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Yol - Yol

Regia:Serif Goren; Yilmaz Guney
Vietato:No
Video:Biblioteca Decentrata Rosta Nuova, visionabile solo in sede
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti umani - La politica e i diritti
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Yilmaz Guney
Sceneggiatura:Yilmaz Guney
Fotografia:Erdogan Engin
Musiche:Sebastian Argol Kendal
Montaggio:Yilmaz Guney
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Tarik Akan, Hale Akinli, Necmettin Cobanoglu, Serif Sezer
Produzione:Edi Hubshmid K. L. Puloi G. F. Cactus
Distribuzione:Academy
Origine:Turchia
Anno:1981
Durata:

109'

Trama:

Cinque detenuti turchi ottengono, dopo lunghi anni trascorsi in carcere, il sospirato permesso di otto giorni di licenza. Dei cinque, il più giovane, un po' svanito, non termina neppure il suo viaggio d'andata. Ha smarrito le sue carte. Fermato a un posto di controllo, finisce in carcere e la sua avventura si conclude miseramente. Gli altri quattro raggiungono le loro famiglie e i loro clans in diverse regioni della Turchia. Omer, uno dei detenuti, giunge nel suo villaggio del Kurdistan, ove i partigiani sono sempre in lotta contro i militari. La frontiera con la Siria é vicina. La sua decisione è presa: non ritornerà in prigione. Si darà alla macchia coi ribelli e forse la sua clandestinità finirà con la morte. Melvüt ritrova la sua fidanzata e i suoi genitori. Fa l'esperienza di passare da una vita sorvegliata, quella della prigione, a un'altra vita sorvegliata che lo addolora più intimamente: quella dell'ambiente familiare. I giorni trascorrono ed egli prende coscienza dell'oppressione di certi usi e costrizioni, che gli impediscono di sentirsi un uomo libero. Mehemet Salih finisce ucciso dal giovane cognato, quando tenta di fuggire in treno con la sua donna e i suoi bambini, scoperto durante una scena d'amore, che suscita una reazione furiosa nella gente, dominata da impietosi pregiudizi. Infine Seyit Ali, lasciando la prigione, sa che la sua donna l'ha tradito e che deve, secondo la legge di famiglia, ucciderla per riparare l'onore perduto. Le scene, ambientate sulle montagne battute dalla tormenta invernale, sono altamente drammatiche. La donna muore infatti, congelata, in una specie di "giudizio di Dio", dopo una lunga e crudele agonia, nonostante l'estremo soccorso prestato dal marito. Dopo queste scene di estrema tensione, il film si placa lentamente e conclude con la decisione di Omer di darsi alla clandestinità, e col suo grido: "Bisogna battersi!".

