Placido Rizzotto -
Regia: | Pasquale Scimeca |
Vietato: | No |
Video: | Luce Video Club |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Il lavoro |
Eta' consigliata: | Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori |
Soggetto: | Pasquale Scimeca |
Sceneggiatura: | Pasquale Scimeca |
Fotografia: | Pasquale Mari |
Musiche: | Alessio Vlad, Stefano Arnaldi |
Montaggio: | Babak Karim |
Scenografia: | Luisa Taravella |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Marcello Mazzarella, Vincenzo Albanese, Carmelo Di Mazzarelli, Gioia Spaziani |
Produzione: | Abash Film (Alminusa, Pa) |
Distribuzione: | Istituto Luce |
Origine: | Italia |
Anno: | 2000 |
Durata:
| 110'
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Trama:
| La sera del 10 marzo 1948 scomparve nel nulla Placido Rizzotto, Segretario della Camera del Lavoro di Corleone. Per uno strano scherzo del destino, attorno a questo caso ci fu una convergenza di giovani uomini che diventarono importanti: da una parte Carlo Alberto Dalla Chiesa, il capitano dei carabinieri che fece le indagini e arrestò gli assassini di Rizzotto, e Pio La Torre, giovane studente universitario che sostituì Rizzotto alla guida dei contadini. E dall'altra, l'assassino Luciano Liggio e i suoi uomini che arriveranno ai vertici della mafia. Il film vuole raccontare un sogno spezzato, nella certezza che ogni manifestazione di coraggio, ogni difesa dei deboli, ogni sentimento di dignità umana meriti di essere narrato.
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Critica 1: | (...) È una commistione indovinata di generi nostri che affondano le radici nelle favole vere dei cantastorie, nelle dolorose sceneggiate, nella denuncia del documentato, girato in interni ben visibili, come si usava una volta in tv (...) Scimeca ci offre una cronaca ma anche un ripensamento, perfino una metafora del povero che lotta, una ballata, un'opera tragica dei pupi fatta di realismo magico, ma anche di antropologia di quella terra, nell'arco espressivo che da Rosi arriva ai "bravi ragazzi" di Scorsese. |
Autore critica: | Maurizio Porro |
Fonte critica | Il Corriere della Sera |
Data critica:
| 28/10/2000
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Critica 2: | Questo di Pasquale Scimeca non è soltanto il primo film sulla mafia fatto da un siciliano. È anche qualcosa di più di una biografia o, peggio, di un'agiografia su uno strenuo e irriducibile oppositore del sistema mafioso in Sicilia: di film simili ce ne sono stati, ce ne sono e continueranno ad essercene sempre, senza che in fondo servano ad altro che a racimolare consensi formali e plateali. Innanzitutto, Placido Rizzotto di Scimeca è un'opera austera, assai poco spettacolare e alquanto più ambiziosa o persino emblematica, poiché si interroga sulle ragioni profonde del Male come piaga immanente a questo mondo e a questo sistema di rapporti umani. Perfettamente organica all'impostazione allegorica risulta a tale riguardo la sequenza in cui Rizzotto cerca disperatamente, senza riuscirci e scontrandosi con un compulsivo istinto omicida, di impedire l'impiccagione di un gruppo di partigiani da parte di una squadra di soldati tedeschi, i quali non sanno che la guerra è finita. Di conseguenza, la mafia e i suoi periodici martiri, gli emissari, i capi, la cittadinanza connivente e omertosa non sono che pedine sintomatiche, sostituibili e appena modulari di una cupa, irrazionale e sconsolata rappresentazione di morte onnipotente.
