Bird - Bird
Regia: | Clint Eastwood |
Vietato: | No |
Video: | Warner |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | La musica |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | |
Sceneggiatura: | Joel Oliansky |
Fotografia: | Jack N. Green |
Musiche: | «Maryland, My Maryland» (interpretata da Lennie Niehauys), «Lester Leaps in» (Parker, Monte Alexander, Ray Brown, John Guerin), «Reno Jam Session» (Lennie Niehaus, James Rivers, Red Rodney, Pete Jolly, Chuck Berghofer, John Guerin), «Young Bird» (James Rivers, Pete Jolly, Chuck Berghofer, John Guerin), «I Can’t Believe That You’re in Love with Me» (Parker, Monte Alexander, Ray Brown, John Guerin), «Why Do I Love You?» (James Rivers, Lennie Niehaus), «Moonlight Becomes You» (Ronny Lang, Gary Foster, Bob Cooper, Pete Christlieb, Chuck Findley, Conte Candoli, Rick Baptist, Dick Nash, Bill Watrous, Barry Harris, Chuck Berghofer, John Guerin), «Moose the Mooche» (Charlie McPherson, Jon Faddis, Walter Davis Jr., Ron Carter, John Guerin), «Ornithology» (Parker, Charles McPherson, Jon Faddis, Mike Lang, Chuck Domanico, John Guerin, Charlie Shoemake), «The Firebird» (Orchestra Sinfonica di Vienna diretta da Wolfgang Sawallish), «Lover Man» (Parker, Charles McPherson, Jon Faddis, Walter Davis Jr., Ron Carter, Johr Guerin), «April in Paris» (Parker, Barry Harris, Chuck Berghofer, John Guerin e un’orchestra ad archi), «All of Me» (Parker, Monte Alexander, Ray Brown, John Guerin), «Jewish Wedding» (Charles McPherson, Red Rodney Walter Davis & Jr., John Guerin), «One for Red» (Red Rodney, Mike Lang, Chuck Domanico, John Guerin), «Now’s the Time» (Parker, Charles McPherson, Red Rodney, Walter Davis Jr., Ron Carter, John Guerin), «Albino Red Blues» (Red Rodney, Walter Davis Jr., Ron Carter, John Guerin), «Cool Blues» (Parker, Walter Davis Jr., Ron Carter, John Guerin), «Laura» (Parker, Barry Harris, Chuck Berghofer, John Guerin e un’orchestra ad archi), «Be My Love» (Mario Lanza), «Parker’s Mood» (King Pleasure, John Lewis, Percy Heath, Kenny Clarke), «This Time the Dreams on Me» (Parker, Monte Alexander, Ray Brown, John Guerin), «Ko Ko» (Parker, Walter Davis Jr., Ron Carter, John Guerin), «Buster’Last Stand» (con Ronnie Lang al sax alto), «Parker’s Mood» (Parker, Barry Harris, Chuck Berghofer, John Guerin e un’orchestra ad archi) |
Montaggio: | Joel Cox |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Forest Whitaker (Charlie «Bird» Parker), Diane Venora (Chan Parker), Keith David (Buster Franklin), Michael Zelniker (Red Rodney), Samuel E. Wright (Dizzy), Michael McGuire (Brewster), James Handy (Esteves), Damon Whitaker («Bird» giovane), Morgan Nagler (Kim), Arlen Dean Snyder (Dr. Heath), Sam Robards (Moscowitz), Bill Bobbs (Dr. Caulfield), Tony Cox (Pee Wee Marquette), Diane Salinger (Nica De Konigswarter), Richard Jeni (Morello) |
Produzione: | Clint Eastwood |
Distribuzione: | Warner Bros. |
Origine: | Usa |
Anno: | 1987 |
Durata:
| 163’
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Trama:
| Omaggio al grande sassofonista Charlie Parker, il pioniere di un nuovo stile musicale. È la storia di un jazzista che, come spesso accade, vive la sua vita in maniera troppo estrema. Droga, alcol e sesso sono i suoi vizi. Morirà giovane, a soli 34 anni.
