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Manhattan - Manhattan

Regia:Woody Allen
Vietato:No
Video:Warner Home Video (Gli Scudi
DVD:20th Century Fox Home Entertainment
Genere:Commedia
Tipologia:Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Woody Allen, Marshall Brickman
Sceneggiatura:Woody Allen, Marshall Brickman
Fotografia:Gordon Willis
Musiche:Tom Pierson
Montaggio:Susan E. Morse
Scenografia:Mel Bourne
Costumi:Albert Wolsky
Effetti:
Interpreti:Woody Allen (Isaac Davis), Diane Keaton (Mary Wilke), Mariel Hemingway (Tracy), Michael Murphy (Yale), Meryl Streep (Jill), Anne Byrne (Emily), Wallace Shawn (Jeremiah), Damion Sheller (Willie Davis)
Produzione:Jack Rollins e Charles H. Joffe Productions
Distribuzione:United Artists Europa
Origine:Usa
Anno:1979
Durata:

96’

Trama:

Isaac Davis, 42 anni, autore di testi televisivi, vive con la liceale Tracy, 17 anni, che è affascinata dalla sua cultura. Isaac, che ha divorziato dalla prima moglie ed è stato lasciato dalla seconda, ha paura che il legame con la studentessa lo renda ridicolo e la spinge ad andare a Londra anche perchè vuole frequentare Mary che ha conosciuto tramite il suo amico Yale. Quando Tracy si decide a partire cercherà, invece, di trattenerla.

Critica 1:Episodi sentimentali nella vita sessuale di uno scrittore televisivo di New York la cui ultima moglie (M. Streep) l'ha abbandonato per una donna. In questo poema d'amore per una Manhattan interiorizzata e sognata, calata nel sublime bianconero di Gordon Willis o accarezzata dalle canzoni di George Gershwin, più che la vicenda contano i personaggi e il tono con cui sono raccontarti. Dramma in cadenze leggere di commedia: la summa di W. Allen di cui è per molti critici e spettatori il film preferito, quello che resterà. (…)
Autore critica:
Fonte criticaKataweb Cinema
Data critica:



Critica 2:A Manhattan, Tracy ama Ike che ama Mary che ama Yale che è sposato con Emily ma ama anche Mary. Tracy, la diciassettenne spontanea, sognante e un po’ lenta, fa il liceo, mentre tutti gli altri, ultratrentenni e quarantenni, comunque “appartenenti ad un altro evo di idee”, fanno di mestiere gli intellettuali. Tutti, in questo film, scrivono libri (Jill, l’ex moglie di Ike, che lo ha piantato per andare a vivere con un’altra donna e sta scrivendo un libro sul loro matrimonio), si propongono di scrivere libri (Yale, che da sempre deve finire un libro su O’Neil), tentano di scrivere libri (Ike, che abbandona esasperato il proprio lavoro di autore televisivo per scrivere un libro su New York), temono di non saper scrivere libri (Mary).
È un film dove la dinamica che regola il gioco delle coppie è indissolubilmente legata allo stato “culturale” dei protagonisti, dove l’impotenza creativa che investe la vita pubblica dei personaggi si riflette puntualmente sulla loro vita privata. Sarebbe riduttivo infatti considerare Manhattan un semplice film d’amore (o di amori), come sarebbe riduttivo considerarlo solo una caustica presa in giro delle idiosincrasie e delle mistificazioni dell’intellighentia new-yorkese. Tutto organizzato sui ritmi e i tratti della sophisticated comedy anni Trenta (ma senza dimenticare i tempi meditativi e monologanti tipici di Allen), punteggiato di battute che a questa più o meno esplicitamente rimandano (“è di Noel Coward, non mancano che i cock-tails” o Mary definita “vincitrice del premio Zelda Fitzegeral”, chissà per quali motivi “divulgativi” modificati per il pubblico italiano in “sta diventando un film commedia anni ’50, qualcuno dovrebbe cominciare a servire dei martini” e in “premio Zsa Zsa Gabor”), Manhattan è in realtà un film amaramente rassegnato; è la calibrata, feroce e autocritica descrizione dello stato esistenziale e dello “stile” di vita che caratterizza una generazione insoddisfatta, la quale, viva essa nel cuore o alla periferia dell’impero, si caratterizza per la generalizzata incapacità a programmare secondo un “senso” definito la propria vita. Non è un caso, infatti, che il concetto che ricorre più frequentemente nel film sia quello del “mettere ordine nella propria vita”, volontaristico, programmatico e sempre puntualmente disatteso, non solo per pigrizia e malafede, ma soprattutto per l’impossibilità a tradurre in azione la confusione e le tensioni interiori. Il gioco delle coppie così viene semplicemente a costituire la traccia narrativa portante del racconto interiore di tante solitudini ingarbugliate e tra loro perfettamente simili, dove nevrosi, ansie creative non realizzate, fraintendimenti etici, incomunicabilità, frustrazioni, mass-media, psicanalisi, miti culturali la fanno da padroni. Un film pieno, quindi, dei temi che Allen è andato sviluppando con sempre maggior precisione lungo l’arco di tutto il suo lavoro di sceneggiatore, comico e regista, temi che trovano qui un’espressione particolarmente puntuale, una sintesi interna esemplarmente armonica.
Autore critica:Emanuela Martini
Fonte critica:Cineforum n. 191
Data critica:

