomitanza con il dibattito mondiale sul possibile intervento in Iraq e questo, senza alcun dubbio, gli è valso l'Orso d'Oro e una distribuzione in tutto il continente (aspetto non scontato per un'opera prodotta dalla televisione, girata con piccole telecamere digitali e parlata, per lo più, in afghano da interpreti assolutamente sconosciuti). A coronare questo incredibile iter, il film è uscito in Italia il 4 aprile in contemporanea all'attacco all'Iraq sferrato da Usa e Regno Unito, il Paese d'origine del film stesso.
Questi incroci avventurosi tra realtà e finzione non possono che influenzare la visione e i discorsi su Cose di questo mondo (meglio il titolo originale In This Worl,
meno paternalistico, meno Jacopetti Movie). Il rischio di accodarsi al vergognoso accanimento mediatico, viscido e famelico sia nei confronti degli aggressori che degli aggrediti, dei guerrafondai che dei pacifisti, è notevole. Proveremo ad evitarlo per non incorrere né nella cattiva coscienza della commozione e della pietà a buon mercato né nel cinismo piccolo borghese di un presunto realismo politico.
Non è criticamente molto proficuo utilizzare per Winterbottom la categoria di autore. Piuttosto discontinuo, come testimonia la diversificata accoglienza che i suoi film hanno avuto nel nostro Paese (dopo l'infatuazione per Butterfly Kiss, Jude e Go now, gli entusiasmi paiono smorzati), il regista britannico sembra dare il meglio di sé quando le varie componenti dell'apparato produttivo funzionano al meglio. Non si tratta tanto di una disponibilità finanziaria illimitata quanto della sicurezza di poter contare su di un affiatato lavoro di équipe. Tipico esempio di questo approccio è quello delle produzioni televisive, specie anglosassoni. Non a caso Winterbottom ha iniziato proprio dal piccolo schermo dove sembra aver fornito anche le prove migliori. E Cose di questo mondo è stato, come detto, prodotto dalla televisione (Bbc) e realizzato con mezzi assolutamente "leggeri", potendo così contare su decine di ore di girato.
Il professionismo di Winterbottom è fuori discussione. Non è semplice affrontare argomenti di questo tipo senza incappare in clamorosi fallimenti, ma la "scuola britannica" (basti confrontare la Bbc alla Rai) riesce ancora a fornire prodotti di qualità, politicamente corretti, ma non faziosi. Da questo punto di vista la coerenza del film viene meno solo in rare occasioni: ad esempio, nelle sequenze accompagnate da una colonna sonora "sbagliata" e gratuita, che enfatizza un'immagine già piena di suoni ed emozioni. Anche la voce fuori campo risulta talvolta troppo artificiale, ma la scelta era in parte obbligata in quanto l'aleatorietà della sceneggiatura e lo stile da reportage necessitavano di un inevitabile incoraggiamento didascalico per lo spettatore.
L'opzione per il mezzo ultraleggero digitale si rivela un vantaggio. Non solo per il senso di immediatezza, ma soprattutto perché la forma espressiva si coniuga con la scelta dell'improvvisazione e del reclutamento di attori non professionisti in una generale concezione del film come performance che la troupe stessa deve compiere. Si tratta appunto del viaggio: i cineasti compiono il medesimo cammino dei profughi. Così nella confusa sequenza notturna del passaggio della frontiera per approdare in Turchia l'assenza di illuminazione artificiale pone gli operatori, e la telecamera, sullo stesso piano dei fuggiaschi: al buio, in mezzo alla neve, senza una direzione, ma procedendo tentoni attirati da isolati bagliori e messi in fuga da spari e grida. La povertà dei mezzi, in sostanza, non si avverte, viene anzi giocata in "positivo".
Altro esempio riuscito può essere individuato nell'angosciante odissea in container da Istanbul a Trieste durante la quale la maggioranza dei profughi, ad eccezione di Jamal e del neonato, perderanno la vita: ancora il buio che si mescola alle urla, alle inascoltate richieste di aiuto, ad un senso di insostenibile claustrofobia. Questo soffocamento è stato preparato nel corso film dalla progressiva "chiusura" dell'orizzonte e del cielo, dall'utilizzo di mezzi di trasporto sempre più opprimenti: i due protagonisti passano dal cassone posteriore, aperto, dei pick-up circondati dalla maestosità del deserto a luoghi sempre più angusti (pullman, camion) fino all'autentica camera della morte che li farà approdare in Europa. E Jamal per arrivare in Inghilterra dovrà passare nell'asettico tunnel della Manica: lo spaesamento e la deterritorializzazione sono totali.
L'efficacia e la suggestione del lavoro compiuto sul sonoro si evidenziano nella sequenza finale: la preghiera di Jamal per l'amico scomparso scorre ossessiva sul nero dei titoli di coda come un ammonimento che accompagna lo spettatore mentre abbandona la sala e ritorna alla tranquillità occidentale. La visita alla moschea offre pure una chiave interpretativa sul complesso del film: se nel corso del viaggio Enayatullah è il personaggio più legato alla tradizione, alla preghiera, nel finale Jamal, attraverso il ricordo dell'amico, riscopre un legame con le proprie origini. Una notazione questa (il ritorno alle radici per il consolidamento di un'identità che tende ad essere negata dal Paese in cui si è ospiti) che evidenzia la causa di molte situazioni a rischio dove l'immigrato è obbligato a schierarsi, per sopravvivere, su posizioni difensive, a volte reazionarie, che culturalmente non gli apparterrebbero.(…) |
Autore critica: | Alberto Zanetti |
Fonte critica: | Cineforum n. 425 |
Data critica:
| 5/2003
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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