Critica 1:Caso più unico che raro di un film scritto in carcere da un regista n. 1 del cinema turco , girato dal suo ex aiuto e amico Goren (1945) su precisi suggerimenti epistolari e infine montato in Svizzera dallo stesso Guney (1937) che, nel frattempo, usufruendo di un permesso, era evaso. Appassionato film in presa diretta sulla realtà sociale e politica della Turchia in regime militare, svolge con linguaggio limpido, severo ma non mai greve, un discorso sulla continuità tra il "dentro" e il "fuori" del carcere: l'uno è il seguito e il complemento dell'altro. Caso raro di un film in cui la passione non esclude la riflessione. Palma d'oro a Cannes 1982 ex aequo con l'americano Missing di Costa-Gavras. Yol in turco significa strada, ma anche direzione, via d'uscita. "Bisogna battersi", dice Omer il curdo, e sono le ultime parole del film.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:(...)Yol è forse il film che ha per protagonisti alcuni detenuti e che meno mostra i penitenziari: è tuttavia più claustrofobico del film d'ambiente carcerario. Le mura del penitenziario dell'isola di Imirai, fatte di pietra e mattoni, appena abbandonati, si ripresentano subito nell'immensa penisola anatolica sotto forma di servitù e costrizioni politiche, ideologiche e religiose. Non a caso il titolo non evoca esplicitamente il carcere o i carcerati ma il luogo di raccordo delle tante carceri disseminate lungo il paese: yol vuoi dire strada, strada asfaltata, ferrata, in terra battuta, strada nella quale si incontrano mille prigionieri, non tutti consapevoli del loro stato. A questa condizione di vita nessuno dei protagonisti riesce a sottrarsi: non solo la licenza di cui godono è a termine, ma non rappresenta per loro neppure una parvenza di libertà.
Seyit, il marito della donna che si è prostituita, si sottrae per una settimana al regolamento carcerario per obbedire a un ben più oppressivo codice, quello dell'onore: la morte della donna segnerà la sua irreparabile condanna morale. Mevlut è costretto dalla tradizione ad esprimere la sua sessualità in un bordello, un luogo di alienazione più tragico della prigione: avvertendolo, chiede una camera che non abbia il numero della sua cella. Yusuf non gode neppure per intero della sua effimera licenza e si limiterà a sognare la sua sposa da una guardiola dei militari, attraverso una fotografia involontariamente ironica. Un destino non troppo dissimile incontrano i due personaggi capaci di un atto di coraggio: Melmet, che ribalta l'antica viltà nel riconoscimento dei suo errore, subisce la spietata punizione del clan; Omer, che è addirittura capace di un gesto di ribellione (non intende ritornare in carcere) e di una scelta rivoluzionaria (combatterà sui monti con i suoi connazionali curdi contro il potere straniero rappresentato dall'esercito turco), dice addio alla ragazza dalla quale si sentiva attratto per ereditare, secondo il codice patriarcale, la moglie del fratello morto.
Cinque uomini, cinque destini per ricostruire il paesaggio sociale e morale della Turchia subalterna. Il realismo di Güney e Gören è a un tempo etico ed estetico. La polemica si indirizza più contro l'eredità feudale che contro la repressione di un certo regime. Yol sottolinea il minimo indispensabile che le libertà civili sono state stracciate dall'esercito il 12 settembre 1980; e non a caso: a beneficiare delle passate libertà era soltanto una classe di privilegiati, e l'esercizio di quelle libertà in Turchia è sempre stato intermittente. La repressione esercitata dal generale Evren è illustrata senza enfasi né accenti melodrammatici: bastano l'onnipresenza degli agenti, i posti di blocco, il coprifuoco. D'altra parte, i gendarmi più spietati, in questo Terzo mondo turco, vestono abiti civili. Gli uomini in divisa, come i controllori del treno, possono anche rappresentare la razionalità e la tolleranza di fronte ai passeggeri inferociti, in nome dell'integralismo islamico, e potenzialmente assassini.
Lo sguardo amaro di Güney e Gören e la severità del loro giudizio non si trasformano mai in una professione di fede manichea. Se gli uomini sono vittime e inconsapevoli protagonisti di una tradizione di violenza, le donne assommano a questo dramma collettivo la loro sudditanza al maschio. Tutte o quasi sono colte nel loro stato di eterna soggezione, sono vittime rassegnate cui non è dato nemmeno lontanamente vedere un futuro diverso. Ziné, la moglie che si è prostituita, chiede pietà ma è convinta che la pietà non sia sufficiente a cancellare la colpa di cui si è macchiata. La vedova curda viene ereditata in moglie da Omer senza che tenti di manifestare un segno di consenso o dissenso. La fidanzata di Mevlut apprende l'arroganza maschilista dei futuro sposo senza neppure riconoscerla come tale. La moglie di Melmet osa ribellarsi al senso dell'onore coltivato da suo padre e dai suoi fratelli e segue il suo istinto raggiungendo il marito. Ma pagherà con l'umiliazione la sua fuga e con la morte il suo coraggio.
Quest'angoscioso paesaggio sociale è completato da una schiera di bambini. Per lo più sono presenze marginali, semplici spettatori delle violenze più crudeli. Ma sono anche precoci allievi dei mondo degli adulti, dei quale imitano gli usi (i bambini che fumano sui marciapiedi) e dal quale accettano le regole comportamentali (il figlio di Seyit ha già ereditato dal padre e dal nonno il potere maschilista).
