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Nazarin - Nazarín

Regia:Luis Buñuel
Vietato:No
Video:Multimedia, San Paolo Audiovisivi
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Dal romanzo omonimo di Benito Perez Galdos
Sceneggiatura:Julio Alejandro, Luis Buñuel
Fotografia:Gabriel Figueroa
Musiche:Carlos Savage
Montaggio:Carlos Savage
Scenografia:Edward Fitzgerald
Costumi:Georgette Somohano
Effetti:
Interpreti:Francisco Rabal Nazarin, Marga Lopez Beatriz, Rita Macedo Andara, Jesus Fernandez Il nano, Ignacio Lopez Tarso Ladro, Luis Aceves Castaneda Parricida, Ofelia Guilmain Chanfa, Noe' Murayama El Pinto, Rosenda Monteros Prieta, Edmundo Barbero, Antonio Bravo, Ada Carrasco, Raul Dantes,
Aurora Molina, Pilar Pellicer, David Reynoso
Produzione:Manuel Barbachano Pontes Messico
Distribuzione:Cineteca Griffith - Collettivo dell’Immagine
Origine:Messico
Anno:1958
Durata:

97'

Trama:

Negli ultimi anni del secolo scorso, nel Messico feudale del dittatore Porfirio Diaz, Nazarin è un umile prete che vive in estrema povertà in un malfamato e misero quartiere di un paesetto. I vicini, profittando della sua bontà, pur stimandolo, gli tolgono tutto ciò che egli ha. Un giorno una donna, Andala, dopo aver ucciso in una rissa un'altra ragazza, ferita da una coltellata, e per evitare di essere arrestata si rifugia da Nazarin che la cura. Ma la minaccia di una denuncia induce i due ad abbandonare la casa che Andala addirittura brucia. Mentre la donna viene ospitata dalla famiglia di Beatrice, - una giovane sedotta ed abbandonata da Pinto, un prepotente signorotto locale, - Nazarin, calunniato dalla gente per aver ospitato la donna, viene costretto dal vescovado ad abbandonare la sua veste perchè sospeso "a divinis". Comincia così il suo peregrinare fino a quando giunge nella casa di Beatrice, dove trova una bambina gravemente malata che guarisce in seguito ad alcune preghiere. L'isterismo e la superstizione delle donne si sfogano chiamando Nazarin un santo e costringendolo a fuggire; ma Andala e Beatrice lo seguono e con lui, sopportando sacrifici e insulti, aiutano chi ha bisogno.Tuttavia la polizia arresta Nazarin e Andala mentre Beatrice, per non abbandonare i compagni, li segue in prigione. Qui Nazarin sopporta umiliazioni, botte e calunnie; quindi viene lasciato solo. Beatrice ritrova Pinto e lo segue mentre Andala resta con gli altri carcerati.

Critica 1:Dal romanzo (1895) di Benito Pérez Galdos: intorno al 1900 nel Messico feudale del dittatore Porfirio Diaz, Nazarin è un giovane sacerdote che vive povero tra i poveri, praticando fino all'eroismo la lezione evangelica. Le virtù che pratica, però, si rivoltano contro sé stesso e contro il suo prossimo. Il tema maggiore del film è chiaro: l'innesto di don Chisciotte in una parafrasi della passione di Cristo: per Buñuel, anche applicato con eroismo, il cristianesimo non può cambiare il mondo. Ideologia a parte, è ammirevole per la sincerità e la passione che lo animano, il controllo dello stile, l'esatto disegno dei personaggi, la limpidezza espositiva. Insolitamente sobrio il bianconero di Gabriel Figueroa. Premio speciale della giuria a Cannes 1959. Opera capitale nel percorso di Buñuel, contrassegnata da un "pessimismo radicale che si alimenta di una costante tensione tra volontà e casualità dove a prevalere, alla fine, è sempre la seconda" (Auro Bernardi).
