Blow Up - Blow Up
Regia: | Michelangelo Antonioni |
Vietato: | 14 |
Video: | L'unita' Video (Gli Scudi) |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Michelangelo Antonioni, ispirato al racconto "La bava del diavolo" di Julio Cortazar |
Sceneggiatura: | Michelangelo Antonioni, Edward Bond, Tonino Guerra |
Fotografia: | Carlo Di Palma |
Musiche: | Herbert Hancock |
Montaggio: | Frank Clarke |
Scenografia: | Assheton Gorton |
Costumi: | Jocelyn Rickards |
Effetti: | |
Interpreti: | Vanessa Redgrave (Jane), Sarah Miles (Patrici), David Hemmings (Thomas), John Castle (il Pittore), Jane Birkin (una ragazza), The Yardbirds (se stessi), Veruschka (prima modella) |
Produzione: | Bridge Films |
Distribuzione: | Istituto Luce |
Origine: | Gran Bretagna - Italia |
Anno: | 1966 |
Durata:
| 110’
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Trama:
| Thomas, un fotografo annoiato del fascino sensuale delle modelle che passano nel suo studio e nella sua vita, per reazione si propone di realizzare un fotolibro che vuol essere uno studio della vita di Londra in tutta la sua realtà. Attratto dalla calma che vi regna, si sofferma in un parco dell'East End e qui riprende le effusioni sentimentali di un uomo e di un donna; quest'ultima se ne accorge e lo insegue fino a casa per chiedergli la consegna della pellicola: è così disperata da offrirsi a lui, pur di riaverla. Con un trucco Thomas sostituisce il negativo, quindi comincia a sviluppare e ad ingrandire le fotografie. Vengono in tal modo alla luce alcuni particolari, come la mano di un uomo che tiene una pistola ed una strana ombra sull'erba che potrebbe essere un cadavere. Non sapendo se è stato testimone di un delitto o se lo ha evitato, Thomas ritorna di notte nel parco e trova veramente un cadavere, che tuttavia il giorno dopo non c'è più. Egli non riesce quindi a trovare la verità di ciò che la sua macchina fotografica ha visto e rimane così in balia di se stesso a misurare l'indistinto confine che separa la certezza dalla realtà.
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Critica 1: | Liberamente tratto dal racconto La bava del diavolo di Julio Cortázar, Blow-up è un film ricco di simbolismi (basti pensare alla partita di tennis mimata con cui si conclude) e affascinante proprio per questo. Certo la sceneggiatura di Antonioni e Tonino Guerra non è strutturata benissimo, con molti punti oscuri e qualche leggerezza di analisi, ma forse sono stati proprio questi aspetti che ne hanno fatto uno dei manifesti cinematografici della cultura pop. La visione della "swingin’ London" è accattivante e il regista ne approfitta per fare uno studio sull’immagine e sulla sua percezione (non a caso il protagonista è un fotografo, voyeur per eccellenza). (…) Le scene in cui il protagonista interpretato da David Hemmings fotografa l’allora quotatissima modella Verushka sono entrate nella storia del cinema, ma la sequenza migliore è quella in cui Thomas stampa le fotografie dell’omicidio, sequenza che pare un trattato di montaggio cinematografico. Palma d’oro a Cannes, nastro d’argento per il film straniero (coproduzione inglese), nomination all’Oscar per la regia e la sceneggiatura. La fotografia è di Carlo Di Palma e le musiche sono del genio di Herbie Hancock. |
Autore critica: | Alberto Cassani |
Fonte critica | Film&Chips |
Data critica:
| 17/7/2003
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Critica 2: | Blow up, presentato stasera al festival di Cannes sotto bandiera inglese, e accolto con grandi applausi, non è il miglior film di Antonioni, e Dio vi guardi dal dar retta a chi lo considera il più bel film di tutti i tempi. Ma c’interessa come un forte contravveleno espresso dal seno stesso della civiltà dell’immagine.