La capacità di analisi degli autori è documentata anche dall'attenta comprensione offerta ai luoghi di prigionia dei cinque protagonisti, simili tra loro ma non uguali. Si ripresenta qui li conflitto tra le due culture, l'europea e l'asiatica, che il film esemplifica nell'opposizione città-campagna, un'opposizione oggi particolarmente drammatica in Turchia a causa del forte movimento migratorio dello scorso decennio. Luci e ombre sono disposte con uguale impegno. La città costituisce un rifugio rispetto a un mondo rurale di violenza, sfruttamento, integralismo. Nelle sue vie si dissolve il fervore superstizioso e si laicizzano le tensioni. Risultano possibili solidarietà, come quella tra Melmet e l'amico ferito, che non si fondano sull'origine regionale, ma sui legami di classe e la consapevolezza di una comune precarietà. Ma il pedaggio per percorrere queste vie è caro: l'accettazione di un modello occidentale che nega le specificità culturali che l'universo rurale aveva conservato. Il villaggio, all'opposto, è il luogo della tradizione nazionale, della cultura contadina, della personalità collettiva. Omer in esso riscopre un'esaltante fonte d'identità, degna di venerazione, matrice di sogni. Ma Seyit e Melmet ritrovano nei loro villaggi l'inferno dell'ignoranza, delle pratiche feudali discriminanti, di un feroce maschilismo, di vendette interminabili.
La lezione di cinema che offre Yol non è eurocentrica né terzomondista. Il film si misura ad armi pari con celebri esempi di film corali impegnati su una pluralità di protagonisti che evadono da un'istituzione totale (qui penitenziario, altrove esercito) e li vince in qualità. La scommessa sulla quale trionfano gli autori è quella di trovare un giusto equilibrio tra storie parallele e l'ambiente nel quale vengono calate, conservando l'autonomia e quindi l'attendibilità di ciascuna, senza peraltro togliere suggestione al quadro d'assieme. I personaggi non sono mai subalterni all'ambiente, e questo non perde mai efficacia ed esaustività. Alcune scene meritano di figurare in un'antologia. Quella, anzitutto, della traversata delle montagne di Seyit, Ziné e del loro figlio. Eccezionale per la scenografia limpidamente selvaggia, la fisicità della fotografia, l'umiltà e l'aderenza degli interpreti, ma soprattutto per la veridicità dei dramma umano che vi si svolge: il marito che cerca di sottrarsi, invano, al compito di giustiziere e che frusta la sposa infedele in un paradossale gesto di perdono; Ziné che prima di morire afferra la più crudele delle verità (“Muoio giovane senza aver goduto niente”); il figlio che vede vacillare sotto la spinta dei sentimenti il senso di giustizia ereditato dal padre e dal nonno. Ma frutto di grande sapienza registica sono anche l'arrivo di Omer nel villaggio, con abili incastri di primi piani e campi lunghi, di parole e silenzi, di note musicali e crepitii di armi automatiche; o, ancora, l'umiliazione di Melmet e della sua sposa scoperti insieme sulla toilette dei treno: l'uomo vittima della sua frustrazione, la donna della morale familiare e popolare.
Güney e Gören non esitano neppure di arrischiarsi lungo le rare occasioni di commedia (il pedinamento della fidanzata di Mevlut, il bordello, la seduta dal “dentista”), senza però intaccare il quadro di una totale angoscia, anzi completandolo: Seyit subisce senza anestesia la cauterizzazione del nervo con la stessa disposizione alla sofferenza con cui si accinge ad allontanare da sé una moglie ancora amata. Mevlut dispensa alla sua fidanzata le disposizioni della legge maschilista, quella stessa legge che lo costringe a soddisfare in un bordello il desiderio sessuale. E la fidanzata, udita la descrizione, maglia dopo maglia, della futura catena domestica, si complimenta con Mevlut per la sua capacità di parola: è triste da piangere anche se si ride.
Il sapiente realismo e l'immediatezza dei film si avvantaggiano di scene brevi e improvvise - così brevi e improvvise da mettere a dura prova l'attenzione dello spettatore che ha scarsa familiarità con volti e nomi turchi -, traggono ossigeno da squarci paesaggistici, esaltano flash-back e ralenti. Si trovano invece.a disagio quando la scena s'allunga e il dialogo straripa. È il caso degli incontri ad Adana tra Melmet e l'amico ferito e di Seyit e della moglie nella stalla-prigione. La prima scena sembra rispondere faticosamente ad una necessità narrativa, che più agevolmente poteva essere soddisfatta nell'incontro tra Melmet e Seyit sul treno. La seconda denuncia un'estranea matrice letteraria. Ziné afferma una consapevolezza della sua posizione che suona alquanto improbabile, almeno nella sua limpida formulazione verbale.
Sembra recitare un brano di sociologia, riveduto e corretto da un romanziere. Alla lettura di questo brano Seyit, accosciato nella penombra, non risponde. E il suo silenzio è assai più eloquente e credibile della loquacità della donna. Come Güney e Gören mostrano, in altre scene, di aver compreso.
Autore critica:Giorgio Rinaldi
Fonte critica:Cineforum n. 221
Data critica:

1-2/1983

Critica 3:
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Libro da cui e' stato tratto il film
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