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Il romanzo Nazarín di Benito Pérez Galdós, uscito nel 1895, era ambientato in Spagna o meglio nella Mancha, la patria di quel don Chisciotte che voleva essere l'esplicito riferimento per il nuovo cavaliere errante della carità cristiana. Buñuel sposta di poco la vicenda nel tempo ma molto nello spazio: nel Messico di Porfirio Díaz, il dittatore poi rovesciato dalla rivoluzione zapatista di cui era nostalgico il cieco di Los olvidados e anche tutto quel cinema messicano in costume che fu detto appunto “porfiriano”.
Le riprese, ricordava Buñuel, si erano svolte nei “bellissimi villaggi” della regione di Cuautla, vicino al PopocatepetI, paesaggio che tuttavia egli mostra come uno dei suoi soliti territori desertici e selvaggi. Nonostante la presenza di Gabriel Figueroa, che tornava a lavorare con lui dopo Él, ed è sul set di Nazarín che infatti il regista colloca l'aneddoto, non si sa quanto autentico, dell'inquadratura preparata in un modo, alla Figueroa, col vulcano sullo sfondo e le nuvole bianche in cielo, e poi realizzata nel senso e nel modo opposto, alla Buñuel. Ma mentre si girava furono realizzate anche delle belle riprese a colori del backstage, che suggeriscono un'altra immagine ancora, virtuale, del film e del suo paesaggio.
A parte l'ambientazione Nazarín resta però relativamente fedele al romanzo, almeno nello sviluppo narrativo, anche se nella visione misticheggiante di Pérez Galdós don Nazario Zaharín alla fine si ammalava di tifo e finiva delirante in un ospedale, tra visioni di Cristo e messe immaginarie. Avendo comunque ottenuto qualcosa: il “buon ladrone” del carcere si convertiva e anche Beatríz restava con lui. Anzi, i due personaggi riapparivano poi marginalmente in un suo romanzo successivo.
Buñuel e lo sceneggiatore Julio Alejandro, oltre a eliminare queste soluzioni troppo positive, introducono nella vicenda gli episodi “sociali” del cantiere e dell'incontro col colonnello e il contadino. E non può che essere buñueliana l'idea del mendicante cieco e (perciò) non riconoscente a cui don Nazario fa l'elemosina all'inizio del film. Inoltre vi sono temi ed episodi che rivelano almeno nel trattamento un'ispirazione assai lontana dal mondo di Pérez Galdós: il mai dimenticato Sade di Justine, colei che aveva verificato su se stessa “gli infortuni della virtù” e, per la donna che muore di peste rifiutando il conforto religioso, del Dialogo di un sacerdote e un moribondo, un testo particolarmente amato da Buñuel che lo cita esplicitamente come modello di questa scena e che riprenderà anche in seguito.
Rimane comunque, nel passaggio dal libro al film, l'analogia di base, quella fra la vita e la passione di padre Nazario, Nazarín o Nazareno, e la vita e passione di Cristo. Nazarín che si mette in cammino seguito da discepoli raccolti fra la gente più umile. Nazarín che compie miracoli ed è riconosciuto dalla gente stessa come un santo, con un fanatismo che egli disapprova ma non contrasta. Nazarín che si ritroverà, nel luogo del suo supplizio, con quella benda con cui si è fasciato il capo dopo le percosse simile a una corona di spine, circondato da due “ladroni”, il cattivo e il buono. Poiché anche i personaggi minori sono accostabili a figure evangeliche: da Andara, prostituta come Maria Maddalena, alla donna impietosita che, come la Veronica che asciugò il volto di Cristo sulla via del Calvario, offre al condannato un frutto interrompendo per un istante il suo cammino verso la condanna. Nazarín, dopo una breve esitazione lo accetta, accettando con esso l'umiltà del ricevere, più ammirevole del compiacimento del donare, e prosegue nella sua Via Crucis accompagnato da un rullare di tamburi che certamente sono gli stessi del finale di L’âge d'or, ma sono prima di tutto quelli di una ripetizione rituale della Passione, la processione della Settimana Santa di Calanda.
