Tregua (La) -
Regia: | Francesco Rosi |
Vietato: | No |
Video: | Elle U Multimedia, Cine Video Corporation |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | La memoria del XX secolo, Letteratura italiana - 900 |
Eta' consigliata: | Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori |
Soggetto: | Tratto dal romanzo omonimo di Primo Levi |
Sceneggiatura: | Tonino Guerra, Sandro Petraglia, Francesco Rosi, Stefano Rulli |
Fotografia: | Pasqualino De Santis, Marco Pontecorvo |
Musiche: | Luis Enriquez Bacalov |
Montaggio: | Ruggero Mastroianni, Bruno Sarandrea |
Scenografia: | Andrea Crisanti |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Igor Bezgin (Egorov), Claudio Bisio (Ferrari), Teco Celio (Colonnello Rovi), Roberto Citran (Unverdorben), Stefano Dionisi (Daniele), Maryna Gerasymenko (Marja Fiodorovna), Massimo Ghini (Cesare), Lorenza Indovina (Flora), Andy Luotto (D'Agata), Viacheslav Olhovsky (Tenente Sergej), Rade Serbedzija (Il Greco), John Turturro (Primo), Agnieszka Wagner (Galina) |
Produzione: | 3 Emme Cinematografica |
Distribuzione: | Warner Bros. |
Origine: | Italia |
Anno: | 1996 |
Durata:
| 140'
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Trama:
| Dal libro (1963, premio Campiello) di Primo Levi (1919-87), sceneggiato da F. Rosi, S. Rulli, S. Petraglia con l'apporto di Tonino Guerra. Il 27-1-1945 i soldati russi arrivano a Buna-Monowitz (Polonia), una delle trentanove sezioni del lager di Auschwitz (Oswiecim). Alla fine di febbraio il chimico ebreo torinese Primo Levi (J. Turturro) comincia il lungo viaggio di ritorno che dura quasi otto mesi tra destinazioni incerte, derive, soste obbligate, peripezie, vagabondaggi. Dopo un viaggio in treno di 35 giorni il 19-10-1945 arriva a casa, a Torino.
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Critica 1: | Per bloccare l'attenzione dello spettatore sul "non dimenticare" preteso da Levi, nell'atto di dirigere La tregua e nell'allestire i cartoni preparatori (ciò che viene chiamato "prefilmico"), Rosi si è affidato al doppio registro della commozione e della contemplazione, del coinvolgimento emotivo e della meditazione sull'esempio morale che se ne può ricavare. E, legandoli con un movimento pendolare, passa dalla registrazione di un'emozione a momenti che, per intenderci, chiameremo "epici". (...)I materiali narrativi ricomposti nel film pretendevano un'articolazione di estrema semplicità sintattica che escludesse rigorosamente ogni ambiguità, ogni confusione, ogni indeterminatezza. E Rosi ha cercato e ha trovato uno stile puro costringendosi al massimo controllo delle possibilità del mezzo, a una assoluta economia delle potenzialità della cinepresa (cosa che, poi, contrastava con la necessità di far muovere le masse, di obbligarle a una naturalezza estrema). |
Autore critica: | Francesco Bolzoni |
Fonte critica | La Rivista del Cinematografo |
Data critica:
| marzo 1997
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Critica 2: | Al cinema politico, non crede più nessuno. Il genere è ormai diventato paria, salvo che non accompagni processi storici irreversibili (L'uomo di marmo, Biko). La ricezione di immagini politiche esplicite ha creato nel corso del tempo una zona sempre più gelida e impenetrabile rispetto all'impegno obbligatorio. Sia che le immagini avessero il tono esplicito della crociata (come i documentari dei fronti di liberazione anti-imperialisti anni '60) sia che "stonassero", con suggestioni subdole o seducenti (come fu lo spot pro-Sun City che Berlusconi amava trasmettere durante l'apartheid, per glorificare un'economia di mercato davvero "perfetta"). Sia che, serie e emozionanti, indignate ma persuasive, toccassero la razionalità del pubblico, cui è pur permesso di pensare, analizzare e giudicare. Era quest'ultimo il terreno del grande e rimpianto cinema civile di Francesco Rosi. Le mani sulla città, Il caso Mattei, Salvatore Giuliano. Eppure oggi non ci si fiderebbe più troppo della "sostanza conoscitiva" contenuta e sprigionata in quelle immagini. Da quelle forme-racconto, tra Espresso anni d'oro e pulp magazine. Da Z l'orgia del potere. O da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto...Film che nel '68 trovammo "autoritari", perché usavano come gli altri l'ipnosi, esibivano codici e simbologie usurate: celavano, con lo spettacolo, modi di produzione da grande fabbrica. E' per questo (e anche perché poi gli anni più torbidi cui siamo sopravvissuti non permisero che l'urlato o il grottesco) che