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Delwende -

Regia:S. Pierre Yameogo
Vietato:No
Video:
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti umani - Esclusione sociale, La condizione femminile
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:
Sceneggiatura:
Fotografia:
Musiche:
Montaggio:
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Blandine Yameogo (Napoko), Claire Ilboudo (Pougbila), Celestin Zongo (Diahrra), Abdoulaye Komboudi (Nonceur), Daniel Kabore (anziano)
Produzione:Dunia Productions – Theilma Films Ag – Films de L'Espoir
Distribuzione:
Origine:Burkina Faso – Francia – Svizzera
Anno:2005
Durata:

89’

Trama:

In un villaggio del Sahel, in Burkina Faso, un'epidemia di meningite sta decimando la popolazione, ma gli indigeni non riconoscono la causa scientifica delle morti. Credono, piuttosto, che si nasconda fra loro “mangiatrice d’uomini”, dotata di poteri occulti con i quali stermina gli abitanti. Diahrra, marito di Napoko, altera tuttavia il rituale magico usato per identificare la presunta colpevole, spingendo il villaggio ad accusare la stessa Napoko e ad allontanarla per sempre. Scopo segreto di Diahrra è evitare che la comunità scopra i crimini di cui egli si è macchiato: l’uomo ha violentato la figlia Pougbila, per poi venderla in moglie a un giovane abitante di un villaggio vicino. Napoko è esiliata, costretta a vagare nella Savana in cerca di un rifugio. Nessuno è disposto a ospitare una donna etichettata come “mangiatrice d’uomini”. Pougulia, che finora si è rifiutata di confessare lo stupro subito, decide tuttavia di reagire all’ingiustizia e parte alla ricerca di Napoko. La troverà nella capitale Ouagadougou, in un centro d’accoglienza per donne accusate di stregoneria, e la convincerà a tornare al villaggio per rivelare a tutti la verità.

Critica 1:Delwende infrange parzialmente il mito del buon selvaggio di Rousseau, mostrando come la crudeltà dell’uomo si manifesti anche dove non esistano le sovrastrutture tipiche della società occidentale. Si rivelano ingiustizie orribili che nascono, tuttavia, dall’ignoranza, e quindi dalla superstizione, dalla paura della morte, dal ricorso a spietati riti ancestrali. La responsabilità occidentale, benché non citata direttamente, sembra ancora una volta stagliarsi sullo sfondo. Il film è una panoramica (a tratti quasi documentaristica) sulle miserie di uno dei paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso, ma è anche e soprattutto un viaggio nel dramma della condizione femminile in Africa: un dramma ancora più assurdo se si pensa al ruolo fondamentale che la donna, in quelle stesse zone, riveste come conduttrice della casa e della famiglia, ma anche come forza lavorativa e motore dell’economia. A tutto ciò non corrisponde alcun riconoscimento di diritti civili e politici. La sottomissione delle donne, abitualmente ridotte a schiave o a merce di scambio, si rivela nella massima tragicità quando è addossata loro la responsabilità di morti cui la popolazione non sa attribuire la vera (scientifica) causa. Un rituale magico identifica la presunta colpevole, accusata di essere una “mangiatrice d’anime” e costretta alla fuga, nella consapevolezza che nessun villaggio sarà mai disposto ad accoglierla. La rifiutata potrà cercare rifugio solo in città, dove al dramma della persecuzione si sostituisce quello dell’indifferenza: la sequenza dedicata al centro d’accoglienza di Ouagadougou è agghiacciante nella sua imponente carica realistica. A questo vortice di soprusi, superstizioni e ingiustizie, Delwende oppone la forza della dignità e del legame fra madre e figlia, pronte a sfidare l’ignoranza, e l’egemonia maschile, in nome della verità.
Autore critica:
Fonte criticaPrimissima scuola
Data critica:



