F for fake - Verità e menzogne - F For Fake - Verités et Mensonges
Regia: | Orson Welles |
Vietato: | No |
Video: | Elle U |
DVD: | |
Genere: | Documentario |
Tipologia: | Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | |
Sceneggiatura: | |
Fotografia: | Gary Graver, Christian Odasso |
Musiche: | Michel Legrand |
Montaggio: | Marie-Sophie Dubus, Dominique Engerer |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Joseph Cotten, Elmyr De Hory, Sasa Devicic, Andres Vicente Gomez, Gary Graver, Laurence Harvey, Clifford Irving, Oja Kodar, Christian Odasso, Julio Palinkas, François Reichenbach, Paul Stewart, Orson Welles, Richard A. Wilson, Françoise Windoff |
Produzione: | D.Antoine, F.Reichmbach e R.Drewett (Associato)Persaci - Les Films de l'Astrophore - Janus Film |
Distribuzione: | Non reperibile in pellicola |
Origine: | Francia – Iran – Germania Ovest |
Anno: | 1975 |
Durata:
| 85’
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Trama:
| Pseudo documentario sul paradosso, la bugia, l'assurdo. Gran parte riguarda lo scrittore Clifford Irving, che apparentemente lavora alla biografia del grande artista Elmyr De Hory, poi decide di scrivere invece una biografia di Howard Hughes...o si tratta di un falso Howard Hughes? Durante lo svolgimento del film non si sa a chi e a cosa credere.
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Critica 1: | L'inchiesta sul falsario ungherese Elmyr de Hory, specializzato in dipinti postimpressionisti, si intreccia con quella su Clifford Irving (il giornalista che sosteneva di aver incontrato Howard Hughes e di essere entrato in possesso della sua autobiografia) e diventa una riflessione più generale sul ruolo dell'arte e sui suoi rapporti con la realtà condotta da Welles in prima persona rievocando la propria carriera. Pensato a partire da un documentario incompiuto di François Reichenbach sui falsari, il film è un brillantissimo, ma disilluso, testamento sull'inutilità dell'arte, a cui non sembra disposto a concedere alcuna funzione sociale, storica o culturale. Da questa riflessione «verbosa, narcisistica, incontinente, ma affascinante» sui rapporti tra arte e vita Welles esce come un abilissimo falsario che paragona il cinema a «un gioco di furbi castelli e specchi e rimandi»: come dice lui stesso, «la mia carriera è cominciata con un falso, l'invasione dei marziani. Avrei dovuto andare in prigione. Non devo lamentarmi: sono finito a Hollywood!». Il montaggio pirotecnico poi (foto fisse, disegni, immagini di repertorio, riprese documentarie: comunque materiali “poveri”), ingigantisce e aumenta gli aspetti di struggente, autobiografica malinconia del film, ennesima dichiarazione di sconfitta di un regista che sembra divertirsi a prendere le distanze dalla propria opera e da se stesso. |
Autore critica: | Paolo Mereghetti |
Fonte critica | Dizionario dei film |
Data critica:
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Critica 2: | Passato, se non sbaglio, solo una volta in Italia, F for Fake (letteralmente: F come falso) è un " riassunto " del programma artistico seguito da Welles, costretto - nel corso della sua carriera avventurosa - a improvvisare, a inventare, a " turlupinare " (con gioia, sua e nostra, per le irrisioni irrispettose ai limiti dell'umana capacità di comprendere) produttori, critici, attori, pubblico, amici: tutti, insomma. Alla fine - più vanno avanti gli anni e più questa costante si rafforza - resta solo lui, con quel beffardo e misterioso sorriso appena accennato. Che sia sempre stato un imbonitore (però, non un venditore di aria fritta; tutt'altro, anzi), un amabile " ciarlatano ", non v'è dubbio, e lui stesso lo ha più volte confermato - ovviamente fra il serio e il faceto, come sempre, tanto per lasciare ancora un dubbio. È un po' come la cosiddetta «fine per gli allocchi» di Kane, quando buona parte del pubblico invariabilmente comincia ad alzarsi quando la "camera" galeotta mostra che il sospirato «Rosebud» non è altro che il nome dello slittino infantile del "boss", che, subito dopo la sua morte, è impietosamente bruciato da mani troppo "volgari" per osservare e risolvere l'enigma.
(...) F for Fake può essere, nello stesso tempo, un « saggio personale sulle interrelazioni tra arte, denaro e ciarlataneria » (McBride), una "summa" della sua opera, in cui il "maestro" Welles - gran mago di cerimonie nel gioco della vita - raccoglie le costanti del suo cinema in un anelito accorato, nel momento in cui il Cinema sembra essere morto. Proprio come ha dichiarato di fronte a duemila persone, nel '77, quando ha già venduto tutte le royalties del film ed è triste per la notizia del suicidio di De Hory, uno dei personaggi-chiave di F for Fake, ma vuole intervenire alla "prima" americana: «Forse siamo giunti alla fine del cinema. I film sono lenti, costosi, e quando arrivano sullo schermo appartengono già al passato . . .».