Questa scena finale, poi oggetto di infinite interpretazioni (rappre-senta una crisi di coscienza, o la scoperta del dubbio, o la reintegrazione nella realtà, o lo scacco della fede, o l'inizio di una via di ribellione?), fu in realtà improvvisata al momento: la sceneggiatura - e lo ricordava onesta-mente proprio Julio Alejandro - terminava con il passaggio inosservato del calesse di Pinto con Beatríz mentre la donna col carretto della frutta doveva essere semplicemente un elemento decorativo. Quanto a Buñuel, egli affermava cinicamente che la musica, quella musica così sua, era stata aggiunta per ragioni sindacali. Ma non è la prima volta che egli conclude un suo film lasciando allontanare il protagonista verso un luogo e un futuro imprecisato: Nazarín se ne va via da solo, a differenza di Archibaldo de la Cruz, e cammina diritto, a differenza di Francisco Galván, ma qualcosa in comune i tre personaggi forse ce l'hanno.
Mentre tra il don Zaharín del racconto e il don Nazario del film, apparentemente così simili, c'è una differenza radicale. L'identificazione fra Nazarín e il Cristo ha in Buñuel un segno algebrico opposto, è un capovolgimento proprio come quello operato sull’ nquadratura troppo bella, troppo santa, di Figueroa. Pérez Galdós, che aveva scritto il suo romanzo dopo una svolta religiosa, in un periodo “spiritualista” che si ritiene ispirato a Tolstoj, credeva veramente in quell'identità, vedeva in Nazarín un don Chisciotte utopistico e visionario ma anche, positivamente, un nuovo messia rifondatore del cristianesimo contro il declino e la corruzione della Chiesa ufficiale. Buñuel accetta l'analogia ma da non credente, da ateo cattolico quale è. Nazarín non è il Salvatore e anzi non salva proprio niente, semmai dove passa produce danni. La sua mansuetudine, la sua carità, la sua bontà sono controproducenti quando non disastrose. Sadianamente appunto, si assiste continuamente alle disavventure della virtù. Freudianamente a una serie infinita di atti mancati.
Tutto si rivolta contro le intenzioni del pio sacerdote: egli regala tutti i suoi averi a un cieco e questi si augura “che diventi più generoso”. Offre rifugio ad Andara, e lei gli brucia la stanza. Giunge in un cantiere e la sua generosità provoca una sollevazione e una sparatoria. Cerca di difendere un uomo e viene insultato e scacciato, cerca di aiutare un'appestata e viene respinto. Anche Beatríz alla fine lo dimentica o lo rinnega. Persino i cani gli abbaiano dietro di continuo. Eppure Nazarín non ha colpe, non fa nulla di male, anzi è l'unico buono sulla faccia della terra. Tutti gli altri sono ladri, puttane, assassini, soldataglia, appestati. Berciano, si insultano, si picchiano, si lasciano, si uccidono. Ma appunto, a cosa serve essere buoni? Forse solo quella lumachina che il prete si lascia scorrere sulla mano, in carcere, gli è riconoscente. Come dice il “buon ladrone”: tu sei buono, io sono cattivo, ma non serviamo a niente nessuno dei due, e siamo dunque la stessa cosa. Nazarín è davvero un povero Cristo, un beffardo capovolgimento di inquadratura sul figlio di Dio, un ritratto dissacrato come il Cristo ghignante che Andara vede in una sua allucinazione. E tuttavia proprio lei, che nel bruciare la stanza di don Nazario butta nel fuoco anche una statuetta di sant'Antonio, prima si preoccupa di togliere il Bambín Gesù che il santo teneva in braccio.
Ma se Buñuel certamente non aderisce al pensiero e all'atteggiamento del suo personaggio, e lo tratta con un misto di ironia e di pietà, è anche affascinato dalla sua sprovvedutezza, dalla sua disarmante incapacità di comprendere, dalla sua sublime ottusità. Nel cantiere ci si spara e lui, con la testa chissà dove, pensa a raccogliere un ramoscello di un arbusto. Tra le due donne che se lo disputano sceglie di accarezzare una chiocciola che gli scivola sulla mano: gesti sciocchi e poetici. Nazarín è uno stupido e un santo, e dunque un poeta. Come il Francisco di Él, come Robinson, come Archibaldo de la Cruz, come poi Simon lo stilita, è uno che esagera, che vive oltre il buon senso della realtà. La santità è sempre stupidità e grandezza. La cocciutaggine, come quella di Ujo che continua a ripetere ad Andara il suo patetico “ti stimo”, ha qualcosa di ammirevole e di grande.