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Critica 1: | Storia di Charlie (Bird) Parker, sassofonista, genio innovatore del jazz e, con Dizzy Gillespie, iniziatore del be-bop: tra amori infelici, alcol, droga, morì a 35 anni quasi in miseria. Scritto da Joel Oliansky, più che una biografia, è una sintesi drammatica del mistero della sua arte, della lotta con i suoi demoni, di una vita all'insegna dello sperpero. Film notturno, piovoso cupo, costruito su sconnessioni temporali all'indietro e in avanti. (…) Un Oscar per il suono. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Per Clint Eastwood, Bird è qualcosa di più di una tappa importante nella sua carriera di regista. È, probabilmente, il film della sua vita. La sceneggiatura che Joel Oliansky aveva scritto per Richard Pryor, che la Warner ha «scambiato» con la Columbia, rappresenta la possibilità di concretizzare un sogno adolescenziale, maturato suonando il piano e il flicorno all’Omar Club di Oakland, ascoltando con reverente passione i giganti di una stagione irripetibile nelle incisioni discografiche o, in carne e ossa, nel «Jazz at the Philharmonic». D’altronde, che la musica fosse nelle corde di Eastwood lo si poteva capire già nell’eccellente e sfortunato Honkytonk Man, commovente ritratto di un cantante country negli anni della Depressione. Sullo specifico, il regista–attore è stato di recente quasi lapidario. «Secondo me, gli americani hanno prodotto soltanto due forme espressive autenticamente originali: il western e il jazz». Cosa lui abbia dato al western, nel bene e nel male, lo sanno tutti. Con Bird egli consuma il suo atto d’amore per il jazz, passando dall’universo della sopraffazione a quello della sconfitta, da uomini «veri» e «duri» ad un sia pur gigantesco born to lose. Non c’è quindi da stupirsi che Bird costituisca una svolta nella sua parabola registica, un risultato di inusitata ricchezza (anche produttiva), giocato su una frammentazione narrativa che lo disancora da un fino ad oggi per lui pressoché obbligato cinema di genere. Come non senza audacia nota Callisto Cosulich, il film, più che al biopic tradizionale hollywoodiano, diciamo da Chimere a La signora del blues, è avvicinabile a un film-scommessa come Cronaca di Anna Magdalena Bach, in cui la musica è «assunta al ruolo di protagonista, di vera e propria star, capace con la sua presenza di dettare i tempi, lo stile, in una parola l’essenza della story». Al di là di paralleli comunque imbarazzanti, si deve dare atto a Eastwood di non essersi lasciato accecare dall’amore, di essere sempre stato cosciente dei rischi che correva affrontando la caotica contradditorietà di uno dei più grandi musicisti del nostro secolo.
Esistono due aspetti caratterizzanti nella personalità di Charlie Parker. Uno è quello forte, del band-leader e del leader tout-court, l’uomo che determina per un buon decennio le fortune del jazz negli Stati Uniti e nel mondo intero, che si pone al vertice della cultura afro-americana e si propone come figura guida per tutta la comunità nera, che la riscatta dalle ristrettezze del ghetto rivelando al mondo intero il jazz come matura forma artistica (e si contrappone in questo senso ad una figura altrettanto importante come quella di Louis Armstrong, che non si preoccupò mai di presentarsi in modo diverso da quello che ci si aspettava da lui); nel caso di Parker, insomma, non si tratta di un riconoscimento postumo, ma di una continua, conclamata attestazione di superiorità nell’ambito.
