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Messia (Il) - Le Messie

Regia:Roberto Rossellini
Vietato:No
Video:
DVD:De Agostini
Genere:Biblico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Roberto Rossellini, Silvia D'Amico
Sceneggiatura:Roberto Rossellini, Silvia D'Amico
Fotografia:Mario Montuori
Musiche:Mario Nascimbene
Montaggio:Laurent Quaglio, Jolanda Benvenuti
Scenografia:Giorgio Bertolini
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Tina Aumont (Adultera), Anita Bertolucci (Samaritana), Flora Carabella (Erodiade), Vernon Dobtcheff, (Samuele), Antonella Fasano (Maria Maddalena), Pier Maria Rossi (Gesu'), Mita Ungaro (Vergine Maria), Jean Martin (Ponzio Pilato), Louis Suarez (Giovanni Evangelista), Toni Ucci (Erode Antipa), Cosetta Picchetti (Salome')
Produzione:Silvia D'Amico Bendico', Tarak Ben Ammar per Orizzonte 2000 (Roma), Procinex, France 3, Telefilm Productions (Parigi)
Distribuzione:Cineteca del Friuli, Zari film (16 mm)
Origine:Francia, Italia
Anno:1975
Durata:

145'

Trama:

Alla presentazione di Gesù quale Messia il film premette il germinare e il realizzarsi dell'idea-tentazione monarchica nel popolo ebraico. Dio accede con riluttanza alle pretese degli ebrei, la cui storia si snoda fra monarchia, abuso della monarchia, divisione in due regni nemici, decadenza e schiavitù prima nell'esilio e poi nella patria sottomessa ad un impero straniero, quello di Roma, ed a monarchi estranei e vassalli, gli Erodi. In tanto decadimento delle istituzioni politico-religiose e dei costumi si colloca la figura di Gesù, preconizzato dal Battista, attorniato dal popolo mutevole, dagli apostoli, dalla Madonna, fra l'indifferenza sospettosa dei poteri politici e l'ostilità di quello religioso. Il Messia cammina, lavora, predica, stimola gli apostoli a diffonderne il messaggio, poi si concede alla violenza omicida che lo porta alla croce. Il film si chiude con l'accenno alla resurrezione.

Critica 1:«Vergine madre figlia del tuo Figlio», invoca il padre Dante nel Paradiso; ed ecco che, veramente, nel Messia la radiosa Mita Ungaro appare più giovane del Cristo (sarà curioso ricordare che la madre della fanciulla, Arabella Lemaitre, impersonò santa Chiara in Francesco giullare di Dio). Quest’idea della Madonna perpetua adolescente è la chiave poetica del film di Rossellini, che ha voluto aggiungere il suo affresco personale alla già ricca filmografia cristologica: da De Mille (Il re dei re) a Duvivier (Golgotha), da Stevens (La più grande storia mai raccontata), da Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo) a Jewison (Jesus Christ Superstar). Nonostante le sue sbandierate professioni di studioso e divulgatore. Il regista di Paisà rimane soprattutto un poeta. Il Messia non si propone, infatti, come rivisitazione storicistica di un’epoca: se qui c’è storia, è soltanto storia sacra. Ma non possono non colpire il pudore, l’originalità, la capacità d’incantamento del narratore. Rossellini ha dissimulato i miracoli (c’è soltanto, ed è un momento bellissimo, la i, moltiplicazione dei pani), ha tenuto fuori scena le flagellazioni, ha insistito sugli aspetti quotidiani dell’esistenza di Gesù: il suo lavoro di falegname, il suo rapporto mite con il prossimo che lo fa somigliare a un santone indiano. I contestatori di Rossellini gli rimprovereranno la scelta sbagliata di certi attori, l’esecrabile recitazione di quasi tutti e una danza di Salomè di cui tacere è bello. Ma basterebbe la progressiva spoliazione del film. man mano che procede verso il Calvario, fino alle scene magiche del sepolcro, per ricordarci che dietro la macchina da presa c’è il più grande maestro del cinema italiano.
Tullio Kezich
Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977
Edizioni Il Formichiere
Autore critica:Tullio Kezich
Fonte criticaIl Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977
Data critica:

Edizioni Il Formichiere

Critica 2:Roberto Rossellini a tu per tu con il Messia, dopo una lunga serie di film televisivi in cui, proseguendo quello che era stato il suo primo magistero neorealista (Paisà, soprattutto, e Germania anno zero) era passato dalla cronaca alla storia, anzi, alla cronaca della storia: per “informare”. Una tappa logica e d’obbligo, quindi, questo incontro con il Messia, perché, come lo stesso Rossellini ebbe a dichiararmi l’anno scorso, il suo “programma d’informazione si rivolge all’uomo e ha per oggetto l’uomo. E il messaggio di Cristo, in tutta quanta la storia dell’umanità è stato quello che meglio e più profondamente di ogni altro ha chiarito l’uomo a se stesso, dandogli le ragioni di tutto; in senso assoluto, totale”.
Un programma d’informazione, dunque, che dandosi come tappa d’obbligo il Messia, si impone come scopo essenziale quello di farne conoscere il messaggio, la parola. Un film, perciò, che si costruisce sulla parola, cogliendo questa parola là dove è Verbo, e cioè nei quattro Vangeli. Affidati all’ordine cronologico seguito soprattutto da Giovanni, con particolare attenzione agli echi messianici di Marco (introdotti da un preambolo vetro testamentario sull’arrivo degli Ebrei nella terra di Canaan), con l’aggiunta di una Lettera di San Paolo (per l’Ultima Cena), con qualche dialogo parafrasato, una o due interpolazioni (le repliche di Giovanni Battista ad Erode) e finalmente con una presenza di Maria ricostruita più sulla tradizione che non sui testi (al processo, ad esempio, e nella scena della “Pietà”). Miracoli, pochi. Non per una fuga dal soprannaturale ma perché, come mi aveva fatto osservare Rossellini “i miracoli in un film non persuadono. Con il cinema puoi farci quello che vuoi, puoi anche far volare i tappeti delle Mille e una notte. In un film su Gesù invece persuadono tutte le parole che Gesù diceva “.
Da qui l’impegno, la necessità di “mettere le parole di Gesù in primo piano, facendo, attorno, il vuoto di tutto il resto”.
Ecco, torniamo alle parole, il segreto, la chiave di questo film. Come le “rappresenta”, Rossellini, queste parole che sono il messaggio con cui il Messia ha “chiarito l’uomo a se stesso?” Mettendole effettivamente in “primo piano”, “leggendo” i Vangeli, cioè, e non rileggendoli, evitando intenzionalmente sia le operazioni di esegesi sia le interpretazioni storico-critiche. Evitandole non perché le ritenga inopportune, ma perché, conseguente con i suoi principi di “informazione”, vuole che sia lo spettatore, leggendo il suo film, a rileggere i Vangeli, e poi a studiarli, a interpretarli. Ho tolto tutto – mi aveva detto –musica, orpelli, costruzioni, proprio per non “sedurre" per non indurre in tentazioni, fidando esclusivamente nella intelligenza degli altri cui mi sono limitato a fornire i puri elementi di giudizio. Certo, per far questo – aveva aggiunto – bisogna credere al libero arbitrio, ma io ci credo ...’
Ha tolto tutto e ha “letto”. Come si leggono anche oggi nelle chiese e sui palcoscenici gli oratorii, così fiducioso nel libero arbitrio dello spettatore e, contestualmente, nella perennità di quella Parola che ha messo al centro del suo film-oratorio, da farla leggere addirittura in modo distanziante, quasi avulsa dalle circostanze “reali” dell’azione, con la stessa impersonalità delle voci di Bresson e, spesso, con una omofonia che, per tenere tutto in primo piano, ignora le profondità di spazio, con asicronismi che tendono alla dimensione unica (come se quelli che leggono stiano tutti su un podio in una stessa fila).
La Parola, il messaggio. Detti però dal Messia in un momento preciso della Storia. Parallela così all’Oratorio, si svolge, nel film, con il film, e diventandone tutt’uno, anche la Sacra Rappresentazione. L’Oratorio enuncia il messaggio. La Sacra Rappresentazione propone la vita “storica” del Cristo. Anche qui,, però, secondo la prassi realistica rosselliniana del “mostrare anziché dimostrare” lasciando che sia lo spettatore a vedere e a scegliere, per giudicare da solo. L’immagine, infatti, ad ogni istante, come mi aveva avvertito Rossellini, “mostra tutte insieme tante situazioni, tante cose; perché ciascuno vi trovi quello che cerca, vi colga le sue sensazioni personali, le sue emozioni,’ senza che sia l’autore a suggerirle, ad imporsi. Un parlare per sintesi, insomma, senza mai sottolineare, altrimenti si arriva all’analisi. Con il solo scopo di riuscire a proporre una gran quantità di dati che basta che esistano perché abbiano la loro importanza. Guarda – aveva detto ancora – l’importanza che hanno nel Messia tutte le cose che si mostrano: il paesaggio, il frinire delle cicale, il vento, l’acqua, il modo che gli uomini hanno di muoversi, di lavorare. Tutto è segno, tutto è messaggio. E sono segni, messaggi che nascono da un accumularsi di dati”.