Certamente Buñuel vede più in là del suo personaggio, e attorno al ritratto a tutta grandezza del povero santo dipinge tante piccole figure terrene, come quelle delle predelle delle pale d'altare medievali. Oltre l'amore divino vede l'amore terreno: quello di Lucia e del suo fidanzato, che si amano in mezzo alla tragedia e alla morte, senza curarsi d'altro, in maniera davvero surrealista. Ma anche quello di Beatríz per il brutale Pinto, che la tratta da schiava ma la cerca di continuo, e che lei sogna con aria estatica e rivede in un abbraccio passionale, in un'immagine addirittura deformata dalla febbre e dalla malattia amorosa, in cui gli morde un labbro fino a farlo sanguinare. Quello del nano per Andara, coraggioso, privo di pudore, pervicacemente dichiarato. E soprattutto quello di Beatriz e Andara per il prete, che egli non sente e non comprende ma che per le donne, che vivono di sentimenti, è altrettanto importante della loro “conversione” e scoperta della spiritualità.
Buñuel ama tutte queste figure grottesche, deformi, volgari che circondano il poco amabile padre Nazario e la rigidità certamente coltivata del suo interprete Francisco Rabal, e costruisce tutto il film sul rapporto fra carne e spirito, fra concretezza e utopia, come in quel movimento di macchina che prima inquadra la statuetta di sant'Antonio e poi scende verso una bottiglia di tequila appoggiata sotto di essa. Buñuel sa che alla fine è la volgare realtà a prevalere, ma che essa non può non passare per l'immagine religiosa, per l'utopia della santità. E fra il Nazarín uomo e il Nazarín prete o santo non sceglie come forse le sue idee imporrebbero. Il primo lo intenerisce con la sua semplicità e stupidità, ma l'altro lo affascina con il suo estremismo e la sua cocciutaggine.
Per questo, come tutti i migliori o più completi film di Buñuel, Nazarín è un intreccio fra immagini scabre, inquadrature pesantemente fisiche, dettagli materiali, e immagini mentali, visioni deformate, isteriche e deliranti. I corpi vengono in primo piano, nella spalla denudata e ferita di Andara, nello spudorato dimenar di gambe delle donne che litigano, nei piedi nudi della donna morta di peste che escono dalla coperta. Una bambina malata è filmata già come un cadaverino, immobile e senza traccia di vita, come quella di Las Hurdes. O come uno dei tanti oggetti che occupano intere inquadrature, dalle uova della Prieta agli stivaletti di Andara che Nazarín allontana con un calcio, al sacco che, come altri falliti buñueliani, si è buttato sulle spalle.
Ma questo cinema di corpi e di cose è anche attraversato da inquadrature allucinate e da comportamenti deliranti che vi introducono la dimensione del surreale. Andara, ferita e sofferente, vede trasformarsi un Ecce homo appeso nella stanza di don Nazario in un Cristo con la corona di spine e una corda al collo e ai polsi ma che sghignazza sguaiatamente. L'immagine è attribuita a Clovis Truille, già truccatore di manichini e pittore vicino ai surrealisti, sempre attirato da soggetti antireligiosi: è suo il famoso disegno, pubblicato nel 1932 su “La révolution surréaliste” e riprodotto in genere anonimamente, di una monaca con la sottana alzata che mostra le gambe e le calze di seta nere. Ma che il quadro sia stato realizzato o no su diretto suggerimento di Buñuel, certo è che già l'aveva “dipinto” lui stesso, in una “macchia” della sua Giraffa del 1933: “Una magnifica foto della testa di Cristo con la corona di spine ma che si sta sganasciando dalle risate”. Anche la decisione della prostituta di purificare la stanza con il fuoco genera una serie di immagini e gesti assurdi. Come paiono assurdi certi gesti del prete, che si incanta davanti a un ramoscello o a una lumachina attribuendo a essi uno statuto non più oggettuale ma quasi onirico. E in ogni caso quello fra il ramoscello e gli spari è uno di quei “raccordi surrealisti” che Charles Tesson ha visto come tipici del linguaggio buñueliano.