1980

Critica 3:Manhattan. Skyline. Insegne. Traffico. Persone. Neve a Park Avenue. Quinta Strada. Museo Guggenheim. Broadway. Yankee Stadium. Fuochi d’artificio per il 4 luglio. Rhapsody in Blue di Gershwin e la voce di Isaac (Ike) che sta tentando di iniziare il proprio libro. Al tavolo di un ristorante quattro amici (Ike e la diciassettenne Tracy, Yale e sua moglie Emily) stanno parlando della vita e dell’arte. Ike ha una relazione con Tracy mentre Yale, di lì a poco, gli comunicherà di essersi innamorato di Mary, una giornalista. Ike incontra, di lì a qualche giorno, Mary in compagnia di Yale ed emergono i loro punti di vista opposti sull’arte. La vita di Ike non è semplice. Si è separato dalla sua seconda moglie che ora convive con una donna e sta per pubblicare un libro con rivelazioni scabrose sul loro matrimonio. Si è anche licenziato dal lavoro di sceneggiatore televisivo perché vuole provare a scrivere un vero libro. Con Tracy, per quanto tutto funzioni bene soprattutto sul piano dell’attrazione fisica, cerca di portare avanti un rapporto poco impegnativo, invitandola a cogliere l’occasione di recarsi a Londra per uno stage teatrale. Intanto Ike reincontra Mary e scopre affinità inattese. Non vuole però tradire l’amico. Solo quando capisce che Yale è ancora troppo legato alla moglie consente che l’intimità con Mary aumenti. Ike lascia Tracy, che si è innamorata profondamente di lui, e cerca di aiutare la sua nuova compagna a liberarsi dalle sue insicurezze. Non appena Yale si rifà vivo, promettendo di lasciare la moglie, Mary però torna a stare con lui nonostante i tentativi di Ike per farla desistere. Registrando appunti per il suo libro, un giorno Ike scopre di pensare ancora a Tracy e va a cercarla. La ragazza sta partendo per Londra. Lui cerca di convincerla a restare temendo che l’esperienza la cambi ma Tracy, con calma, gli chiede un po” di fiducia. Le immagini di Manhattan e la musica di Gershwin tornano a riempire lo schermo.
“Ci sono certe cose per cui vale la pena di vivere: Il vecchio Groucho Marx, Joe Di Maggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong, l’incisione di Potato Rag Blues, i film svedesi naturalmente, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, le incredibili mele e pere dipinte da Cezanne, i granchi da Sun Woo, il viso di Tracy”. “Nel caso di Manhattan,ne ero così deluso che non volevo che facessero la prima. Volevo chiedere alla United Artists di non farlo uscire. Volevo dirgli che, se l’avessero buttato via, avrei girato un altro film gratis.”
Due dichiarazioni: una di Ike/Woody e una di Allen Woody. Ciò che rende la vita degna di essere vissuta e ciò che la rende complessa e costantemente in balia dell’incertezza. Manhattan si muove tra questi due poli rovesciando il punto di vista di Interiors. Se in quel film Allen (e Willis suo direttore della fotografia) entrava nell’intimo dei personaggi attraverso gli spazi abitativi in cui avevano lasciato (o subìto) dei segni, in Manhattan si descrivono gli uomini e i loro piccoli (o grandi) slittamenti del cuore, legandoli a uno spazio esterno letto come elemento della dimensione umana.
Allen chiude una sorta di ideale trilogia che aveva avuto inizio con la contrapposizione di due luoghi: New York e Los Angeles che, in definitiva, separavano le persone. Qui Tracy parte per Londra, uno dei fulcri culturali dell’amata-temuta Europa. Quel mondo potrebbe cambiarla, potrebbe tornare meno americana, perdere le amate-detestate radici, non essere più parte della Big Apple. Ike percorre le grandi arterie di Manhattan (un’isola) quasi a voler misurare la distanza che lo separa da Tracy. Il suo è il tentativo di gettare un ponte (sotto il ponte di Brooklyn aveva avuto inizio la storia con Mary) nei confronti della ragazza che non ha bisogno di cambiare perché è già cambiata (“Non essere