Caccia alle farfalle - Chasse aux pavillons (La)
Regia: | Otar Iosseliani |
Vietato: | No |
Video: | Deltavideo |
DVD: | |
Genere: | Commedia |
Tipologia: | Spazio critico |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Otar Iosseliani |
Sceneggiatura: | Otar Iosseliani |
Fotografia: | William Lubtchansky |
Musiche: | Nicolas Zurabisvili |
Montaggio: | |
Scenografia: | Emmanuel de Chauvigny |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Pierrette Pompon Bailhache (Valérie), Narda Blanchet (Solange), Alexandre Tcherkassoff (Henri de Lampadère), Thamar Tarasacvili (Marie-Agnés), Alexandra Liebermann (Hélène), Lilia Ollivier (Olga), Emmanuel de Chauvigny (il prete André), Sacha Piatigorsky (l'emiro), Anne-Marie Eisenschitz (Marie), Françoise Tsuladze (Yvonne), Maimouna N'Diaye (Caprice), Yannick Carpentier (il signor Carpentier) |
Produzione: | Martine Marignac, Pierre Grise Production - Sodaperaga - France 3 Cinéma - Metropolis Filmproduktio - Best International Films |
Distribuzione: | Istituto Luce |
Origine: | Francia-Germania-Italia |
Anno: | 1992 |
Durata:
| 115'
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Trama:
| In una piccolissima città della provincia francese, vivono serenamente e modestamente, due anziane signore nobili, cugine fra loro, che abitano in uno splendido castello del XVII secolo, pieno di mobili e quadri di valore, che appartiene ad Agnés, la più vecchia delle due. Agnés sta sempre in casa, su di una sedia a rotelle, ed è amorosamente curata dalla cugina Solange, mentre i due domestici, Valérie e Bernard, anch'essi piuttosto anziani, si occupano delle faccende domestiche. Solange è attivissima: va in bicicletta a fare la spesa, pesca con le frecce i pesci nel fiume, discute col notaio del luogo per lo sconfinamento del mezzadro, domina un pò tutto il paese, e rimprovera il parroco, che è dedito all'alcool. Nel parco è ora ospitato un gruppo di Krishna, che suonano e cantano, così la loro musica si alterna a quella dell'organo, che alcune signore accompagnano cantando, e a quella del complessino locale, fatto quasi tutto di trombe. Quando giungono, condotti dal notaio, tre giapponesi, decisi a comprare il castello per qualunque cifra, Agnés li scaccia, e Solange è indignata, perchè il capo della delegazione le propone di fare lei l'affare, quando la cugina morrà. Intanto Caprice, moglie del figlio del notaio, fa da guida ai turisti che visitano il palazzo. Agnés un giorno muore nel sonno e tutti sono sconvolti. Solange manda un telegramma in Russia alla sorella della defunta, Héléne, che vive molto modestamente con la figlia, insegnante di danza, in coabitazione con tanti individui che litigano sempre. Le due russe partono subito per la Francia, e al castello si riuniscono molti parenti avidi di eredità. Il funerale di Agnés si svolge sotto un diluvio, mentre i Krishna cantano, poi c'è un pranzo di famiglia, funestato da alcune liti, e una parte dell'argenteria viene rubata. Poichè il testamento ha dichiarato la sola Héléne erede di tutto il patrimonio, gli altri parenti (meno Solange) rimangono delusi. La saggia cugina parte il giorno dopo, diretta ad un castello in Germania, sullo stesso treno di un maragià, ma i vagoni saltano in aria per un attentato terroristico, e i passeggeri muoiono. Héléne e sua figlia vendono il castello ai giapponesi, che ne deturpano la bellezza, mettendo grandi ideogrammi sulla facciata e sul cancello.