La sequenza più febbrilmente visionaria è però quella già ricordata in cui Beatríz rivede, deformato dalla rabbia e dal desiderio, il suo rapporto con l'amante, seguita subito dopo dall'“oggettiva” del suo attacco isterico. Col suo corpo la donna disegna un “grande arco” da manuale freudiano (la vicenda si svolge fra l'altro proprio negli anni dei principali scritti di Freud sull'isteria) e anche più avanti, quando sua madre le farà capire la natura della sua attrazione per il prete (“tu lo ami come uomo”), un nuovo attacco diventerà la “riproduzione allucinatoria” del desiderio rimosso. Le scene di isteria sono insomma quelle in cui si congiungono la linea fisico-oggettuale e quella mentale-visionaria del film, i momenti incandescenti dell'incontro fra realtà e surrealtà.
In altri casi il rapporto è più dislocato nel tempo. Il tipico uso buñueliano di aprire le sequenze con un dettaglio e poi allargare il campo qui è quasi sistematico. Il carrello avanti o indietro è un continuo passare dal concreto all'astratto, dall'oggetto all'azione. O spesso al vuoto, al paesaggio desertico, al villaggio svuotato dalla peste. Dove passa soltanto una bambina rimasta sola, che cammina trascinando un lenzuolo, in un'inquadratura di desolata bellezza. Silenzi, latrati, rintocchi di campane a morto. Nel discorso sulla povertà l'immagine può o deve essere spoglia ma i dispositivi formali restano di straordinaria ricchezza.
Ma nella prima parte del film le inquadrature sono ancora piene e brulicanti. Animandosi, le antiche stampe porfiriane diventano meno immagini della realtà che un teatrino del sociale, una costruzione in studio che consente una grande varietà di scorci, inquadrature e incorniciature, rapporti fra particolari e totali, fra interni ed esterni. È qui, in questo spazio artificiale in cui si entra passando dalle finestre e in cui preti e prostitute vivono sotto lo stesso tetto, che si inizia il discorso politico e sociale, presente in Nazarín come in tutti gli altri film di Buñuel di questi anni, tutti ambientati in Paesi e regimi autoritari. Lo Stato dittatoriale - e qui vediamo, inquadrato a lungo, un ritratto di Porfirio Díaz - si maschera con le consuete velleità modernizzatrici, mandando ingegneri ed elettricità dove ben altri sono i problemi. Ma i suoi fondamenti sono colonnelli, signore, autorità, preti che fanno colazione con cioccolata e brioche. Padroni, contro cui lottare e rivoltarsi. E tuttavia proprio l'episodio del cantiere, mentre espone un problema reale, è fra quelli che suggeriscono anche il fascino delle soluzioni sbagliate. Il crumiro don Nazario non capisce, agisce in maniera censurabile, ma sbagliando è diverso, più interessante e più poetico di quelli che sono dalla parte giusta. Attraverso Nazarín Buñuel si può permettere di affermare idee che forse sente “scorrette” e che razionalmente non condivide ma che gli si affacciano alla mente, diverse e attraenti.
E con Nazarín, e per bocca ora di una puttana come qualche anno prima era avvenuto con un selvaggio, egli ricomincia a fare e farsi delle domande che - come in Andara rivelano un desiderio di sapere e forse di cambiare vita - in lui rivelano il desiderio di un altro cinema, più riflessivo, più poetico, più intellettuale.
Autore critica:Alberto Farassino
Fonte critica:Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini & Castoldi
Data critica:

2000

Critica 3:
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Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Nazarín
Autore libro:Pérez Galdós Benito

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