Dei “segni” appunto. Il Rossellini che informa, però, e che ce li propone solo come tali, nel momento stesso in cui informa è anche poeta e uno dei più grandi nella storia felice del nostro cinema. Se il suo Oratorio, affidato oltre a tutto ad una lingua italiana puntigliosamente antiquata, brilla di tutte le luci stilistiche della distanziazione (reinterpretando Brecht e Bresson), la Sacra Rappresentazione che gli corre vicino è, ancora una volta, e con impegno più maturo, una grande lezione di realismo, anzi di perenne neorealismo. Tutto quello che vi si vede e che si riferisce al Messia e agli Apostoli è vero, asciutto, immediato, con sapore di pane, di polvere, di terra.
La cifra visiva che nasce con logica precisa dalla cornice palestinese ricreata soprattutto in Tunisia, è quella del sottoproletariato arabosemita, con le sue cornici di oggi, i suoi costumi. Una cronaca del Terzo Mondo che non si scontra mai con la Sacra Rappresentazione perché la seconda nasce dalla prima e quando deve proporsi in “costume” ne partecipa a tal segno che una toga romana finisce per avere la stessa contemporaneità di un baraccano. La cifra narrativa è quella di un gruppo di persone emerse da questo sottoproletariato, con la stessa fame, la stessa sete, gli stessi problemi di lavoro, di lotta, di sopravvivenza. Con quel lavoro, soprattutto, che è regolarmente lo spunto per le parabole, con quella fame e quella sete non solo “di questo mondo” che sono il presupposto e la ragione della Parola.
Al centro, il “personaggio” del Messia. Visto con lo stesso realismo: l’artigiano, il Figlio dell’Uomo che quando “parla parole di vita” dà più brividi se continua nel frattempo a lavorare con il legno e con le reti anziché assumere pose maestose, ieratiche (solo una volta apre le braccia e guarda il cielo, sul Monte delle Beatitudini). Rincorso, inseguito, questo personaggio, lungo tutto il film, e rincorso perché corre, perché la struttura del racconto ha la stessa dinamica di una vita che va in fretta, di una stagione breve da consumarsi alla svelta, proprio fino alla feccia; con una essenzialità che, testimoniando ancora una volta della poetica immediatezza del neorealismo rosselliniano, per arrivare alla meta toglie e taglia, evitando, al processo, la flagellazione e mostrandone da lontano e di sfuggita solo gli effetti, facendoci arrivare al Golgota senza passare per la via del Calvario, dandoci della Crocifissione solo il “Tradidit spiritum” e della Resurrezione solo il sepolcro vuoto e Maria nella stessa posa dell’Assunta di Tiziano. E con delle tecniche che, proprio là dove hanno come meta “l’accumulo di dati” per mostrare senza dimostrare, scrivono contemporaneamente talune fra le pagine liricamente e drammaticamente più intense del film, il lunghissimo piano-sequenza dell’Ultima Cena, ad esempio, che con una composizione figurativa di armonia quasi geometrica arriva in un minimo spazio e in un tempo minimo a dire tutto: la notte, la Cena, il tradimento, la Passione che si prepara, gli Apostoli, le facce, trovando anche modo di farci ascoltare quasi per intero quel “discorso sacerdotale” di Gesù che è uno dei luoghi sommi del Vangelo di Giovanni.
Fra le altre tecniche, piegate a questo linguaggio essenziale che fa poesia mentre fa cronaca per fare didattica, la splendida fotografia di Mario Montuori, accesa solo di luci intense, trasparenti, concrete, le discretissime musiche di Mario Nascimbene affidate in genere a voci e a cori tolti dalla vita quotidiana e, soprattutto la recitazione. Attori noti, spesso anche comici, per i personaggi di quelli che nelle Sacre Rappresentazioni sono tuttora definiti “Sinagoga”, i Re, cioè, i Sacerdoti, Ponzio Pilato (Vittorio Caprioli, Toni Ucci, Flora Carabella, Jean Martin), non a caso, invece, Gesù, Maria e molti Apostoli, scelti fra non professionisti, giovanissimi e esordienti: “un volto ignoto – aveva detto Rossellini – si limita a mostrarsi, così lascia che dimostrino solo le parole che pronuncia “. Gesù è uno studente romano che è Pier Maria Rossi, capelli neri, occhi scuri, passo svelto, volutamente lontano dall’iconografia tradizionale; lo doppia Enrico Maria Salerno con le omofonie distanzianti che si è detto: riuscendo spesso ad isolare davvero nell’immagine la parola.
Maria è la diciassettenne Mita Ungaro; resta tale, senza rughe né canizie, fino all’ultimo; un simbolo verginale, però, che non contraddice il realismo; il trucco l’avrebbe contraddetto di più. E così gli altri apostoli, tutte facce che, ad eccezione di quella di Giuda, non si distinguono intenzionalmente l’una dall’altra. L’anonimato che alla fine assurge a personaggio. Secondo un arco, del resto, che è anche l’arco narrativo e stilistico del film: quelle immagini dilatate che agli inizi colgono solo figure lontane, in grandi spazi, fra cori di folla, e che poi invece, quando viene l’ora, il tempo si compie e tutte le parole sono dette, si restringono e quasi si chiudono attorno al gran protagonista: lasciando che parli solo con il silenzio della Croce e, subito dopo, con il viso “glorioso” della Madre che, lei sola, vede il Risorto.
Autore critica:Gian Luigi Rondi
Fonte critica:Il Tempo
Data critica:

29/9/1976

Critica 3:
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