Detour - Detour - Deviazione per l'inferno
Regia: | Edgar G. Ulmer |
Vietato: | No |
Video: | Biblioteca Rosta Nuova, visionabile solo in sede |
DVD: | |
Genere: | Giallo |
Tipologia: | Storia del cinema |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Martin Goldsmith |
Sceneggiatura: | Martin Goldsmith |
Fotografia: | Benjamin H. Kline |
Musiche: | Leo Erdody |
Montaggio: | George McGuire |
Scenografia: | |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Claudia Drake (Sue), Tom Neal (Al Roberts), Tim Ryan (Le Patron), Ann Savage (Vera) |
Produzione: | Leon Fromkess/Producers Releasing Corporation |
Distribuzione: | Pantmedia |
Origine: | Usa |
Anno: | 1945 |
Durata:
| 68’
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Trama:
| Uno sconosciuto offre un passaggio ad un autostoppista e muore improvvisamente. Per paura della polizia l’occasionale passeggero ne nasconde il cadavere e continua il viaggio coi documenti ed i suoi soldi, ma viene smascherato da una donna che lo coinvolge in un ricatto.
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Critica 1: | Nel fare l'autostop in viaggio verso Hollywood, Al Roberts, un pianista di night (T. Neal), è raccolto sull'auto di un signore (E. MacDonald) che, dopo avergli ceduto la guida, muore di sincope. Spaventato, nasconde il cadavere e prosegue. Il giorno dopo incontra una ragazza (A. Savage), senza sapere che è la figlia del morto e in un motel ne provoca involontariamente la morte. Rifugiatosi a Reno, ripensa alla sua avventura non riuscendo a comprendere quel che gli è successo. Zeppa di coincidenze inverosimili, la storia di Martin Goldschmidt avrebbe potuto scivolare nel grottesco o nel ridicolo. In mano a E.G. Ulmer (1900-72), regista di serie B che fu rivalutato in Europa retrospettivamente, è diventato un piccolo noir di culto, raccontato con la tecnica del monologo interiore: un allucinato apologo sull'assurdo e sul caso. Ma è soltanto il caso che spinge Al Roberts a fare quel "detour" (svolta, deviazione)? |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
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Data critica:
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Critica 2: | (...) Poche battute, e già ci si ritrova tra i ruderi di una mitologia, là dove nessuna mappa sembra poter dare più consigli utili a un qualsiasi orientamento: persone solitarie che si incontrano momentaneamente su strade subito divergenti, che si muovono lungo percorsi senza dare spiegazioni circa le rispettive mete; e una coppia (nucleo familiare appena accennato) che vive e lavora in questo «nessun posto», anch'essa senza un vero perché, semplicemente perché sta lì, e basta. Lo sterminato teatro delle grandi migrazioni, delle speranze, dove era cresciuto il mito inossidabile della «frontiera» da allargare sempre più, quasi rispondendo a un ordine divino, si è come dissolto, ha ceduto il posto a una piccola ribalta dove si consumano individualità vaganti senza più costrutto, senza più missioni epocali da compiere, occupate solo a sopravvivere nella loro deriva. Albert è senza dubbio il personaggio che immediatamente si fa portavoce di questa temperie culturale; la sua evidente condizione di vagabondo senza meta, il suo rifiuto di intavolare rapporti umani, per quanto superficiali, la debolezza nervosa che lo fa scattare istericamente al motivo di una canzone suonata dal juke-box: è proprio lui il discendente diseredato delle generazioni di pionieri che con la loro intraprendenza, con il loro coraggio, con la loro crudeltà anche, hanno esplorato e conquistato quelle terre in cui ora lui si muove spaventato e accecato. Il film prende corpo proprio attorno a quella can-
zone che lo ha fatto reagire subitaneamente; la discesa nel vortice dell'incubo realmente vissuto, costituita dal racconto interiore dei protagonista, si consuma nel tempo reale di un'ora, ma coincide narrativamente con il tempo impiegato dal disco ad esaurire la propria funzione di breve intrattenimento. Contemporaneamente alle parole di Albert che, iniziando la rievocazione dei fatti dal cui ricordo vive ormai ossessionato e annichilito, fa immediatamente riferimento ai tempi in cui la sua ragazza cantava quel motivo accompagnata dall'orchestrina di cui lui era il pianista, è la costruzione visiva di questo ritorno al passato che stabilisce inequivocabilmente il tono del racconto che va a iniziare. Improvvisamente la luce si concentra sugli occhi dell'uomo, lasciando in ombra il resto dell'inquadratura, in modo del tutto antinaturalistico, in contraddizione con la parte precedente della sequenza, e riprendendo una formula indicativa del passaggio esterno/interno tra la realtà e il personaggio, certo più legata a certi modi del cinema muto di vent'anni prima; dal volto di Albert la m.d.p. passa alla forma tondeggiante e concava della tazza posata sul banco, per poi spostarsi sul disco che gira nel jukebox, e da lì sarà la musica a farsi carico del passaggio del flash-back, che ha inizio nel locale dove Albert e Susy si esibivano, dove riprende il motivo del movimento circolare attraverso i passi delle coppie danzanti. Un passaggio esemplare per pulizia, coerenza formale e articolazione del rapporto colonna sonora - colonna visiva; e contemporaneamente incisivo per la scelta della circolarità in diversi modi ruotante su se stessa, quale veicolo capace di trasportare lo spettatore nel vortice dell'incubo che va ad affiorare. (...)