L’altro è quello, più risaputo e rappresentato, della debolezza psicologica di Parker, della sua impossibilità a reggere le comuni regole di vita. Una volta ancora il film privilegia questo secondo côté, trascurando gli aspetti di travolgente personalità necessariamente sottesi alla sua musica torrenziale, senza incertezze e soprattutto conscia della propria carica potentemente innovativa. Parker non è quindi in questo senso apparentabile all’immaginario Dale Turner di Tavernier, più incline al solipsismo, portato a perdersi nella notte nebbiosa di Parigi assieme a una bottiglia di whisky per non rientrare più a casa sua: due tentativi di suicidio non sarebbero nelle sue corde, così come gli attacchi di violenza isterica. Da una parte quindi un uomo perennemente ma rassegnatamente attaccato alla bottiglia, che dimentica se stesso in squallide stanze d’albergo per giorni e giorni, annichilito dalla propria patologica atarassia, che oblomovianamente ricorda o immagina le sue azioni, da sempre stanco di vivere e desideroso di morire.
Il registro di Tavernier aderiva a queste atmosfere crepuscolari (i tardi anni ’50 del film individuano un be-bop in piena decadenza) e accentuava il senso di ineluttabilità. La scelta stilistica di Eastwood sottolinea invece il frenetico vitalismo di Parker, la sua lust for life, nell’adozione di un montaggio concitato che si adatta alla struttura del testo, fatta di flash-back e flash-forward, quasi un rimandarsi continuo di fraseggi boppistici in un crescendo orchestrale che conosce anche momenti di lirica contemplazione e allucinata fissità. Se nelle interviste rilasciate Eastwood accenna solo di sfuggita a ‘Round Midnight, e ne sottolinea comunque la sostanziale diversità, si può affermare che Bird si caratterizza in negativo rispetto al film francese, nel senso che ne costituisce il controcampo: «Cartoline da Parigi» potrebbe titolare la parte inerente la tournée europea di Charlie Parker, con le panoramiche e i luoghi deputati della capitale che precedono il trionfo con lancio di fiori nel concerto alla Salle Pleyel e la conversazione con Bonny, immaginario transfuga (omologo di Dale Turner) nel «paradiso» europeo contrapposto all’inferno di New York incarnato da Martin Scorsese nel film di Tavernier. In questa ottica le due opere possono essere definite complementari, anche se là dove Tavernier si sforzava di identificare una biografia che fosse il più possibile esemplare, sovraccarica di riferimenti e clichés, ed inoltre caratterizzata da un taglio all’europea, Eastwood redige la biografia di un personaggio unico, che vive la sua stagione all’inferno senza concepire una possibile vita a di fuori di esso. La visione è quindi «in presa diretta», contrapposta alla «visione mediata» di Tavernier: questo a sottolineare la mediazione come caratteristica costante della ricezione europea del fenomeno jazz, soprattutto da parte del pubblico «specializzato» e degli addetti ai lavori, musicisti e critici. Il jazzista americano è un alieno, un veicolo di messaggi provenienti da mondi lontani, inimmaginabili, una figura mitica sconcertante e a volte penosa, comunque intangibile: non è un caso che la decisione di stabilirsi in Europa presa da molti musicisti americani, lusingati (comprensibilmente) dalle accoglienze, abbia significato, se non il loro affossamento, quantomeno una temporanea eclissi creativa. La loro vita è qui, ci ricorda bruscamente Eastwood, ed è dura, molto dura prima di essere leggendaria. La scelta stilistica che ne consegue è aliena da compiacimenti formali, sentimentalismi e tremori, e il film risulta a tratti conciso, perfino sgradevole nella sua essenziale esposizione dei fatti.
