He Got Game - Egli ha vinto - He Got Game
Regia: | Spike Lee |
Vietato: | 14 |
Video: | Minerva |
DVD: | La Gazzetta dello Sport |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Diventare grandi, Giovani in famiglia |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Spike Lee |
Sceneggiatura: | Spike Lee |
Fotografia: | Malik Hassan Sayeed |
Musiche: | Public Enemy, The Bomb Squad |
Montaggio: | Barry Alexander Brown |
Scenografia: | Wynn Thomas |
Costumi: | Wilfred Caban |
Effetti: | |
Interpreti: | Denzel Washington (Jake Shuttlesworth), Ray Allen (Jesus Shuttlesworth), Milla Jovovich (Dakota Burns), Rosario Dawson (Lala Bonilla), Hill Harper (Coleman), Ned Beatty (Warden Wyatt), Travis Best (Sip), Jim Brown (Spivey), Thomas Jefferson Byrd (Sweetness), Ron Cephas Jones (Burwell), Rick Fox (Chick Deagan), Zelda Harris (Mary Shuttlesworth), Walter Mccarty (Mance), Lonette Mckee (Martha Shuttlesworth), Arthur J. Nascarella (allenatore Cincotta), Bill Nunn (Zio Bubba), Al Palagonia (Dom Pagnotti), Leonard Roberts (D'Andre Mackey), Michele Shay (Zia Sally), Roger Guenveur Smith (Big Time Willie), Saul Stein (Guardia Books), Joseph Lyle Taylor (Crudup), John Turturro (allenatore Sunday), John Wallace (Lonnie) |
Produzione: | 40 Acres And A Mule Filmworks |
Distribuzione: | Mikado - Cineteca Lucana |
Origine: | Usa |
Anno: | 1998 |
Durata:
| 134’
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Trama:
| Al detenuto Jake Shuttlesworth viene improvvisamente concessa la libertà vigilata. Il direttore del carcere gli fa intravedere la possibilità di una riduzione della pena a patto che riesca a convincere suo figlio Jesus, il miglior giocatore di basket fra i liceali d'America, a firmare il contratto con la Big State, l'università alla quale è molto legato il Governatore. Jake è in prigione per avere ucciso la moglie durante uno scatto d'ira. Dopo la morte della madre e la condanna del padre, Jesus ha dovuto badare a se stesso e prendersi cura della sorella minore, aiutato solo da una coppia di parenti. E ora Jesus è ancora solo al momento di prendere la decisione più importante: sono tante le università che gli offrono borse di studio molto allettanti, alcuni lo invitano a visitare i luoghi e gli mettono a disposizione soldi e donne, altri lo attirano con contratti altissimi e con la prospettiva di una vita da ricco. Jake avvicina Jesus ma il rapporto tra i due è difficile. Jesus è diffidente, rifiuta idee e consigli ma proprio nel momento in cui riesce a tenere testa al padre capisce di essere cresciuto e di potere parlare con lui da pari a pari. E la decisione finale di accettare l'offerta della Big State arriva come il suggello di un ritrovato rapporto di fiducia.
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Critica 1: | Con questo suo film (n. 11) didattico, manicheo e predicatorio S. Lee (1956) conferma la sua vocazione di "fulminante moralista del mondo nero, antitradizionale predicatore della cultura sociale afroamericana contrapposta alla Gomorra dei costumi bianchi" (Roy Menarini). Il basket è uno sport che si presta bene a essere filmato per molte ragioni, ma qui diventa un veicolo di comunicazione (quasi un codice simbolico-espressivo nel rapporto tra padre e figlio), metafora esistenziale, strumento di critica sociale. Nessuno aveva mai analizzato con lucidità altrettanto caustica un mondo e un sistema dominati dall'industria, dal potere, dal denaro, dalla politica dei bianchi, dai trafficoni italoamericani, dagli agenti mafiosi, dagli sfruttatori del circo mediatico. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Kataweb Cinema |
Data critica:
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Critica 2: | Cinema morale, questo fa, da sempre, Spike Lee. Sono appunto morali tanto le sue storie che i suoi personaggi. Eppure, non è in primo luogo una moralità di contenuto che segna Fa' la cosa giusta (1989), Mo' Better Blues (1990), Jungle Fever (1991), Malcolm X (1992), Clockers (1995), Girl 6 (1996), Bus (In viaggio) (1997). Piuttosto, si tratta d'una moralità di sguardo: una dichiarata, evidente immediatezza tra il lavoro della macchina da presa e quelle stoffe, quei personaggi. La si potrebbe anche chiamare ingenuità, quest'immediatezza. Comunque si valutino i singoli film - che si tratti di opere forti e geniali come Fa' la cosa