Vita è meravigliosa (La) - It's a wonderful life
Regia: | Frank Capra |
Vietato: | No |
Video: | Gruppo Editoriale Bramante, Legocart |
DVD: | Lego & Cart |
Genere: | Commedia fantastica |
Tipologia: | Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori |
Soggetto: | Jo Swerling, Philip Van Doren Stern, Michael Wilson, dal racconto "The greatest gift" di Philip Van Doren Stern |
Sceneggiatura: | Frank Capra, Frances Goodrich, Albert Hackett, Jo Swerling |
Fotografia: | Joseph Biroc, Joseph Walker |
Musiche: | Dimitri Tiomkin |
Montaggio: | William Hornbeck |
Scenografia: | Jack Okey |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | James Stewart (George Bailey), Henry Travers (Clarence angelo custode), Lionel Barrymore (Potter), Gloria Graham (Violet), Frank Albertson (Sam Wainwright), Ward Bond (Bert), Beulah Bondi (Mamma Bailey), Argentina Brunetti (Signora Martini), Bill Edmunds (Martini), Frank Faylen (Ernie), Samuel S. Hinds (Papà Bailey), Todd Karns (Harry Bailey), Thomas Mitchell (Zio Billy), Donna Reed (Mary Hatch), H.B. Warner (Gower) |
Produzione: | Frank Capra per la Liberty Films |
Distribuzione: | Cineteca Griffith - Zari FIlm - Nuova Eri - Multivision - Ricordivideo - Panarecord - Gruppo Editoriale Bramante - Rcs Films &TV |
Origine: | Usa |
Anno: | 1947 |
Durata:
| 131'
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Trama:
| Fin da ragazzo George Bailey ha mostrato una grande forza d'abnegazione. Quando suo padre viene a morire, George abbandona ogni progetto più caro, rinunzia agli studi universitari, per mandar avanti la Società di costruzioni che il padre ha fondato con l'intento di offrire case a buon mercato a piccoli borghesi ed artigiani. Egli prosegue con successo l'opera paterna, superando l'ostilità del vecchio milionario Potter, finanziere esoso e senza cuore. La vigilia di Natale, il vecchio zio di George smarrisce ottomila dollari della Società, esponendo questa al pericolo del fallimento. Potter, che ha trovato la somma smarrita, si guarda bene dal restituirla; e quando George gli domanda aiuto, glielo nega. George, disperato, decide d'uccidersi, ma la Divina Provvidenza gli manda incontro il suo Angelo Custode, che con uno stratagemma gli impedisce d'attuare il suo proposito. E poiché George afferma che vorrebbe non esser nato, l'angelo gli fa vedere quale ne sarebbero state le conseguenze per le persone che ama. George comprende il valore della vita, e tornando a casa, apprende che i suoi amici hanno raccolto tra loro la somma mancante e salvato la Società.