così matura” le intima Ike). “Bisogna avere un po’ di fiducia nelle persone” gli dice Tracy e le inquadrature (ma soprattutto le espressioni) che Allen sceglie non possono non far pensare a Chaplin. In Luci della città (anche in quel caso uno spazio urbano citato sin dal titolo) il vagabondo che è riuscito, fingendosi ricco, a far curare la fioraia ambulante cieca, passa davanti a quello che ora è divenuto un negozio raffinato. La ragazza, che è di buon cuore, offre una moneta al povero che la guarda dalla strada. Nel momento in cui gli tocca la mano riconosce quella del “ricco” che l’aveva aiutata. I due si guardano e si sorridono ma la luce che brilla negli occhi di entrambi è appannata da una profonda incertezza sul futuro del loro rapporto. Se si mettono a confronto questi due finali si scopre come Allen “lavori” sul cinema ricreandolo senza alcun tentativo di “copiatura” o di citazione. A questo proposito la stessa scelta del formato diviene indicativa. Allen e Willis usano il Cinemascope ottenendo così un quadro che abbraccia uno spazio più ampio. Allen porrà come clausola per l’uscita in videocassetta la conservazione del formato originale, impedendo quei restringimenti dell’inquadratura che fanno sì che spesso ci si trovi di fronte a copie homevideo gravemente mutilate. Manhattan è il suo primo film in bianco e nero e in esso è presente un intervento estremamente mirato sul dosaggio del chiaroscuro che “gioca” con i volti rielaborando ulteriormente la lezione bergmaniana. Se la letterarietà di alcuni dialoghi di Interiors finiva col fondersi con la raffinatezza del décor, qui il dialogo è intellettual-quotidiano e rispecchia un’osservazione del regista:” È sorprendente come l’assenza di colori doni a qualsiasi immagine un aspetto documentaristico”. È infatti una sorta di documentario su una specie umana collocata in un contesto socioabitativo particolare quello che Allen vuole realizzare. Quasi a voler rendere esplicito questo assunto, la sequenza in cui si svolge il tentativo di chiarimento tra Ike e Joey si sviluppa dinanzi a scheletri, uno dei quali antropomorfo. Se la skyline di Manhattan è un miracolo dell’architettura, il profilo di questi uomini e donne in chiaroscuro non è dei più ammirevoli. Uomini e donne (con l’eccezione di Tracy) sono troppo presi dalle loro contraddizioni per potersi guardare allo specchio. Yale è un docente universitario a lungo incapace di scegliere, incerto tra l’amore per la moglie o per l’amante ma assolutamente saldo nella volontà di non avere figli. La sua convinzione che il rapporto sessuale sia il “centro” della relazione con Mary ce ne rivela la ristrettezza di vedute che la donna non manca di sottolineare. Sua moglie subisce con dolcezza paziente il tradimento e, soprattutto, la decisione del marito riguardo alla prole. Ike lascia il proprio lavoro di sceneggiatore televisivo di successo (situazione ribaltata rispetto a Il prestanome di Ritt) per scrivere un libro sul rapporto che un uomo ha con la sua città. È quello che sta facendo Allen “scrivendo” il suo film. Dall’altra parte c’è una ex moglie che sta lavorando a un libro scandalistico sul loro rapporto (quanta inconsapevole profezia c’è in questa situazione: quasi vent’anni dopo Mia Farrow si comporterà esattamente così!). Come Manhattan è un’isola, così Ike è inconsapevolmente separato dagli altri. Si potrebbe dire che è distante anni-luce da Mary (non a caso il primo bacio ha luogo nel planetario) ma, soprattutto, non può costruire un ponte nei confronti di Tracy perché le fondamenta poggiano su un profondo narcisismo. È sufficiente pensare al volto di lei come a una delle cose per cui vale la pena vivere per poter ritenere che tutto torni come prima.
Autore critica:Lietta Tornabuoni
Fonte critica:La Stampa
Data critica:



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