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Tigre e la neve (La) -

Regia:Roberto Benigni
Vietato:No
Video:
DVD:Cecchi Gori
Genere:Drammatico
Tipologia:La guerra
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Roberto Benigni, Vincenzo Cerami
Sceneggiatura:Roberto Benigni, Vincenzo Cerami
Fotografia:Fabio Cianchetti
Musiche:Nicola Piovani
Montaggio:
Scenografia:Maurizio Sabatini
Costumi:Louise Stjernsward
Effetti:
Interpreti:Roberto Benigni (Attilio De Giovanni), Jean Reno (Fuad), Nicoletta Braschi (Vittoria), Emilia Fox (Nancy)
Produzione:Melampo Film
Distribuzione:01 Distribution
Origine:Italia
Anno:2005
Durata:

118'

Trama:

Attilio De Giovanni è un poeta innamorato della poesia e della bella Vittoria, che però non corrisponde al suo amore. Per conquistarla, l'esuberante Attilio non esiterà a cacciarsi nelle situazioni più assurde e più comiche che porteranno la sfortunata coppia in Iraq, proprio all'inizio del conflitto con gli americani. Attilio, senza conoscere una sola parola di arabo, inizia la sua guerra personale armato solo di poesia..

Critica 1:Provate a immaginare questa scena. «La signora Nesma Abdul Razzaq, che ha accanto i due bambini di 9 e 1 2 anni, in uno spazioso pianterreno del quartiere di Khadra (classe media, laurea in economia, come il marito) racconta: «Stamattina qui sono passati gli insorti. Hanno attraversato la stanza, si sono appostati a quella finestra e hanno fatto fuoco su un convoglio americano. Nel pomeriggio i soldati americani hanno occupato il mio soggiorno, voltato i mobili per proteggersi dai colpi e hanno fatto fuoco contro gli insorti che erano fuori. Poi sono andati via tutti. Ma stanotte o domani mattina ritornano, insorti e soldati, nella mia casa e in tante altre case. Mi dica lei come facciamo a vivere...».
Sto traducendo da pag. 5 del New York Times del 3 ottobre (articolo da Baghdad di Sabrina Tavernise). E ho appena visto il nuovo film di Roberto Benigni, La Tigre e la neve. La scena che ho tratto dal New York Times non c’è nel film, ma appartiene al film, al modo in cui la realtà, o meglio il senso incomprensibile degli eventi, si trova, neanche tanto nascosto, nella follia dei poeti.
Sanno tutti, ormai, che il film riguarda un poeta, un amore folle e la follia della guerra. La mossa di Benigni è tra le più arrischiate. Fa di una piccola privata vicenda d’amore il centro della storia. Anzi, della Storia. Nel senso che il Destino dipende dall’amore e dalla salvezza di una sola persona. E fa della guerra una tremenda, sgangherata sequenza di eventi di fondo, una metafora o, meglio ancora, la rappresentazione della vita. Tu la attraverserai (a piedi, o sul cammello, o rubando un posto in aereo, o fingendoti un altro, o camminando come un Charlie Chaplin, allo stesso tempo ansioso e svagato, nel deserto) a qualunque costo, se hai una ragione. La sola ragione che ti induce a non impiccarti di fronte a quel paesaggio d’orrore, è un filo d’amore che ti tiene ben legato a qualcuno, dunque alla vita.
Vorrei che i lettori che non hanno ancora visto il film di Benigni, restassero, mentre leggono, vicini alla quieta e tollerante follia della signora Nesma Abdu1 Razzaq di Baghdad, che vede il suo soggiorno attraversato da ribelli e soldati, mentre cerca di far fare il compito ai bambini. L’ho già detto, lei non c’è nel film. Ma è come un sigillo di realtà, che viene dato alla storia incredibile del poeta e della tigre da un occasionale articolo di giornale, che leggo per caso la mattina dopo una visione del film. Nella Tigre e la neve non c’è la guerra nel senso dell’orrore, dei cadaveri, delle mutilazioni, del sangue con cui la guerra viene patita da chi non c’entra, dunque da quasi tutti. C’è un paesaggio poeticamente artefatto nel quale entrano ed escono soldati allucinati, cittadini spaesati, folle di profughi che scappano e tornano, e in alto – quando non ci sono esplosioni – un cielo da Mille e una notte, con le stelle e la luna.
C’è la donna amata che è in uno stato magico di sospensione: viva o morta? É una fiaba. Ma non la risveglia il bacio. La fiaba si svolge nel sottoscala di un ospedale di Baghdad, semidistrutto, colmo di degenti che forse sono vivi e forse so no morti, un solo medico che parla dolcemente arabo e nessuna medicina per aiutare e soccorrere. Non resta che giacere e aspettare. «Solo Allah vi può salvare» prescrive inaspettatamente il medico a mani vuote, in una delle poche frasi comprensibili che riesce a dire. E allora il poeta Benigni si inginocchia, guarda il cielo, che è un soffitto diroccato, si accorda con Dio («Vado, Allah?») e recita il «Padre nostro» dicendo a noi e a se stesso: «Tanto Allah mi capisce».
Benigni, il poeta, ha un suo doppio che è Fuad, il poeta. Uno è italiano, l’altro iracheno, ma la differenza conta pochissimo. Intorno a loro Benigni, il regista, costruisce un universo che solo in parte, solo in apparenza, è fatto di scene italiane di vita quotidiana e scene irachene di vita sventrata, che però testardamente va avanti e che torna a riprodursi dovunque mentre sparatorie ed esplosioni continuano.