Michael Henry paragona, con una suggestiva immagine, il Parker di Bird all’albatro baudelairiano, in volo solenne e sublime nei cieli dell’arte, dove l’unica possibilità per gli altri, Dizzy compreso, è guardarlo dal basso, impacciato papero a contatto con l’esistenza banale, i suoi problemi di avvilente quotidianità, il suo «dover fare i conti con». In effetti, tutta la figura di Parker è attraversata da una serie di inestricabili contraddizioni: egli è dedito alla droga e all’alcool (strumenti, si badi bene, non per accrescere la creatività, tutt’altro, semmai per colmare illusoriamente lo iato tra arte e vita vissuta, in un empito decadente e autodistruttivo), ma si erge a censore nei confronti di chi (Rodney) fa uso di sostanze stupefacenti, è attaccato alla famiglia, sembra credere sostanzialmente nei suoi valori, ma contemporaneamente è spinto da una frenetica vitalità verso un insaziabile erotismo (esemplare, sotto questo aspetto, la bellissima, agghiacciante sequenza del telegramma ripetuto all’infinito, con minime variazioni, ad esprimere il lancinante senso di colpa per l’assenza nel momento della morte della figlia, mentre una bionda sinuosa, sullo sfondo, è voluttuosamente adagiata sul divano), è rigorosissimo dal punto di vista musicale (la visita all’amico che si è sputtanato per il rock’n roll, contro il quale sibila: «Voglio vedere se questo strumento riesce a fare più di una nota per volta»), ma poi «cede» all’orchestra, in un confuso impulso verso una ricerca di «classicità» che lo porta ad accettare gli archi, autoparagonandosi a Mario Lanza, a suonare il campanello di casa Stravinskij, per un impossibile confronto, a distanza, tra musica colta ed extracolta, tra pratiche alte e basse (o supposte tali). Sotto questo punto di vista, Eastwood e Cliansky individuano come termine di paragone la figura di Dizzy Gillespie, la cui «genialità» si ferma ai bordi della vertigine d’assoluto: si vedano, in particolare, la sequenza di Bird che, in preda ad un’ebrezza non solo creativa, sveglia Dizzy per «dettargli» le note che lo tormentano, quella del party a cui Bird arriva con colpevole ritardo e si sente fare una lezione di deontologia applicata all’immagine (non solo di professionista, ma anche di nero), infine, quella, veramente indimenticabile, sulla spiaggia, nella quale la diversità di inclinazioni, il rapporto in qualche modo paterno, si stemperano in un afflato di commovente solidarietà amicale.
Sul piano della definizione del contesto, il film risulta molto mediato. L’essere nero di Bird è sempre legato alla sua natura di musicista, dalla bella sequenza iniziale del bambino che si aggira nel ghetto suonando il flauto dolce, all’episodio della tournée nel profondo sud, con quel sintomatico scambio di ruoli tra servi e padroni ai danni dell’unico bianco, Red Rodney, e l’immersione nella sordida ma autentica «balera» per colored.
E, al di là del lurido poliziotto del nucleo antidroga, non si trova accenno, se non molto indiretto, alla condizione razziale (forse ad una solidarietà tra neri ed ebrei, più che ad un fiducioso melting pot, sembra alludere la festa yiddish, con la sua giocosa mescolanza di fisionomie e copricapi). Si ha insomma l’impressione che Bird, come un altro anomalo biopic, il formaniano Amadeus, tenda ad assolutizzare i termini della questione (si veda, ad esempio, il simbolo ricorrente del piatto gettato sul palcoscenico, a significare la fragilità, la motivazione per una continua, quasi ossessiva ricerca, ma anche l’irredimibile alterità del genio rispetto ai contemporanei, siano essi coesecutori o ascoltatori).
La stessa funzione della benemerita e da poco defunta Nica De Konigswarter, irraggiungibile nella sua ambigua solidarietà, sembra da ricondurre ad una non meglio definibile nozione di Fato.
A merito del film si può infine accreditare il fatto di aver saputo costruire, al fianco della gigantesca figura centrale, una serie di personaggi con una tutt’altro che banale consistenza, dal già citato Dizzy a Chan, non tanto divisa tra «normalità» ed eccezionalità disperata, quanto incapace di far combaciare la propria con l’altrui irregolarità, di trovare un sia pur minimo compromesso ad un amore forte ma costretto a fare i conti con troppo violente pulsioni centrifughe.