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Critica 1: | Due anziane signorine vivono in un fatiscente castello nel Sud della Francia, frequentato di notte da discreti fantasmi. Una delle due, la proprietaria, muore. Il castello è ereditato dalla sorella russa che lo svuota e lo vende a una megasocietà giapponese. Sesto film lungo del georgiano Ioseliani (1934), all'epoca esule semivolontario a Parigi: toccato dalla grazia, quasi perfetto, caso anomalo di commedia malinconica sulla fine di un'epoca e di una cultura, ma divertente, squisita. Umorismo leggero, affilato come l'indolore lama di un rasoio. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Lato umano e disumanizzato: sogno e denaro. Caccia alle farfalle, contrappuntando i desideri umani, dalla tenerezza alla meschinità, è una commedia deliziosa, di squisita leggerezza. Una precisa e composita rappresentazione di tipi umani che non scadono a macchietta, dove bisogna lasciarsi guidare dagli stacchi rapidi di Iosseliani. Dalla resa di una eterogeneità che produce mutamenti laddove tutto sembra immutabile. La quiete della provincia francese a poco a poco si trasforma, indipendentemente dai desideri e dalla volontà dei suoi abitanti. Le fotografie, gli oggetti, i ritmi sempre identici di una vita che scorre lenta con il proprio vissuto, apparentemente lontana dal mondo, e così vicina ai ricordi da confondervisi, contribuiscono a far diventare la propria stessa vita un ricordo. L'esempio più calzante è dato dalla sequenza in cui la vecchia signora aspira dalla sigaretta depositata sul portacenere dal fantasma di colui che aveva amato in gioventù. Raffinata e precisa rappresentazione di un sogno che passa con dolcezza allo stato di veglia, questo atto è il segno di una comunione, di un ritrovarsi sotto il segno di una morte così dolce da avvenire grazie all'accresciuta intensità del ricordo, divenuto involontariamente silenziosa evocazione. A tutto questo si contrappone lo spreco di una esistenza senza memoria, impersonata dalla giovane figlia di Hélène, Olga, e dal gruppo giapponese che acquisterà, alla fine, la villa. Olga, all'opposto di Marie Agnès, è tutta impegnata nel bruciare i "suoi" desideri. I desideri informi e senza futuro di una ricchezza improvvisa che non sa gestire. Ripensando a Caccia alle farfalle, viene in mente la leggerezza, lo stile arguto ed eccentrico di uno scrittore come Daniil Charms. L'affinità riguarda il perseguire il senso delle cose attraverso l'assurdo concatenarsi degli eventi. Eventi privi di una logica narrativa, slegati causalmente fra loro, ma che alla fine, colmi di quegli scarti che nutrono la nostra esistenza quotidiana, risolvono la complessità dei legami senza l'utilizzazione di ciò che, cuore di una qualsiasi forma di elaborazione narrativa, chiamiamo solitamente "intreccio". Nessuna ferrea regola generatrice di meccanismi causali, dunque, ma un flusso organizzato di salti capace di offrire un concentrato di emozioni e sentimenti espresso con un breve accenno. Basta poco a Iosseliani per entrare nel cuore delle vite dei suoi personaggi mantenendo, allo stesso tempo, quella distanza che non ci consente una troppo manifesta immedesimazione. Ci distanzia l'assenza, o il trattenimento, di un pathos che include i germi di una forte emotività drammatica o comica. Il senso che Iosseliani va esplorando non risiede nelle motivazioni, nelle giustificazioni dei comportamenti e delle azioni dei personaggi, ma di ciò che vivono loro malgrado, e l'adattarsi ad una vita la cui quotidianità oscilla fra le consuetudini e le abitudini placide e ripetitive, e per questo confortanti, e la precarietà di cui comunque si nutrono. Qualsiasi plauso per Iosseliani non può che costituirsi come uno scarto rispetto a quello particolarmente diffuso tendente a porre l'attenzione su una bravura tecnica capace da sola di provocare un riconoscimento tale per cui il regista viene fatto entrare di diritto nella categoria degli "artigiani". Siccome questo, per Iosseliani, non è sufficiente, la parola chiave per aprire le porte dell'interpretazione del suo stile è diventata "tocco", raccogliendo l' "eredità" di una qualità indefinibile già appartenuta a Lubitsch. Senonché Iosseliani, nei suoi film, ha detto chiaramente cosa pensa in generale delle eredità. Il pregio di Iosseliani è dunque una singolare capacità di modellare sottili atmosfere, una raffinatezza non comune nel coordinare le tracce scomposte di un insieme irriducibile a unità. Un mondo in cui la tranquillità cela più tensioni di quanto si possa scorgere sia in superficie sia nello sviluppo stesso della storia. Tocco che corrisponde alla magia di rendere seria e faceta a un tempo la banalità, avvincente la monotonia, e ben assorbibili ogni genere di traumi. Iosseliani conosce dunque il segreto della composizione e dell'equilibrio di un film. In questo, nella manifestazione di uno stile, consiste il risultato della pratica e di un pensiero che non necessariamente dobbiamo immaginare come finalizzato già dal suo scaturire ad una elaborazione filmica, ma che alle imposizioni della creazione cinematografica si adatta conservando rispetto nei confronti di tutto ciò che questo pensiero comprende. Attorno alla villa sembra ruotare tutta la vita del paese, quasi fosse il nucleo della comunità, una comunità che sa accettare anche ciò che le è estraneo. Di fatto, in questo paese senza nome, sono di più gli stranieri che non gli appartenenti ad una popolazione autoctona. La villa è il centro di un ideale cosmopolitismo rurale che viene troncato simbolicamente alla fine del film. Nel finale Iosseliani increspa amaramente il sorriso che lo spettatore aveva tenuto per gran parte della visione. Costringe ad una ricollocazione di tutto il materiale del film, alla revisione dell'interpretazione che si era andata formando durante la visione. Senz'altro una preoccupazione di Iosseliani è quella di fare interagire un luogo con le persone che lo abitano. Tendenza già presente nei suoi film precedenti e che ritroviamo anche qui. Questo luogo è sempre vissuto e abitato collettivamente. Anche nel caso appartenga nominalmente ad una persona precisa (come in questo caso la villa), di fatto viene fruito da un gruppo più o meno omogeneo di persone. Contemporaneamente sembra non esistere una vera e propria coscienza di questo fenomeno importante. Ciò determina la perdita di questo valore e anche la dispersione di tutti coloro che attorno a questo centro unificatore conducevano la propria vita. Una diaspora irreparabile, in seguito alla quale nuove persone e nuove generazioni fanno la loro comparsa. |
Autore critica: | Fabio Matteuzzi |
Fonte critica: | Cineforum n. 321 |
Data critica:
| 1-2/1993
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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