giusta, forzate e squilibrate come Malcolm X, sbagliate come Girl 6 -, sempre s'avvene in essi una necessità espressiva, un nodo che Lee deve e vuole sciogliere sullo schermo per se stesso, ancor prima e ancor più che una preoccupazione di "confezionare" un film per il pubblico. He Got Game (Usa, 1998) conferma tutto ciò. Certo, hanno più d'un difetto questi 130 minuti di cinema. A momenti di grande, intensa regia - nella parte iniziale soprattutto, con un montaggio che fa del basket l'anima stessa d'America - s'alternano cadute di sceneggiatura, incertezze di ritmo, banalità di dialogo. Eppure restano, bene evidenti e decisive, moralità di sguardo e immediatezza, ingenuità e necessità espressiva. Non é più o non è più soltanto la preoccupazione di dare ai neri d'America un cinema in cui possano rispecchiarsi, che guida ora la sceneggiatura e la regia. Del resto, Lee rifiuta d'essere ridotto al tema e alla dimensione dei conflitti interraziali: così, alla lettera, chiede e pretende. E forse vuol dire: non fate d'una parte pur importante della mia poetica una sorta di ghetto d'autore, come se il fatto d'essere afroamericano dovesse tradursi in un ruolo espressivo obbligato. He Gol Game non è Bus. Non lo è, purtroppo, nel senso che non ne ha l'unitarietà incalzante, la commozione, la problematicità profonda, multiforme. E non lo è, anche, per il fatto che intende rivolgersi alla coscienza d'una nazione intera, non solo a quella d'una sua parte. Non a caso, nel raccontare la storia del nero Jake (Denzel Washington) e di suo figlio Jesus (Ray Allen, una stella del basket americano), Lee mescola volutamente i "colori" e, per quanto è possibile intuire dal doppiaggio, le parlate. In quello che agli americani piace pensare come il gioco più semplice del mondo, cui sono sufficienti una palla e un cerchio, il film indica dunque un luogo di produzione e riproduzione di memoria collettiva e individuale, e perciò anche d'identità. Prima ancora che agonismo e spettacolo, il basket é un linguaggio e anzi un discorso. Meglio ancora: é un grande racconto ininterrotto, un vero e proprio mito alla cui narrazione i singoli partecipano sia indirettamente, come tifosi, sia direttamente, nelle strade e nei campetti rionali, magari usando come canestro una cassetta di plastica appesa in cima a un palo. D'altra parte, He Got Game non è un film di genere sul basket. La sua vicenda non si sviluppa mai all'interno delle azioni di gioco: queste azioni, piuttosto, funzionano quasi come coreografie che rimandano ad altro. Attraverso il basket Lee racconta l'America, in primo luogo qualcosa che dell'America sembra spaventarlo. Come se stesse raccontando una favola didascalica, con un puntiglio che qua e là pare eccessivo e ingombrante, porta per mano il suo Jesus, facendolo passare di tentazione diabolica in tentazione diabolica: denaro, sesso, ancora denaro. Attorno a lui, come preannunciando una via crucis del tutto particolare, s'affollano i traditori : lo zio Bubba, la sua ragazza Lala, il coach del liceo, e poi agenti loschi e mafiosi... Su tutto e su tutti trionfa una sete parossistica di denaro, più decisiva d'ogni affetto, più importante d'ogni dignità. É questo il versante meno riuscito di He Got Game, quello in cui troppo spesso la moralità s'esprime solo nei contenuti. Ma ce n'è un altro, più sottile e anche più coerente con il cinema di Lee (e con uno dei temi portanti di Bus). E' quello relativo alla paternità difficile di Jake, al suo desiderio d'emancipazione dalla povertà (attraverso il basket), trasferito e pesantemente imposto al figlio, fino a metterne in rischio l'affetto. Qui, tra il suo sguardo e i suoi personaggi non si avverte alcuna forzatura contenutistica. Uno di fronte all'altro, Jake e Jesus si "parlano" con una palla e un cerchio, nell'essenzialità di movimenti che sanno esprimere con uguale forza l'amore e il risentimento, la distanza e la vicinanza: il padre godendo alla fine dell'autonomia del figlio, il figlio riconoscendo in essi un'ombra dolce del padre. E questo, certo, il nodo che Lee ha voluto sciogliere con He Got Game, per sé prima ancora che per il suo pubblico. |
Autore critica: | Roberto Escobar |
Fonte critica: | Sole 24 Ore |
Data critica:
| 8/11/1998
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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