Albert «sceglie» di attraversare gli States in autostop per raggiungere la ragazza che vuole sposare. Ma si tratta di una vera scelta? In realtà ha l'aria piuttosto di una inesorabile necessità dettata, prima ancora che dalle condizioni economiche, dal suo puro e semplice modo d'essere che, evidentemente, lo pone in condizioni di accentuata vulnerabilità di fronte al destino (altra figura mitica di fato, qui rivisitata secondo l'accezione moderna, orfana di sacralità, del caso). Albert non cerca l'autostop perché ritenga questo modo di viaggiare particolarmente congeniale o comunque un'esperienza interessante, ma perché non esistono per lui, a quanto pare, alternative. Come ipnotizzato dall'ignoto a cui un hitcher va incontro (ignoto minaccioso non solo perché incontrerà persone sconosciute, ma anche perché queste persone gli sono superiori, per il semplice fatto di possedere un mezzo di trasporto che lui non ha: e questa differenza di status è già un potenziale catalizzatore di guai), Albert si avventura sulla highway con le sue mille riserve sulle persone che in un simile viaggio potrà incontrare, ma chiuso nella sua ostinata speranza di ricongiungersi con la futura sposa, oltre che nelle sue insoddisfazioni personali, nella sua frustrazione
economica, nella sua fragilità. Perché Albert è l'espressione stessa di una fragilità connaturata e incancrenita fino alla paralisi di ogni decisione: individuo non realizzato professionalmente, è incapace però di reagire alla situazione che lo vede esercitare un lavoro che non lo appaga; si lamenta, ma non sa risolversi ad alcun tentativo di mutamento che lo salvi dalla sua mediocrità. È evidentemente legato a Susy, come a una presenza che lo compensa delle sue sconfitte e lo consola della sua paura di vivere; incapace anche di impedirle di partire, si butta poi al suo inseguimento, con l'unica intenzione di sposarla. Ci troviamo di fronte ad un emblematico rovesciamento di ruoli, illuminante soprattutto in relazione alle tradizionali convenzioni cinematografiche (cfr. in particolar modo il western: alla figura maschile del pioniere, dinamica e intensamente affidata al presente da vivere senza esitazioni, vi si contrappone quella femminile, conservatrice, organizzatrice, condizionata dalla preoccupazione per il futuro e legata a valori come il matrimonio e la casa); un rovesciamento che, in Detour, non ha nessuna pietà per la figura maschile - si tratti del protagonista o di quel Charles Haskell che lo accoglie sulla sua automobile, e che dopo la sua morte accidentale si rivelerà essere stato un bugiardo, imbroglione, tutt'altro che un modello da rispettare o da emulare. (...)
Vera si muove lungo la strada con ben altra determinazione, pur nella sua apparente assenza di meta. Un fuoco interiore ne arroventa lo sguardo, e il rancore oscuro e generalizzato di chi, non potendo partecipare della ricchezza che lo circonda, è disposto a tutto pur di afferrare la propria fetta, la rendono pericolosa, soprattutto per un individuo divorato dalla debolezza, come Albert. Nel volgere di poche ore questi si ritrova legato mani e piedi alla volontà della donna che ha deciso di utilizzarlo per la propria rivincita nei confronti del mondo, molto più lontano dalla sua ragazza di quanto non fosse molti chilometri prima. Vera è, dopotutto, il lato oscuro della stessa Susy; ciò che di Susy non conosciamo, ma che potrebbe benissimo essere, a dispetto dell'ingenua dedizione di Albert, che in lei vuole vedere soltanto le virtù della futura sposa. Nelle due immagini di Susy al telefono, quando Albert la chiama prima di partire e durante il viaggio, l'inquadratura la isola in un letto, non ci dice nulla di lei, che lei non dica ad Albert parlando con espressioni indecifrabile (felicità? indifferenza? c'è qualcun altro con lei nella stanza? nel letto, forse?: in realtà noi possiamo collocarla solo nella protezione che Albert ha elaborato in funzione delle sue aspettative). La dark lady del cinema noir nasce semplicemente da ciò che non riconosciamo per esistente nelle zone d'ombra che attraversano la figura di ogni donna «positiva». Vera esemplifica molto bene questa condizione di «maledetta» suo malgrado: malata senza speranza, cerca soprattutto una vendetta contro il suo destino, e diviene per questa via strumento, in un certo modo, di una giustizia superiore, trascinando nella sua inevitabile rovina anche chi ha peccato nascondendosi dietro il risibile velo della propria paura di vivere. Il legame che si stabilisce tra Albert e Vera si fa, peraltro, sempre più ambiguo con il passare delle ore, a testimonianza dell'intercambiabilità