(...) Per Jean Renoir, F for Fake rilancia allo spettatore un quesito da sempre irrisolto: «Che cos'è l'arte?». Welles, col film, gli risponde evidentemente che «è una forma di magia, di illusionismo, forse un trucco, certo un insieme di verità e menzogna, di vero e falso». E così siamo daccapo. C'è, però, anche un momento interlocutorio in questo gioco di verità e menzogna, quando Welles, avvolto nel mantello nero di fronte alla cattedrale di Chartres, celebra emozionato «la più grande realizzazione umana, forse, di tutto l'Occidente, e senza la firma di nessun autore». Ma, in questa disarmonia prestabilita, la "confusione" (più che la contraddizione) regna sovrana: F f or Fake si apre con Welles che fa giochi di prestigio davanti ad alcuni bambini - come ricorda Paolo Mereghetti - «che introducono le uguaglianze Attore = Ciarlatano = Imbroglione = Mago». (…)
Welles, poi, inserisce e monta le storie parallele di De Hory e di Irving che si incrociano scambievolmente, però «allargando ogni tanto il discorso alla passività e al voyeurismo con cui le persone accettano e guardano incantati ogni spettacolo (quindi ogni trucco e imbroglio) che passa davanti ai loro occhi (per questo ha filmato una novella di Oja Kodar, The Girl Watchers, che racconta di una donna piuttosto formosa, interpretata dalla stessa Kodar, ossessionata dagli sguardi degli uomini)». Ma la questione non è ancora finita lì: c'è anche il tempo di inserire un'altra storia, un "omaggio" a Picasso, sedotto dal camminare felino di Oja Kodar, che la "spia" - a fotogrammi fissi e virati in blu - da dietro una veneziana della casa di Vallauris e che ha ritratto in ventidue quadri, poi falsificati dal nonno di lei. Il nonno, in punto di morte, riceverà la visita di Picasso e riuscirà a convincerlo a non denunciarlo (è Mereghetti che riporta il dialogo): «" Dovrei confessare?", gli chiede il vecchio. "Confessare che cosa? Che ho dipinto dei capolavori? Sarebbero strappati dai muri. Cosa resterebbe di me? Prima di morire ho bisogno di credere che l'arte è una realtà! "».
Proprio come quando, con estrema dolcezza e innocenza, De Hory spiega di dover far tremare più del dovuto la mano mentre "esegue" un Matisse - che potrebbe far meglio ma non può, per ovvi motivi. E il caravanserraglio di Welles potrebbe ripetersi all'infinito - anche se alla fine sono tutti " sconfitti ", da Welles «nella piazza solitaria, avvolta da una lieve coltre di bruma, dove il vecchio ciarlatano intabarrato (ancora Arkadin) si aggira come un sopravvissuto»; a Elmyr che, nonostante tutto, dipende dalla critica, dal mercato e dalla " tradizione " (infatti, «bastano vent'anni di esposizione in un museo a livellare prezzi e valori»); o come l'altro tanghero, Hughes, il " sepolto vivo " in un ambiente rigorosamente asettico e climatizzato, vivo vocalmente (e il resto?) solo attraverso gli altoparlanti e di cui - è ancora Ferrero - alla fine «restano cataste di quadri e di rotoli di pellicola, catalogati nei sacrari della merce, o come il volto di Jane Russell, inopinatamente ritrovati tra fotografie ingiallite e ritagli stampa (il cinema, si sa, è più labile e meno " nobile ")». Certo, contro tutti e tutto, resta però quella cattedrale di Chartres tanto " amata " quanto " irrisolta ": probabile anche che siano gli specchi di The Lady from Shanghai che ritornano o, meglio, gli acquari con le sagome deformate e ingrandite dei pesci a " schiacciare " (e forse a uniformare, quindi) tutta la novità del discorso dell'autore. «Perché - ha scritto Ferrero - la " verità " è degli altri, che la tengono e vi si tengono stretti; ma la " menzogna ", al solito, ne rovescia l'arroganza in inesistenza, ne schernisce la pretesa di supremazia». Intanto l'ora di verità promessa da Welles è già passata, e il vecchio marpione ha ricominciato già da un po' a " barare " e a imbrogliare. E ancora una volta siamo daccapo. |
Autore critica: | Claudio M. Valentinetti |
Fonte critica: | Orson Welles – Il Castoro Cinema |
Data critica:
| 11/1980
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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