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Critica 1: | A Bedford Fall il brav'uomo George Bailey, onesto e sfortunato, vuol togliersi la vita. Gli appare, nelle vesti di un simpatico vecchietto, il suo angelo custode e gli mostra come sarebbe stato il mondo se non fosse mai nato. E il film di Natale per eccellenza, uno dei capolavori del cinema sentimentale di tutti i tempi. L'americano R. Sklar scrisse che ha 2 registi: Frank Capra e Dio, realizzatore di miracoli nel film, ma anche autore di un film dentro il film. Stewart dà il meglio in un personaggio che passa dall'ottimismo al pessimismo più nero come la commedia passa dal comico all'incubo, dal documentario alla favola. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Scrivere su La vita è meravigliosa risulta un esercizio francamente imbarazzante. Come afferma Vito Zagarrio nel suo “Castoro”, di questo film è infatti stato detto tutto. (…) Se si eccettua qualche italica incomprensione (valga per tutte quella del compianto Pietrino Bianchi, che nel 1953 parlava di “involuzione” - I maestri del cinema, Garzanti, 1972), la critica, in maniera pressoché concorde, reputa il film il capolavoro (o almeno uno dei capolavori) di Frank Capra, che per quanto gli concerne ha sempre dichiarato di considerarlo il suo figlio prediletto. Di conseguenza, almeno in via preliminare si sarebbe tentati di dare una rapida sintesi delle pagine e pagine esistenti su La vita è meravigliosa, che lo vedono (giustamente) come sintesi estrema e punto di arrivo (e insieme di non ritorno) dell'ideologia del Capra “impegnato”, quello per intenderci della trilogia “sociale” degli anni Trenta (È arrivata la felicità, 1936, L'eterna illusione, 1938, Mr. Smith va a Washington, 1939) e del più amaro e problematico Arriva John Doe (1941). Di come, di volta in volta, sia stato messo in rilievo l'atteggiamento di Capra come cantore appassionato non tanto di un New Deal la cui progettualità dirigista non riuscì mai ad integrarsi con il suo inguaribile individualismo, quanto di una sorta di originario e pionieristico Old Deal che si rifaceva, nei suoi principi fondanti, ad Abramo Lincoln e Thomas Jefferson. Parimenti, del contributo che il film portava, nel momento più difficile dell'immediato dopoguerra, alla ricostruzione del morale nazionale. Ancora, dell'assunzione del villaggio come “una splendida metafora dell'America rooseveltiana, un emblema della sua volontà di concordia nazionale, della sua capacità di realizzare concretamente l'astrattezza dell'ideologia”.
Rischiamo viceversa la pretestuosità, addentrandoci per un attimo nell'autobiografia. Da bambini, abbiamo vissuto La vita è meravigliosa come un disneyano Christmas Tale, Bedford FalIs come Paperopoli, George Bailey come Paperino, sforzandoci di trovare a ciascuno degli altri personaggi un omologo nelle strisce dei “mago di Burbank”. Su uno, comunque, non avevamo dubbi: per la funzione, l'aspetto, l'abbigliamento, l'evidente, comune derivazione dickensiana, Potter Barrymore era per noi zio Paperone in versione “cattiva”. Peccavamo innanzitutto di anacronismo. Infatti, l'inarrivabile fantasia di Carl Barks, uno dei più grandi narratori dei nostro secolo, certamente degno dei Nobel per la letteratura, avrebbe creato Uncle Scrooge un anno più tardi (1947, Donald Ducks Christmas on Bear Mountain). Inoltre, il mondo di Capra e di Barks, pur presentando elementi “ideologici” comuni, hanno ciascuno una propria, strutturata individualità. Come scrivono Marovelli, Paolini e Saccomano nel loro Introduzione a Paperino (Sansoni, 1974), “la visione del grande disegnatore dell'Oregon si può avvicinare alle grandi utopie, questi sogni dell'umanità, come quelle di Tommaso Moro, Tommaso Campanella e Charles Fourier. A differenza delle grandi utopie, però, il barksismo non conosce una verità assoluta e sa che è impossibile realizzare il meglio. È un'utopia disincantata, che l'autore non si illude di vedere realizzata”. Altro che omologazione dell'ideologia dell'imperialismo, come disinvoltamente sostengono Dorfman e Mattelart nel loro discutibilissimo Come leggere Paperino (Feltrinelli, 1972). Sotto una superficie di commovente bonomia, l'atteggiamento di Barks, anche nei confronti del “sociale americano”, risulta tutt'altro che conciliatorio.
Siamo poi sicuri che l'ottimista Frank Capra - almeno quello de La vita è meravigliosa - non si presti ad analoghi fraintendimenti? Innanzitutto, c'è da dire che nella sua opera il rapporto tra individuo e società è quasi sempre complesso e conflittuale. Il protagonista, ingenuo ma perseverante assertore di valori “sani” che trovano terreno fertile nei piccoli agglomerati ancora sensibili al suo messaggio di solidarietà, si contrappone vittoriosamente (ma con grande fatica) ad un corpo sociale, generalmente urbano, che tende pericolosamente (istituzionalmente?) a degenerazioni patologiche. Come ha scritto Barthélemy Amengual, per Capra “la religione genera chiese e sette; la politica i partiti; il corporativismo i sindacati; il giornalismo le lobbies; tutte istituzioni che il denaro e il potere affrettano a pervertire”. Tutti elementi che vengono evidenziati nel cristologico Arriva John Doe, che, nel suo “realismo” e nella sua “drammaticità”, rappresenta un giro di vite nel senso della radicalizzazione del discorso, con gli spazi per l'individuo che si restringono e l'istituzione che può essere sconfitta solo attraverso uno happy end quantomai forzato (tanto da lasciare perplessi Capra e il fedele Riskin).