delle due figure di donna proposte dal film. Che Albert rimanga fedele alla propria «fidanzata» non cambia molto i termini della questione: non è proprio l'incontro con Vera che gli precluderà per sempre la possibilità di raggiungere Susy? Vera non è bella, ma sa rendersi seducente, e ad un certo punto propone ad Albert di mettersi in società con lei nell'affare dell'eredità di Haskell; arriva anche a manifestare apertamente il proprio desiderio sessuale nei confronti dell'uomo, ed è proprio a partire dal rifiuto di lui che la situazione inizia a precipitare definitivamente. Tutta la sequenza nel motel in cui i due sono rinchiusi si sviluppa secondo i canoni del cinema noir, nel contradditorio rapporto tra la figura femminile tentatrice e negativa, e quella maschile, impotente di fronte all'energia scatenata della donna, del cui maleficio finirà per rimanere vittima, coinvolto in un sacrificio che pure lo vedrà carnefice. In realtà lui e Vera non compiranno, insieme, alcun reato; la «carceriera» si rivelerà essere alla fine solo lo strumento di una punizione che si abbatterà sul protagonista maschile, non tanto per fargli scontare colpe inscrivibili nel codice penale, quanto il suo modo d'essere connaturato, che, non raccogliendo i tratti di una virilità consegnata ormai alla «leggenda» (all'ideologia), ha permesso alla controparte femminile di prendere il controllo della situazione - forse anche contro la propria volontà. (...)
Si diceva del caso che, come Albert stesso commenta nel corso del suo racconto, governa le persone quali marionette inconsapevoli: si tratta dell'ultima metamorfosi del concetto di fato, un tempo rivestito di sacralità in quanto strumento divino. In questa forma contemporanea, ultimo residuo ineliminabile dell'«irrazionale» annidato in una civiltà che si vorrebbe fondata su presupposti «razionali», ha in definitiva proprio il compito di spogliare di ogni responsabilità (verso di sé, verso gli altri: verso gli «dei») l'individuo, ma contemporaneamente non può contestare le sue origini, radicate nella tragedia classica. In Detour sono tre i momenti dove queste origini compaiono in filigrana, legate al carattere di apparizione «divina» che attraversa, determinandola, l'esistenza del protagonista. Si tratta in primo luogo del passaggio che Haskell gli dà, incredibilmente fino a destinazione dopo le difficoltà incontrate fino ad allora; più tardi l'incontro imprevedibile con Vera ad un distributore; e infine la comparsa dal buio della notte dell'auto della polizia che lo porterà via con sè. Tre avvenimenti accomunati dalla subitaneità con cui si verificano, «evocati» in un certo qual modo da quel terreno, altrettanto comune, costituito dalla strada, come governati da potenze che sfuggono completamente al controllo di Albert. Il film possiede, sia pure in modo elastico, anche la triplice unità di luogo (il tragitto attraverso gli States, inteso non come somma di variabili geografiche, ma concettualmente come viaggio tout court), di tempo (i due/tre giorni in cui la vicenda si svolge, dall'incontro con Haskell fino alla morte di Vera), d'azione (l'intrecciarsi inestricabile tra l'assunzione dell'identità di Haskell e le macchinazioni successive di Vera). La presenza, infine, del denaro come ultima divinità a cui le persone riescono a sacrificare la propria e altrui vita. La consapevolezza del pervertimento dell'antica pietas, messa oggi al servizio di questa entità essenzialmente malvagia, è presente al protagonista, ma, paradossalmente, lo conduce a perdizione: la sua riluttanza a sottostare alla venerazione di questo moloch, che accomuna i suoi simili (fidanzata compresa), viene punita irrimediabilmente, senza remissione, come una colpa capitale. La divinità vuole, ora come sempre, il consenso della collettività; a chi glielo rifiuta non è concesso altro destino che l'espiazione di questo peccato sacrilego. Traspare, in senso lato, il discorso politico che attraversa e collega tra loro i prodotti migliori del cinema noir, e che porterà qualche anno dopo tanti autori e sceneggiatori a misurarsi con il fenomeno della «caccia alle streghe», evidentemente pilotato da politici che non ne coglievano l'ambiguità (rifiuto dell'onnipotenza antropofaga del denaro, ma anche, dall'altra parte, disperata consapevolezza della sua ineliminabilità) in nome di un morale individuale e collettiva incapace di permettersi zone d'ombra. |
Autore critica: | Adriano Piccardi |
Fonte critica: | Cineforum n. 261 |
Data critica:
| 1-2/1987
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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