Rosi e gli altri hanno poi cambiato strada. Hanno cercato vie indirette, forme apparentemente più deboli e umili, di comunicazione. Ritorni al melò. Esperimenti perché il pensiero critico facesse scintille e l'emozione pura (non quella indotta) si scatenasse, e non esattamente "verso il minuto 52 del secondo tempo". Fino a fare i "parassiti astuti" dei generi dominanti, come Rosi in Dimenticare Palermo col thriller made in Usa. Noi, ebrei tedeschi. Ed ecco che, davanti a un testo chiave della letteratura nazionale, diventato intanto classico mondiale, perché racchiude tutti i significati, le utopie, i sogni e le zone buie del nostro essere contemporanei - anche se l'autore non ha resistito a questa, postumana per lui, contemporaneità - cioè affrontando La tregua, Francesco Rosi si è dovuto superare. Diventare altro. Uscire fuori di sé. Usare altre tecniche e modi di produzione creativi. In fondo è questo coraggio, entrare in una nuova vita, saper rinascere - che Rosi condivide col testo - che commuove del film. Qui avviene il contatto magico tra Rosi e il quasi coetaneo "Primo". "Primo", John Turturro, perde l'anima nel campo di concentramento. Non è più un "uomo". In quella caduta infernale, del tutto, schifosamente, terrestre (altro che demoniaca), ha provato, per la prima volta da uomo bianco in mano a un uomo bianco più di lui, quel che lo schiavo nero, il contadino cinese torturato dai giapponesi, lo zingaro sempre, subiscono per sopravvivere. Fino a uccidere, per sopravvivere, l'altro schiavo, contadino, zingaro. "Metterci l'uno contro l'altro dopo averci degradato peggio che un cane bastardo, questo fu il crimine più grande, laggiù" urlerà Turturro a Stefano Dionisi, compagno di lager che nega il cibo a una donna che si concedeva alle SS per salvare la vita. Oppure. "Maledetto il giorno in cui lasciai Aushwitz!", dirà nel documentario Memoria (sarà a Berlino), una signora che sfiorò Birkenau, ma ai cui racconti di: "bimbi con le bambole di pezza che vanno, in fila di cinque, verso il forno crematorio" il figlioletto replica: "Mamma, basta con questi racconti!". Basta con Vandelli e l'Equipe 84! Ecco, a quel bambino, ora Rosi vuole parlare. L'assenza di ascolto, il fastidio della testimonianza ghiacciò Levi. E allora. Chiama un attore italoamericano che sembra ebreo, e mai sarà un corpo insostenibilmente disincarnato come John Turturro. Ci si fida di lui. E poi un gruppo di attori come Ghini, Citran, Bisio e Luotto, quattro mostri capaci di sopravvivere agli '80 e costruire, pezzo su pezzo, una recitazione fragile, grezza, abbastanza vera. Tonino Guerra, Rulli e Petraglia prendono il romanzo in mano e cambiano tutto. Tranne l'intreccio. Resta la "favola". La sostanza, non la forma del contenuto. Si aprono le porte del lager. Fine della Guerra. I fatti tragici e grotteschi del rientro. La comicità. Le donne. Il greco. La fame. Lo show. I treni. Gli amori. Il mercato. I furti. I vecchi ucraini con la barba... Tutto uguale e tutto differente dal romanzo. A volte è più facile, come nella scena dell'ufficiale sovietico che balla il tip tap, con la spada nel ruolo di Ginger Rogers. A volte un po' didattico, come quando si insiste sull'intreccio "musica, Chagal e umorismo", sul concetto del "godersi la vita mischiandosi, e non nell'incesto puro, ariano", come segreto del superuomo, il sopravvissuto a Auschwitz e Pretoria, rispetto ai sottouomini, da Priebke a Le Pen. A volte più inquietante, perché queste braccia tatuate, questi uomini che, da dissolti, ricompongono le loro molecole una a una, ritrovano la fisionomia, fino a una durezza d'espressione invincibile, resteranno dentro di noi. Quegli occhi da cartoon di Turturro: occorrerà più altra evidenza scientifica, fuori di quello sguardo, per dire che non c'è una cosa come l'altro aspetto di un campo di concentramento? E che nessuna libertà dovrebbe essere mai garantita ai nemici della libertà? Rosi, certo, non è l'io autobiografico, come nei film politici africani ("Mio padre era segretario di Lumumba..."). Ma è un po', come tutti noi, un ebreo tedesco: "Io, che sono un sopravvissuto di Auschwitz vi racconto...". |
Autore critica: | Roberto Silvestri |
Fonte critica: | il Manifesto |
Data critica:
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Critica 3: | |
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Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | Tregua (La) |
Autore libro: | Levi Primo |
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