In La vita è meravigliosa si tende viceversa all'astrazione, alla favola metafisica. Ma, come ha scritto giustamente Robert Sklar, l'epilogo non allevia il senso di disfatta - in questo caso più personale che sociale - dell'imprenditore Bailey, nel quale il critico vede una proiezione delle vicissitudini autobiografiche del regista alle prese con la sfortunata esperienza della Liberty Films, la sua casa di produzione indipendente che di Iì a poco sarebbe stato costretto a cedere alla Paramount. In effetti, George Balley vive la sua vicenda esistenziale sui binari di un'insanabile (e di fatto mai sanata) dicotomia. Da una parte c'è il ragazzotto che sulle pagine del National Geographic aveva cullato il sogno di “scuotere dalle scarpe la polvere di questo piccolo paese”, di girare il mondo, di fare l'università e costruire grandi opere pubbliche. Dall'altra, l'uomo d'affari concreto e progressista, continuatore della morale paterna, capace di combattere Potter e di resistere alle lusinghe delle sue mani sudate, ma anche costretto al “misero ufficio”, alla “necessità di risparmiare sulle sigarette”, il padre e marito felice, ma anche il fratello di un eroe di guerra, lui che non ha potuto fare altro che la guardia al bidone di benzina, l'amico di un ricco globetrotter, lui che non si è concesso neppure il viaggio di nozze. Nonostante la tesi costruttiva pressoché d'obbligo - tira aria di puzzle of a downfall child, con le cadute geometricamente distribuite a simboleggiare gli interventi del Destino. Il conclamato ottimismo di Capra si irrigidisce e si essenzializza in una sorta di etica della rinuncia e del sacrificio, autorizzando paralleli rischiosamente suggestivi: con Marius (1931), di Pagnol-Korda, in cui il protagonista, coerentemente con l'atmosfera di “realismo poetico” in cui si muove, riesce a realizzare le proprie ambizioni “esotiche” attraverso il sacrificio della donna, che gli nasconde la propria condizione (aspetta un bambino); con Le rosse nubi del tramonto (1956), bellissimo, disperato mélo di Kinoshita nel quale la rinuncia riceve soltanto la sanzione morale dei regista (oltreché, naturalmente, degli spettatori).
Ma, come nello struggente La stessa coperta dietro a una nuvola (1960), di Ghatak, l'estrema beffa della sorte rivela infine la fragilità di questo credo morale, di questo masochistico lasciarsi scegliere. Allora, il substrato di frustrazioni, che già nel corso della vicenda ha disseminato avvertibili tracce sintomatologiche (per tutte, la sequenza in cui George assesta un violento calcio alla portiera della propria automobile, alla notizia del viaggio in Florida di Sam e della sua ragazza), esplode in un rancore incontenibile, in una furia auto ed eterodistruttiva. Come un abitante di quella Spoon River che è un po' leggibile in filigrana attraverso tutte le Bedford Falls d'America, George Bailey potrebbe qui recitare: “Fu il mio modo di far fallimento”.
(…) L'esistenza di ogni individuo è legata a quella di innumerevoli altri, in un rapporto di causalità talora evidente, talaltra sottoposto a una serie di mediazioni difficilmente ricostruibili. Quello che viviamo è il migliore dei mondi possibili, la quantità di male che in esso è presente è dovuta al fatto che Dio non è libero, ma vincolato al principio di non contraddizione. Senza la “banalissima” esistenza di George Bailey, Bedford FalIs sarebbe diventata Pottersvilie, Gower un ex galeotto alcolizzato, zio Billy sarebbe finito in manicomio, e così via.