L’idea-guida del film, se si possono chiedere idee ad Antonioni, anziché sensazioni e atmosfere, ha qualche secolo: le cose che vediamo con gli occhi sono davvero tutta la realtà, oppure ciò che colpisce il nervo ottico (e, per delega, l’obiettivo fotografico) è soltanto un aspetto del reale? E' chiaro che Antonioni non ha la presunzione di rispondere a questi antichi interrogativi. Blow up si contenta di dirci che oggi essi si ripresentano con urgenza perché c’è tutta una zona della società che tende a identificare la realtà col segno concreto da essa lasciato; e fa l’esempio di un delitto, che può anche sembrare non avvenuto se non restano prove. Chi credesse d’esserne stato testimone involontario, e d’averlo fotografato, potrebbe convincersi che è stata un’illusione ottica, se poi gli fossero sottratte le prove fotografiche e scomparisse il corpo del reato. Costui, allora, sarebbe il simbolo dell’uomo contemporaneo, che di fronte alla difficoltà di conoscere il vero filigranato dentro il visibile accoglie il gioco della vita come una finzione e annulla nell’automatismo dei gesti (come il fotografo negli scatti frenetici delle sue macchine) l’angoscia per l’inconoscibile problematicità del reale.
Per dare evidenza a una metafora in cui si esprime, ambiguamente, lo sdegno e l’attrazione che Antonioni prova nei confronti della civiltà moderna, Blow up è ambientato fra quei fotografi alla moda che con gli isterici clic dei loro obiettivi credono di sopperire alla propria passività sentimentale, e in quell’happening che è la Swinging London, la Londra dei giovani che tentano di vincere la noia con la marijuana e gli allucinogeni, scatenati nei balli, nei riti pop e op, anime vuote e sessi interscambiabili. Thomas, il protagonista, è appunto uno di loro: un fotografo di successo, specializzato in istantanee di cronaca e in ritratti di cover-girls, sempre affamato di soldi, benché possa già permettersi la Rolls Royce, e tanto concitato nel lavoro, di modi bruschi con le sue modelle, quanto privo d’autentica energia spirituale.
Gli accade, seguendo una coppia in un parco, di fotografare un abbraccio. La donna se ne accorge, e più tardi lo rincorre nello studio implorandolo di darle il rotolino: offre se stessa, pur di riaverlo. Thomas finge di accettare; le consegna un rotolino simile a quello incriminato, e si disporrebbe, senza entusiasmo, a godersi la ragazza, se in quel momento non suonassero alla porta: è in arrivo un’elica di aereo, che Thomas ha acquistato da un antiquario per dare un tocco bizzarro all’arredamento del suo studio. Partita la donna, ingrandisce le fotografie prese al parco (blow up vuoi dire appunto ingrandimento), e s’accorge che quanto non avevano visto i suoi occhi è stato registrato dalla macchina: sulla pellicola, ingrandendo progressivamente i particolari, appaiono infatti un volto nascosto nei cespugli, un’arma e un corpo riverso. Tutto fa pensare che la donna abbia attirato la vittima in un trabocchetto.
Thomas comincia a chiedersi cosa fare quando arrivano due grulline che già in mattinata gli avevano bussato alla porta, nella speranza di essere assunte come modelle. In altri tempi sarebbero state due esempi di adolescenza traviata: ora rappresentano la gioventù londinese attratta dai facili successi. Scherzando, si spogliano a vicenda: è una distrazione accolta da Thomas con allegria, in un fracasso che cancella ogni piacere erotico. E dopo l’uso le caccia: il pensiero dominante lo richiama verso il parco. Il sospetto era fondato: un cadavere è ancora sotto l’albero. Stordito, Thomas vorrebbe chiedere consiglio a un amico pittore, ma questi è occupato in intime faccende. Tornato a casa, nuova sorpresa: tutte le foto gli sono state rubate, meno una, la quale però, isolata dalle altre, più che costituire una prova assomiglia a una pittura astratta. Allora scende per strada. Intravede la donna del delitto, e rincorrendola s’intrufola in un night dove un chitarrista beat calpesta il proprio strumento e ne distribuisce gli avanzi alla platea urlante. La donna è scomparsa. In cerca d’un amico, Thomas arriva ad un cocktail, che in altri tempi si sarebbe detto un’orgia di viziosi, ed ora rappresenta la «dolce vita» londinese. All’alba, torna nel parco per fotografare il cadavere, ma questo è scomparso. Privo ormai d’ogni prova, Thomas può dubitare d’essere rimasto vittima, lui stesso, di un’allucinazione. Quando arriva un gruppo di giovani mascherati da clowns, che fingono, senza palla e racchette, un incontro di tennis, sta al gioco: il dinamismo della partita mimata forse vince ogni dubbio dell’anima o del pensiero.