L’ascolto in cuffia del soundtrack di Bird rivela appieno il carattere eccezionale e irripetibile di un’operazione emozionante e sconcertante a un tempo. Se il cinema mostra «la morte al lavoro», Bird si spinge oltre, costringendo la morte stessa a rimettersi in discussione, restituendo all’attualità un contesto che si pensava definitivamente consegnato alla storia. L’operazione fa il paio, ancora una volta, con quella tentata da Tavernier: là i veri protagonisti che recitano se stessi, qui gli attori che fingono di suonare la vera musica di Charlie Parker. In entrambi i casi si avverte la necessità di mantenere il più possibile una traccia di verità, una testimonianza documentale che innervi la fiction e ne costituisca la linfa vitale. Altrove abbiamo già parlato dell’impossibile decontestualizzazione del jazz, non foss’altro che per l’impraticabilità della scissione tra musica ed esecutore, e dell’importanza della registrazione come sola testimonianza della qualità del performer: un doppio legame che ha costituito il successo delle operazioni ‘Round Midnight e Bird. Ecco quindi il senso del film che emerge compiutamente dall’ascolto della colonna sonora: l’unicità/irripetibilità di un personaggio del quale si può rappresentare/riprodurre la vita ma non la musica, e del quale comunque la musica costituisce sempre l’elemento principale – la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte come opzione obbligata e sola possibilità per la conoscenza, e allo stesso tempo lo scavo nella nozione stessa di riproducibilità – gli inarrivabili mezzi ed accorgimenti contemporanei (traducibili in generale in un accurato, meticoloso ed intenso lavoro di artigianato qual è il buon cinema) e, soprattutto, la deliberata attualizzazione non solo tecnica ma anche espressiva. «Se Bird fosse ancora tra noi, vorrebbe certamente suonare in questo modo», scrive Leonard Feather nelle note di copertina del disco. Ed è sicuramente il Bird di Bird che esce dai solchi CBS; ma il risultato è emozionante, ancorché «mostruoso», come è emozionante, perché fuga ogni dubbio sulla veridicità del metodo usato, scoprire la leggera ma evidente stonatura tra Bird e il gruppo in I Can’t Believe That You’re in Love with Me, o l’assenza di quella, altrettanto leggera ma voluta e percepibile, tra Bird e Dizzy, che dilaniava allegramente i temi del be-bop (modo ripreso ed estremizzato poi da Ornette Coleman), qui ricomposta ed appianata negli unisoni tra Charlie McPherson e Jon Faddis. E, soprattutto, l’emozione di riscoprire il Parker grande balladeur nei pezzi con gli archi sontuosamente, hollywoodianamente riarrangiati da Lennie Niehaus: una vera opportunità per rivalutare il tanto vituperato Bird «commerciale» delle incisioni Verve, per capire l’uomo così orgoglioso e convinto della necessità di suonare con un’orchestra da camera, nella tensione a estendere le proprie potenzialità, quasi che il complessino jazz, la big band, il sassofono o l’atto stesso del suonare costituissero un impaccio, un limite allo sfrenato desiderio di esprimersi in musica. Se Lester Leaps in, Ko Ko, Ornithology rappresentano il Charlie Parker dell’iconografia, l’uomo sfrenato, dionisiaco, disperato, geniale e maudit, così Laura, April in Paris e, soprattutto, Parker’s Mood mostrano l’aspetto disteso, solare e conscio di chi sa immaginare anche altro, una vita diversa da quella che deve – o vuole – condurre faticosamente. Una vita che possa avvicinarsi a quella di un Igor Stravinskij chiuso nel caldo lusso della sua villa, inaccessibile eppure così vicino, e soprattutto abbastanza mediato da poter dare il meglio di sé senza impazzire sotto il peso di tutti i suoni del mondo. |
Autore critica: | Marco Vecchi – Paolo Vecchi |
Fonte critica: | Cineforum n. 280 |
Data critica:
| 12/1988
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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