Questa constatazione non sembra tuttavia sufficiente a convincere il protagonista a “tornare indietro”. Né ci sembra convincente la tesi di Masson per cui la resipiscenza è segnata dalla visione della casa, ancor più fatiscente rispetto ai tempi in cui la prendeva a sassate per esprimere un desiderio, e della moglie, una rinsecchita zitella che consuma la propria esistenza tra libri polverosi. Come una sorta di Mattia Pascal al quale sia stata concessa una chance di rientro (“divina” e non sociale), George Bailey è gelato dalla non riconoscibilità, dall'assenza di identità. Essere è meglio di non essere mai stati.
Nonostante il commovente happy end (ci riferiamo all'indimenticabile sequenza della corsa attraverso la main street, non all'inevitabile corollario attorno all'albero di Natale), rimane comunque sottesa al film una sorta di schizofrenia irrisolta, quasi il regista, ormai stanco e con molti dubbi sulla produttività del proprio credo filosofico, si sforzi di contrapporre ad un convincente pessimismo della ragione un estremo colpo d'ala di ottimismo della volontà. Così, neppure l'accumulazione di temi esemplari in un capolavoro “canto del cigno” attenua la sensazione di sconforto.
Capra sta per uscire di scena.
La vita è meravigliosa, dopo i titoli di testa scritti sulle più tradizionali cartoline di Natale e ritmati dallo scanzonato motivo conduttore, Bella ragazza bionda o bruna, si apre su una Bedford Falls nevosa dai cui edifici si levano voci sommessamente imploranti. Sull'ultima, presumibilmente quella di Zuzù, la mdp decolla verso il cielo dove, con l'accompagnamento dei preludio dei Lohengrin, Dio e S. Giuseppe iniziano a raccontare a Clarence, angelo di seconda classe, la cui intelligenza “non è superiore a quella di un coniglio”, ma la cui fede è “pura come quella di un bambino”, la storia della vita dell'uomo per cui tutta la città sta pregando. Dopo una dissolvenza in apertura, formalmente ardita per quegli anni, comincia il lunghissimo flash-back che costituisce buona parte dei film, sul quale deve aver influito il precedente di Quarto potere.
Si tratta quindi di una struttura complessa, nella quale si attua in maniera esemplare una peraltro già collaudata commistione di generi. Ma è pur sempre una sintesi che guarda al passato. Di un futuro che ormai non gli appartiene, Capra sem-bra riassumere la minaccia nel l'agghiacciante onirismo della “scoperta di Pottersville”. La città ha adesso le insegne più luminose, il jazz come al solito connota il vizio, le inquadrature sono più
“distanti”, la recitazione degli attori più caricata e meccanica. George, che era risultato “alieno” agli occhi della moglie e dei figli durante il suo sfogo isterico, a comportamenti capovolti è an-cora una volta guardato come tale da tutti. Ma questa volta gli alieni sono gli altri, nella loro in-sensibilità cinica, nella pratica di un vizio triste, nell'adorazione del Moloch di Potter, il denaro. Il-lividita dai magistrali chiaroscuri del fulleriano Joseph Biroc, Pottersville non può non richiama-re alla memoria di poi la Santa Mira del bellissi-mo, terrificante e “ideologico” L'invasione degli ultracorpi, che Don Siegel dirigerà di lì a dieci an-ni. L'America sta cambiando, sembra ammonire il sopravvissuto Capra, ombre sinistre come bac-celloni omologanti si vanno addensando sul suo cielo, le ingenue e solari utopie dei signori Deeds e Smith non vi hanno più diritto di cittadinanza. |
Autore critica: | Paolo Vecchi |
Fonte critica: | Cineforum n. 271 |
Data critica:
| 1-2/1988
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Critica 3: | |
Autore critica: | |
Fonte critica: | |
Data critica:
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Libro da cui e' stato tratto il film |
Titolo libro: | The greatest gift (racconto) |
Autore libro: | Van Doren Stern Philip |
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