Pleasantville - Pleasantville
Regia: | Gary Ross |
Vietato: | No |
Video: | Medusa Video |
DVD: | Medusa |
Genere: | Commedia |
Tipologia: | Mass media |
Eta' consigliata: | Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori |
Soggetto: | Gary Ross |
Sceneggiatura: | Gary Ross |
Fotografia: | John Lyndley |
Musiche: | Randy Newman |
Montaggio: | William Goldenberg |
Scenografia: | Jeannine Claudia Oppewall |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Joan Allen, Kevin Connors, Jeff Daniels, Jane Kaczmarek, Don Knotts, William H. Macy, Tobey Maguire, Natalie Ramsey, Marley Shelton, Paul Walker, J.T. Walsh, Reese Witherspoon |
Produzione: | New Line Cinema - Larger Than Life |
Distribuzione: | Medusa |
Origine: | Usa |
Anno: | 1998 |
Durata:
| 124'
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Trama:
| Competente e appassionato frequentatore di una sit-com seriale degli anni '50, messa in onda dalla Time TV, rete rigorosamente dedicata a programmi in bianconero, David (T. Maguire), adolescente degli anni '90, è risucchiato con la recalcitrante sorella Jennifer (R. Witherspoon) nel piccolo schermo, a vivere tra i personaggi dell'idillico e asettico Pleasantville. A poco a poco i due ragazzi sconvolgono l'ordine delle cose e delle puntate con gli strumenti del desiderio, della trasgressione e del caos, cioè della vita. Gradualmente, mentre la loro azione involontariamente sovversiva procede, si passa dal bianconero (meglio: il grigio-grigio televisivo) al colore.
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Critica 1: | La bella opera prima dello sceneggiatore (Big, Dave...) Gary Ross - tra La rosa purpurea del Cairo e Ritorno al futuro - svela i retroscena dei fonziani Happy Days, cita il Truffaut di Fahrenheit 451 e scardina, senza pietà, l'aura dorata dentro la quale gli anni '50 hanno immeritatamente (ri)vissuto per lustri. Una lucida vendetta da parte di una vittima del maccartismo (al padre di Ross, sceneggiatore egli stesso, i fanatici dell'anticomunismo rovinarono l'esistenza) a cui, più che la televisione, fa paura - giustamente - il conformismo della conservazione. |
Autore critica: | Aldo Fittante |
Fonte critica | Film TV |
Data critica:
| 5/5/1999
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Critica 2: | "Nella nostra città sta succedendo qualcosa"; dice allarmato Big Bob (J.T. Walsh) a tre o quattro membri esimi della comunità. Essendo il chairman o presidente della Camera di commercio - il sindaco, nella versione italiana -, sa bene che niente è successo mai, a Pleasantville. A garantirne l'immobilità, le sue strade sono circoli viziosi: là dove finiscono, eternamente ricominciano. Niente c'è fuori della città, se non un'assoluta impossibilità. Dentro, tutto è stato sempre omogeneo, trasparente, perfetto. Come dice il suo stesso nome: tutto è stato sempre piacevole. Ora, invece, il cambiamento si insinua nel dentro come un contagio del fuori. La molteplicità dei colori insidia l'omogeneità del bianco e nero. I desideri, per loro natura imprevedibili e oscuri, inquietano vite altrimenti perfette. C'è una sola cosa da fare. Big Bob la conosce: “Bisogna separare quel che è spiacevole da quel, che è piacevole”. Il modo? E' antico, arcaico. Si "separano" gli uomini dagli uomini: i colorati dagli omogenei, i malvagi dai buoni, gli imperfetti dai perfetti. Poi, per maggior tranquillità, si distruggono i quadri e si bruciano i libri (o i film), che dei desideri e dei colori sono effetto e causa. Infine, a stabilire i confini tra chi è legittimamente uomo e chi non lo è, viene istituito un giurì di probi cittadini. Come chiamarlo? Comitato civico? Ministero per la difesa della razza? O forse Commissione per la purezza etnica? Sono serie, e molto, le cose che racconta Gary Ross, regista e sceneggiatore di Pleasantville (Usa, 1998). Proprio per questo sceglie di farlo con gli strumenti leggeri ed efficaci della commedia. Anzi: con gli strumenti, opportunamente modificati, della situation comedy televisiva degli anni 50. Nel suo bianco e nero, dunque, Jennifer (Reese Witherspoon) e David (Tobey Maguire) precipitano attraverso uno specchio, diventando Mary Sue e Bud. Ossia: vengono risucchiati nella virtualità di Pleasantville attraverso lo schermo del loro televisore, sul quale la macchina da presa scopre, riflessa, la realtà della loro casa. Poi, quando David tornerà indietro, di nuovo in questa realtà, sullo schermo d'un altro televisore si rifletterà l'immagine di quella virtualità. Che si tratti, una volta di più, d'una qualche critica dei mali televisivi? Per fortuna, Ross è interessato a tutt'altro. Nel film la tivù funziona proprio solo come uno specchio. Se si vuole: come il luogo nel quale "si riflette" quello che un gruppo umano ama pensare e raccontare di sé, dei propri valori. Ben lo si può chiamare comune, quel luogo: un e anzi il luogo comune. In esso ci si incontra, tutti uguali, tutti prevedibili. Da esso non si esce, per non uscire dalla trasparenza del suo bianco e nero, dalla sicurezza di strade che, dove finiscono, là ricominciano. Poco conta che i circoli viziosi - criteri generali di vita, decisioni prese una volta per tutte, e per tutti - siano televisivi o ideologici, morali o politici, filosofici o religiosi. Conta che consentano e impongano d'esser felici. Conta che - eludendo i pericoli della libertà, tenendo lontana la sua paura - impediscano che succeda davvero qualcosa. Questo David e Jennifer vedono nel bianco e nero di Pleasantville, al di là dello specchio. E se ne stupiscono. Possibile che quegli uomini e quelle donne accettino di vivere storie biografie ruoli già tutti scritti? Possibile che non abbiano curiosità e che arrivino a temerne il sentore? Possibile che s'imprigionino dentro una storia netta, unica, totale? Il loro stupore agisce come un contagio: a molti suggerisce altre storie, biografie, ruoli. Qualcuno ne manifesta apertamente i colori. Qualcuno ne soffre in segreto la tentazione, e magari prova a dissimularla con un po' di cipria grigiastra, come David suggerisce a Betty (Joan Allen), sua madre virtuale. Al contagio, appunto, Big Bob e il suo Comitato civico devono reagire, se vogliono che il luogo comune resti saldo, che resti salda la sua storia unica e totale, totalitaria. Quanto ai seguaci, non faticano a trovarne. La paura della libertà è la più radicale, e la più diffusa. D'altra parte, anche Jennifer/Mary Sue e David/Bud restano a lungo in bianco e nero. Anche loro vivono forse una storia già tutta scritta, chiusi in un ruolo, sicuri e pavidi nel luogo comune? C'è da sospettare, che il loro stupore sia suscitato proprio solo dall'attraversamento dello specchio. Al di là di esso, cioè, riescono a vedere quello che, al di qua, vivono solo: il bianco e nero, l'omogeneità, la mancanza di curiosità per altre storie. Non a caso, sul volto della madre reale che piange (Jane Kaczmarek), David compie un gesto tenero che capovolge il senso di quello compiuto sul volto della madre virtuale: con un fazzoletto le asciuga le lacrime, e la libera dal trucco. Qualcosa potrà succedere, finalmente. |
Autore critica: | Roberto Escobar |
Fonte critica: | Sole 24 Ore |
Data critica:
| 25/4/1999
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Critica 3: | |
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Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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