A rigore, il film non dice che la scena finale sia la presa di coscienza della necessità della finzione, con relativo autocommiserarsi: Blow up, più d’ogni altro film di Antonioni, non contiene una tesi. C’è chi interpreta Thomas come un esempio virtuoso di perenne disponibilità all’azione, e c’è chi lo considera, per questo, un emblema della solitudine cui può condurre il pallore dei sentimenti. Un fatto è certo: che Thomas, mostrando totale sfiducia nell’ordine civile in cui vive, non si rivolge subito alla polizia, né alla fine del film ha più motivi di pace interiore di quanti ne avesse all’inizio: semmai ne esce desolato, versione maschile di tante infelici eroine di Antonioni. E per questa strada che forse si può cogliere l’antica malinconia di Antonioni, il quale ha ormai superato anche l’angoscia, toccando la suprema solitudine. Ma quando impareremo a smettere di cercare, in Antonioni, la morale della favola?
Teniamoci al film. Un giudizio sia pur frettoloso dovrebbe cominciare col rilievo che Antonioni, per rappresentare la Londra di oggi, ha avviato il suo Thomas su un itinerario molto simile a quello che Fellini fece compiere al protagonista della Dolce vita per scoprire la Roma di ieri; né con frutti molto più nuovi di certi documentari sociologici. (…) Tipico di Antonioni è invece lo sforzo di puntare il grosso della scommessa sul personaggio di centro. E da dire che Thomas solo talvolta è a fuoco. Descritto con tinte efficaci finché è in movimento, tutto scatti nevrotici (in una bella scena iniziale esce stremato da una serie di convulse riprese fotografiche: il suo surrogato dell’amplesso), finché comanda a bacchetta le sue modelle e si sfrena nello scherzo, Thomas poi s’annebbia quando comincia a scervellarsi sulle foto del delitto, e passa ore a contemplarle, a confrontarle, ad appuntarle sulla parete. Non si sa bene cosa gli passi per la mente, di che ordine siano le sue sensazioni. È l’oggettivazione di un torpore che se nella prima parte è interrotto dalla precipite parentesi dei giochi amorosi alla lunga si riflette nel film, guidato da un ritmo lento che affloscia il suspense. Passato dal cinema intellettuale al thriller, Antonioni sembra aver portato con sé il vizio dei tempi lunghi, dei silenzi poco espressivi, il rifiuto di quel gusto per l’ellissi in cui invece si esprime il meglio del cinema moderno.
Ma all’interno d’una cornice un po’ annosa e opaca, Blow up ha dei gruppi di sequenze riuscite: sono, all’inizio, tutte quelle del rituale cui sono sottoposte le modelle fotografiche; le visite al negozio dell’antiquario; lo svogliato rapporto con la donna venuta a riprendere il rotolino; la liturgia della camera oscura; la zuffa giocosa con le ragazzine (una data nella storia del cinema: un nudo femminile non depilato, chissà se ce n’era bisogno) e l’enigmatico finale, sul quale il pubblico si scervellerà: tutte scene che confermano certe bravure di Antonioni, ma anche, inserite nel tessuto del film, la sua difficoltà di sciogliere in fluente, spontaneo racconto acute intuizioni. (…) |
Autore critica: | Giovanni Grazzini |
Fonte critica: | Corriere della Sera |
Data critica:
| 9/5/1967
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Critica 3: | Per Deserto rosso parlammo di “crisi”. A questo punto Antonioni fa un apparente “salto”. In effetti, radicalizza il discorso. Blow-up si pone soprattutto come ricerca autonoma sulle strutture dell’operazione artistica, quasi emarginando la conflittualità. I temi tradizionali, i nuclei dialettici appaiono come disseccati o disciolti; la riflessione sulla forma (l’immagine, quindi anche il ruolo dell’arte, ecc.) conduce al momento più chiaramente mediato del regista, e proprio dietro le sembianze di una spontaneità nel procedimento narrativo (la scioltezza, la ricchezza delle immagini, l’improvvisazione, un film che si fa). Una prima lettura può appunto