Critica 2:Delwende, alzati e cammina è il titolo di un film africano, realizzato in Burkina Faso nel 2005.
Il Burkina Faso, ex colonia francese dell’Alto Volta, si trova fra il Mali ed il Ghana, nell’Africa nord-occidentale ed è una delle nazioni più povere del mondo anche a causa delle condizioni climatiche. Nel nord del paese la caratteristica è il “sahel”, ossia una savana tropicale molto arida e rada, con estreme scarsità di pioggia ed un vento caldo e secco proveniente dal Sahara.
In queste condizioni, comunque, la maggior parte della popolazione – quella che non emigra a cercare lavoro nei paesi vicini – sopravvive di allevamento ed agricoltura un una condizione di arretratezza particolarmente forte.
E se queste notizie vi fanno venire in mente il mito del “buon selvaggio”, allora sì che siete veramente fuori strada. Nel Burkina Faso c’è un tessuto di piccoli villaggi rurali, persi nella savana, in cui la sopravvivenza non è sempre garantita, e la mortalità è alta. L’AIDS è una delle piaghe diffuse, e la mortalità infantile un’altra felice compagna della vita tribale.
Se non bastasse, si aggiungano le difficoltà ambientali (mancanza d’acqua: tutti hanno una specie di mezza zucca secca che portano sempre con sé, per approfittare di qualsiasi pozza d’acqua) e, non ultime, le difficoltà culturali.
Proprio di queste ultime tratta soprattutto il film di Helmer S. Pierre Yaméogo Delwende. Innanzitutto, nel villaggio del sahel dove è anbientata la storia, c’è un’epidemia di meningite che sta falcidiando giovani e anziani.
Che è meningite lo sa lo spettatore, perchè lo sente dire in francese da una radio accesa, ma i burkinabe del film parlano solo la lingua locale mossi, e comunque non capirebbero il termine scientifico.
Capiscono, perchè la loro tradizione glielo insegna, che se i bambini muoiono di collo torto è colpa del maleficio di una strega “mangiatrice di uomini”.
Chiamano allora uno stregone (notare bene: la magia positiva la fa il mago uomo, quella negativa la maga femmina) che effettua uno “screening” della popolazione tramite lo “zhiogo.
Lo strumento è una specie di grosso palo-totem (e dai...) manovrato de due ragazzi vergini che punta tutti gli abitanti del villaggio fino a colpire l’autore del maleficio, del malocchio che causa le morti.
La macchinazione del protagonista maschile Diahrra (Célestin Zongo) è quella di sostituirsi ad uno dei portatori e, così facendo, di indirizzare lo zhiogo fino ad incolpare la propria moglie Napoko (Blandine Yaméogo) e farla così scacciare dal villaggio in quanto “strega”, autrice del malocchio.
Diahrra ha stuprato la figlia sedicenne Pougbila (Claire Ilboudo) e l’ha poi venduta in moglie ad un ragazzo di un villaggio vicino. Lo scopo della sua macchinazione è dunque quello di allontanare da sé ogni rischio di essere scoperto nelle sue malefatte.
La madre, scacciata dalla sua gente vaga per il sahel, e non l’accolgono neppure i suoi parenti in un altro villaggio, perchè nessuno vuol avere a che fare con una donna accusata di stregoneria. La figlia è all’oscuro di tutto quanto è accaduto a sua madre, alle prese con un matrimonio forzoso.
Un dramma a forti tinte, come nella tradizione dei romanzi d’appendice dell’ottocento, reso ancora più aspro da condizioni di vita difficili e da una subalternità culturale che vede un vecchio cappello o delle pile usate come gli unici residui della tecnica occidentale, da mescolare alle superstizioni ataviche.
E peggio ancora è nella capitale del Burkina Faso, quel luogo dall’impronunciabile nome di Ouagadougou, che è difficile definire città.
Uno di quei magnifici regali che il passato coloniale ha lasciato nelle distese africane, un arido agglomerati di sentieri polverosi, una bidonville percorsa da moto e furgoni, senza regole né servizi, dove gli aspetti deteriori della modernità occidentale si incontrano con le antiche, feroci tradizioni.
Eppure è lì che la “strega” Napoko trova finalmente un tetto ed un’occupazione, nel centro di assistenza Delwende di Tanghin, che accoglie le presunte “streghe”.
Lì, assieme ad altre centinaia di donne scacciate dalla comunità, riprova a guadagnarsi la sussistenza filando il cotone.
In questo rifugio dei “paria” della società, la figlia Pougbila troverà infine la madre e, con l’irruenza della giovane età e la voglia di ribellarsi ai soprusi, la ricondurrà al villaggio e farà saltare i piani dell’indegno padre Diahrra.
Un “lieto fine”, come in qualsiasi romanzo d’appendice che si rispetti, e come immagino pretendano gli spettatori burkinabe in sale cinematografiche che non riesco nemmeno a pensare.
Eppure esistono, come devono esistere spettatori assidui, se il livello della cinematografia locale è quello che quest’opera dimostra, come già lo avevano mostrato i film di Idrissa Ouedraogo e di Gaston Kaboré.
Incredibilmente per la sua povertà ed il sottosviluppo, il Burkina Faso ha una fiorente scuola di cinema, superiore a quella di ben più ricchi stati africani. Ed anche, a Ouagadougou il FESPACO, il maggior festival del cinema africano.
Ovviamente, il Burkina Faso non ha né i capitali né le attrezzature tecniche per la realizzazione delle opere cinematografiche, e deve quindi ricorrere ad interventi stranieri, specialmente a quelli organizzati della Comunità Francofona.
Per Delwende si è fatta una coproduzione con Francia e Svizzera, finanziata anche dalla fondazione culturale UnIdea della banca italiana UniCredit, e questo ha portato l’opera ad essere selezionata per Cannes 2005, dove ha vinto un paio di premi minori, e all’accesso al London Film Festival ed al Mill Valley FF della California. (…)
Autore critica:Piero Nussio
Fonte critica:
Data critica:

27/10/2005

Critica 3:Delwende, ovvero ‘Alzati e cammina’. Titolo tematico, politico-sociale, e teorico, espressione di un percorso, più esattamente, appunto, di un cammino, a diverse andature, compiuto, verso il trovare una nuova consapevolezza del vivere, da due donne. Una madre e una figlia. La prima, accusata di stregoneria e cacciata dal villaggio. La seconda, violentata dal padre e decisa a vendicare i soprusi subiti, da lei e dalla madre.
Delwende (presentato nella sezione ‘Un certain regard’) è il nuovo lungometraggio di S. Pierre Yameogo, regista anomalo nel panorama filmico africano, e anche del Burkina Faso, suo Paese d’origine. Un regista che ha da sempre posto nel suo cinema (si pensi a Laafi, Wendemi-L’enfant du bon Dieu, Silmande) un’attenzione particolare a forti argomenti sociali, dall’educazione scolastica alla corruzione politica. E che con Delwende, nella lezione del cinema di Sembene piuttosto che di quello di Ouedraogo, si immerge in un’altra realtà, quella delle donne obbligate a lasciare le proprie abitazioni nelle campagne perché ritenute portatrici di malefici. E accolte, molte di loro, in una casa ricovero a Ouagadougou. Un fatto vero. Un centro realmente esistente, che Yameogo aveva già filmato in un suo documentario. E che ora sposta in quest’opera di finzione contaminata con il reale, come descritto nella bellissima, commovente, parte finale (prima del regolamento di conti nel villaggio, dove tornano figlia e madre), l’incursione - soggettiva, silenziosa, efficace - della ragazza/dello sguardo di Yameogo, della sua camera digitale, nel centro per le donne rifiutate dalla società. Un viaggio labirintico nel dolore, in un tempo altro dell’attesa della fine.
Immagini laceranti, più della finzione talvolta ingombrante. Ma dentro un film che, anch’esso, si ‘alza e cammina’ in più direzioni, pre-vedibile e al tempo stesso libero. Come nell’uso della musica, da quella tradizionale a quella classica (una rarità nel cinema africano), per sospendere ulteriormente uno spazio e un tempo che non sono mai unici. Dentro un cinema didattico, rivendicato come tale, ma che, ancora una volta in Yameogo, si trasforma in qualcosa di imprendibile, come quella tempesta annunciata sui titoli di testa. Un respiro nascosto che libera dagli stereotipi un volto, un corpo, una camminata. Sguardi e gesti che interrogano, sfidando e superando il pre-testo iniziale che li muove.
Autore critica:Giuseppe Gariazzo
Fonte critica:Sentieri selvaggi
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:
Autore libro:

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