La vera costruzione, che è anche lo straordinario e unico materiale con cui è fabbricato il delicatissimo edificio di Benigni, è la poesia. Misteriosamente ciascun personaggio apre la bocca e cita qualcosa di grande o importante o bello o memorabile o consolante o drammatico o notissimo o sconosciuto, che è stato detto nel mondo che chiamiamo cultura.
«Babele», dice il poeta iracheno al poeta italiano, «è stata costruita non lontano da qui. Da allora tutti sanno e nessuno capisce». Ma la biblioteca di Babele si è sparpagliata in tutto il dialogo e in tutte le scene del film di Benigni. In esso quasi ogni battuta è una citazione. E il potere magico della citazione è dì rilanciare ogni frammento di narrazione che, come in «Mille e un a notte », potrebbe generarne un’altra e un’altra e un’altra ancora.
Nel film le parole, come le immagini, rappresentano un brulicare di vita senza fine, una tenace e accanita opposizione alla morte che nega la guerra più di un progetto politico (anche se un gigantesco bandierone della pace precipita in scena quasi a metà del film).
Questo film di Benigni è come la cupola del Pantheon, che non ci dovrebbe essere ma c’è, che non si poteva costruire, con la tecnologia del tempo, ma ha resistito ai secoli, fatta con materiali che non si possono usare (diversa consistenza, diverso peso, diversa durata) e tutto è ancora in piedi. Giustamente nessuno ha tentato finora di fare un film sulla guerra in Iraq. Sentite le parole che una madre americana ha scritto sulla tomba di uno dei soldati caduti: «Questi fiori possono fiorire per sempre. Ma non cambieranno il fatto che sei morto per niente».
Sentite cosa scrive Bob Herbert, sul New York Times del 4 ottobre: «Nessuno di noi oserà dirvi che bravi e coraggiosi soldati sono morti per incarnare le fantasie insensate di politici inetti».
Non ci sarà Apocalypse Now o Full Metal Racket del vivere e del morire per le strade e le autostrade irachene.
Ci resterà però l’immagine di Benigni poeta che va nel deserto da solo, e un cammello si affianca e gli fa compagnia (gli animali e la loro dignità hanno un ruolo e un senso in questo film). Ci resterà 1’immagine del poeta ostinato che tenta di forzare un posto di blocco, imbottito di medicinali che vuole portare dove manca tutto. La scena è tre volte comica perché, nel codice del film, sappiamo che il poeta non esploderà e i soldati, benché minacciosi, non spareranno. Perché i soldati sono stupiti o sconvolti dalla vita che fanno e uno trema fino al rischio di non controllarsi. E perché il protagonista grida: «Sono un poeta!», sconvolgendo il senso di tutta la sequenza nel film, come nella vita.
Improvvisamente appare l’immagine del poeta Fuad impiccato a una trave della sua casa piena di fontanelle e di fiori, come se la poesia potesse preservare uno spazio privato dalla distruzione. Ma il corpo senza vita oscilla appeso alla fune e dice, nel mezzo di un film di speranza: «nessuno è escluso». La magia è dentro di noi. Il suo miracolo è indurti a salvare altri. Ma non c’è alcun privilegio o garanzia di salvare te stesso.
I soldati vengono avanti di qua e di là con le armi spianate e i carri armati giganti e non sono né cattivi né buoni, sono esseri umani sradicati dalla vita come la folla che scappa e che torna, che si nasconde e lavora, che ha tutti i negozi aperti e possiede solo merci abbondanti e inutili. Le scene sono costruite in modo da rivelare la loro natura di «set», di ambiente costruito per essere poi demolito. E lo scherzo tremendo che la guerra gioca alle case e alle strade vere di un città attaccata: le riduce a un «set». Le puoi distruggere a volontà. La guerra è una stramba e capricciosa «produzione» dello spettacolo «morte».
In questo film-fiaba ogni cosa è esemplare e rappresenta qualche altra cosa. Il campo minato, per esempio. Quando il poeta, che in modo comprensibile, naturale, è anche un clown bianco (nella tradizione benevola di Fellini e del Circo) comincia a saltare da un punto che potrebbe esplodere a un altro, sotto lo sguardo impassibile di un uomo fermo su un mulo (è come una visione del silenzio di Dio, non dirà mai in quale direzione andare) tu ridi eppure stai col cuore in gola. Non per il clown, il cui destino è di saltare e – forse – di farla franca. Ma per te. Dove ti porterà il prossimo salto? E se fosse quello dell’esplosione? Il clown bianco compare all’ inizio, in una splendida sequenza di cinema, in un dolcissimo incubo con le luci di Magritte, la musica di un jazz estenuato e il fantastico restare in equilibrio sul niente che solo il clown bianco può avere, nella sua incarnazione timida e mite e cocciuta. E come una copertina. Guardatela bene. Contiene tutte le immagini e tutte le citazioni che a mano a mano troverete nello svolgimento del film.
Autore critica:Furio Colombo
Fonte criticaL'Unità
Data critica:

5/10/2005

Critica 2:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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