scoprire l’agile struttura del film, che appare come una sorta di “sospensione” di giudizio sulla realtà, accolta nel suo immediato manifestarsi. Anche ad un primo approccio, tuttavia, non si ha l’impressione che si tratti di un’opera libera, perché già si avverte quello che una più attenta analisi rivelerà, si scorgono gli interrogativi dietro le certezze, le zone d’ombra che permangono dietro lo sciogliersi delle immagini, vale a dire del “nuovo” (un aspetto che troveremo anche in Zabriskie Point). Ne esce un’opera ambivalente, dai piani ribaltati, con al fondo un sapore di mistificazione che può sembrare - e forse è - nuovo per il regista. L’immagine è presa per il tutto, come osservazione su alcune strutture della realtà. La casualità dell’arte del fotografo di moda diventa discorso di Antonioni su se stesso, sul senso della propria operazione, su quella costruzione che argina “l’irruzione dell’informe”. Dietro a ciò troviamo ancora, quasi dotati di una esistenza spettrale, i dissidi tradizionali dell’autore: il vecchio e il nuovo, sin dal principio (la sequenza del ricovero), e poi nell’ambiente, in alcuni personaggi (il venditore di robe vecchie), e ancora la morte-mistero, la morte sotto l’amore (la fotografia), i rapporti fungibili. Ma in evidenza è messo il carattere dell’ambiguità (la scoperta di un delitto attraverso l’ingrandimento di una fotografia è una vera scoperta? E il delitto è un vero delitto? Eccetera) non come punto di arrivo di una falsa neutralità, di una sospensione falsamente fenomenologica, quanto proprio di una “riduzione” che vuol eliminare gli aloni semantici per ricondurre l’attenzione ai momenti primi, recuperando le zone ritenute marginali della realtà.
Non è tanto questione di “obiettività” ma del valore obiettivo di far cinema come modo di affrontare la realtà. Uno sforzo di interrogarsi che si ribalta anche in finzione. È un modo, l’unico per l’autore, di chiedersi qual è il proprio ruolo, ma anche di “salvarsi”, per tirarsi fuori dalle difficoltà o darsi una giustificazione; per aprirsi e, in fondo, anche mentire. Il problema, dunque, è più complesso di quello che potrebbe sembrare se si considerasse il passaggio dal mondo alla sua immagine, cioè da Deserto rosso a Blow-up come un’evasione o un disimpegno. Ma il pericolo sta nella possibilità (o no) di superare le contraddizioni nello stile, di riproporre e sublimare nell’immagine i vecchi dissidi.
Antonioni infatti, in questa sorta di “ricapitolazione” in forma di interrogativo, sembra sciogliere i nodi tragici, portandoli alla sdrammatizzazione, alla totale laicizzazione. Questo riproporre anche le forme giustifica le citazioni interne: l’utilizzazione del traliccio del “giallo” (da Cronaca di un amore all’Avventura) come mezzo per scoprire e “incrinare”, per fare indagini (le foto iniziali di Cronaca); il recupero di un ambiente, quello dei Vinti; il tema del fotografo che ritrae la coppia (il cinema come scomposizione e analisi dei rapporti, tipico di Antonioni).
Blow-up è una sorta di nuovo vagabondaggio (una città, Londra) senza urli, osservato ponendosi alcune domande senza risposta. I vecchi temi sono visti senza toni patetici o angosce: penso per esempio all’erotismo, risolto in gioco (le due ragazze) o in naturalità (l’amico e la moglie). Ma il porre tutto sulla medesima superficie, senza spessori o sottolineature, come se fosse un film girato al “presente indicativo”, rende reversibili le radicate dicotomie (vero-falso, realtà-illusione). L’indifferenza si risolve in interrogativo, il protagonista che “scivola” sui fatti alla fine partecipa alla finta partita a tennis. (...) |
Autore critica: | Giorgio Tinazzi |
Fonte critica: | Michelangelo Antonioni, Il Castoro Cinema |
Data critica:
| 1976
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | |
Autore libro: | |
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