La dimensione storica - dal film appositamente rivendicata - della struttura mafiosa corleonese nell'immediato secondo dopoguerra, contemporanea a quella del bandito Giuliano, fornisce a Scimeca l'occasione per un'analisi retrospettiva arricchita proprio dalla sedimentazione temporale. Il passato, la Storia ufficiale, i fatti documentati o immaginati gli consentono perciò di trascendere il dato impressionistico e di proiettarlo su un piano antropologico globale. Al punto che la scelta suggestiva di servirsi della tragedia del sindacalista ucciso per riandare ad un'epoca remota e arcaica dell'organizzazione mafiosa (dove il delitto è intriso di violenze e abusi familiari, passioni e rancori animaleschi e spirito di pura autoconservazione individuale) equivale a cogliere l'essenza primordiale, contadina, quasi preistorica del fenomeno mafioso come modello subumano, assoluto e teatrale di una radicata logica distruttiva e belluina.
Rizzotto in quest'ottica è una figura da teatro dei pupi. La sua parte impone che sia uno dei tanti morti ammazzati. Rizzotto non è stato il primo né sarà l'ultimo di una lista monotona che, all'inizio del film viene salmodiata proprio dal protagonista per scuotere i contadini e indurli ad occupare il latifondo senza abbandonarsi al cieco timore per l'eventuale e realistica rappresaglia della mafia. La stessa lista che, per ironia della sorte, si riascolta in chiusura in una versione appena aggiornata, comprendente il nome dello stesso Rizzotto. A ripetere questo elenco rituale delle vittime dell'ingerenza omicida della mafia sarà un altro giovane di belle speranze che scopriremo essere Pio La Torre, vittima postuma dello stesso implacabile avversario che non esiterà a falciare anche Carlo Alberto Dalla Chiesa, il quale già stringe la mano a La Torre nella penultima sequenza di Placido Rizzotto. E il futuro generale Dalla Chiesa, come il futuro onorevole La Torre e gli altri soggetti dell'interminabile elenco, sono sin da ora incarnazioni predestinate di questa spirale di morte annunciata. Sono eroi, evidentemente, spinti da coraggio, dovere e senso civile, ma irrimediabilmente condannati prima ancora di muovere i loro fieri passi nel mondo reale così come sullo schermo. Quella di mostrare la stretta di mano tra gli allora sconosciuti La Torre e Dalla Chiesa non è un banale stratagemma per commuovere lo spettatore, scatenare un sentimento di ammirazione fiduciosa o pungolarne la coscienza indignata. Suona piuttosto, se si presta dal principio attenzione al film e alla sua costruzione in abisso, come una dichiarazione d'intenti pregressi, se non addirittura un esplicito richiamo alla funesta e funebre fatalità agita da un meccanismo ripetitivo, imperscrutabile e assurdo.
Placido Rizzotto è dunque un film di morti che parlano di morti e che a loro volta verranno rimpiazzati da ulteriori morituri. Un film che non può fare a meno di traslitterare la realtà o la cronaca assurta al rango della storia contemporanea, assimilandola ad una macabra rappresentazione orale, mitica e atemporale, quale quella affidata al vegliardo genitore del defunto protagonista o allo spettacolo scenico sulla Passione di Cristo, cui assistono e applaudono tutti, compreso l'ignaro Rizzotto.(…)
La serietà e la complessità di Placido Rizzotto la si coglie in una struttura narrativa che, sulla falsariga per niente improvvisata di Rashomon e soprattutto di Salvatore Giuliano, trasforma la reticenza dei testimoni contraddittori in un metodo dilazionato e antispettacolare di restituire la probabilità dei fatti.
Il confronto con il capolavoro di Francesco Rosi, peraltro, è obbligato da più d'una coincidenza che nulla toglie alla qualità del film di Scimeca. I rimandi non riguardano solo la scelta di mantenere nel titolo il nome e cognome del protagonista (Placido Rizzotto come Salvatore Giuliano), ma la chiara volontà di sottolineare la quasi contemporaneità della vicenda di Rizzotto e dei lutti legati alla banda di Giuliano (e in Placido Rizzotto si cita l'eccidio di Portella della Ginestra non solo per ovvie ragioni di contiguità storica, ma anche per esigenze per così dire metalinguistiche di esplicitazione di una tragica corrispondenza). |
Autore critica: | Anton Giulio Mancino |
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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