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Kundun - Kundun

Regia:Martin Scorsese
Vietato:No
Video:Medusa
DVD:Medusa
Genere:Drammatico
Tipologia:La memoria del XX secolo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dalla Vita del Quattordicesimo Dalai Lama
Sceneggiatura:Melissa Mathison
Fotografia:Roger Deakins
Musiche:Philip Glass
Montaggio:Thelma Schoonmaker
Scenografia:Dante Ferretti
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Tenzin Thuthob Tsarong (Dalai Lama adulto), Gyurme Tethong (Dalai Lama a 12 anni), Tenzin Kunga Jamyang Tulku (Dalai Lama a 5 anni), Tencho Gyalpo (la madre), Tsewang Migyur Khangsar (il padre)
Robert Lin (Mao)
Produzione:Cappa - Barbara De Fina
Distribuzione:Medusa Film
Origine:Usa
Anno:1997
Durata:

123’

Trama:

Nel 1937 in Tibet, un bambino di due anni e mezzo proveniente da una modesta famiglia viene riconosciuto come quattordicesima reincarnazione del Buddha della compassione, destinato a diventare il Dalai Lama, guida spirituale e politica della sua gente. Negli anni Quaranta, il bambino cresce sotto l'insegnamento degli anziani maestri buddisti, pronto a diventare per tutti esempio di una indomita volontà e di un fervido impegno religioso. La seconda guerra mondiale tocca solo marginalmente il Tibet ma è sul finire del decennio che i nuovi assetti politici si abbattono con forza e violenza sul Paese fino a cambiarne il corso della storia. Nel 1950, quando il Dalai Lama ha 15 anni, l'esercito comunista cinese del presidente Mao invade il Tibet, proclamandolo territorio della Cina. Ma il giovane Dalai oppone resistenza, rifiutando con fermezza di venire meno ai basilari principi del Buddismo, compresa l'ideale della non-violenza. Infine accoglie l'invito a recarsi a Pechino, dove Mao lo tratta con affabilità ma poi gli conferma che la situazione è irreversibile e che la religione deve essere bandita dalla mente delle popolazioni. Tornato a casa, il Dalai cerca ancora di organizzare una opposizione, che vorrebbe mantenere pacifica, ma i soldati cinesi infieriscono, provocando stragi e uccisioni di massa. Il Dalai vorrebbe non muoversi dal palazzo, ma gli anziani monaci insistono e nel 1959 si decide a prendere la via dell'esilio. Dopo un lungo, estenuante viaggio il Dalai Lama arriva al confine con l'India, dove viene accolto con tutti gli onori. Ha 24 anni ed oggi, 39 anni dopo, aspetta ancora di poter tornare nella propria terra.

Critica 1:Ancora una volta una passione. Com'erano L'ultima tentazione di Cristo, Toro scatenato, Mean Streets e, alla loro maniera visionaria e singhiozzata, le saghe "mafiose" di Scorsese, anche "Kundun", percorso dall'infanzia alla giovinezza esiliata di Tenzin Gyatso, quattordicesima incarnazione del Dalai Lama (in tibetano, Kundun), ha l'andamento austero e dubbioso di una predestinazione, di una maturazione, di una scelta morale. Non urlato e scandito dal furore, ma controllato da un'armonia maestosa e continua, non è per questo meno visionario: l'ultima parte della fuga verso l'India (introdotta dal pezzo di bravura del dolly che sale inquadrando Kundun al centro di una distesa di monaci morti) scivola con tempismo impagabile tra realtà e sogno, riproducendo la concitazione nervosa di entrambi, con acuti che ricordano la strage di Taxi driver e la resa dei conti di Casinò. È come se con questo film Scorsese avesse asciugato i suoi tormenti, per inseguire la pura stilizzazione (…) .Gli interrogativi incessanti che dilaniavano il suo Cristo barbaro e umano sono gli stessi di Kundun (…), ma riportati all'interno di una costruzione che nella "forma" trova la sua compiutezza. Non tessitura delle apparenze (come quella che stritola i protagonisti di L'età dell'innocenza), ma forma come espressione di spiritualità, controllo, trascendenza. La figura del mandala che apre, percorre e chiude il film è il simbolo più sontuoso ed evanescente di questo spirito formalizzato. E l'aggiustamento della prospettiva che scandisce il film (prima è ad altezza degli occhi di un bambino, poi si equilibra, per squilibrarsi di nuovo con il crollo del mondo di Kundun) è il segno più forte del percorso del protagonista. Commovente e intenso senza bamboleggiamenti, Kundun è un film che cerca di trasmettere l'anima attraverso gli occhi.
Autore critica:Emanuela Martini
Fonte criticaFilm TV
Data critica:

12/4/1998

Critica 2:Raccontami la mia storia», dice un bambino alla madre. E lei, quasi si trattasse d'una favola o d'un mito antico, gli ripete una volta ancora come, nascendo, lui abbia per miracolo trasformato il mondo, portandovi felicità e vita. Il bambino ascolta incantato, gioiosamente certo di sé. E' il centro del mondo, appunto, quello che Martin Scorsese mostra all'inizio di Kundun (Usa, 1997). Scopriremo presto che il bambino é il futuro quattordicesimo Dalai Lama. Ne seguiremo la crescita, l'educazione, i tentativi di contrastare l'invasione cinese, gli incontri con Mao Dze Dong, la fuga dal Tibet e l'esilio. Insomma, la storia diventa Storia: la vicenda d'un singolo uomo si perde e si confonde in quella di popoli, religioni, ideologie, eserciti, domini. E anche Scorsese si perde e si confonde. Da un lato, è un grande autore che vive ed esprime un'emozione. Dall'altro, é un qualsiasi narratore per immagini preoccupato di dar conto d'una tesi, di scuotere coscienze, di suscitare solidarietà. Così, appunto, si segue in platea la narrazione, comunque ellittica e intensa, di Kundum: coinvolti nella forza visiva di gran parte delle sue immagini, e però anche disturbati dall'inserimento forzato e didascalico della Storia. Addirittura un senso di penoso imbarazzo ci vince quando, a tutto schermo, incombe su di noi un Presidente Mao da cartolina. Ossia: tale e quale a quello che negli anni '70 s'è impresso nel nostro immaginario politico e ideologico, scarpe nere lucidissime ed enorme porro sul mento compresi. Ridicolo? Banale? Paradossalmente agiografico? Sembra che il cinema qui riesca a essere tutto questo insieme. Conviene lasciare al suo destino l'inusuale Scorsese "politico", e invece prestare attenzione all'autore, che é grande come sempre. Torniamo dunque alla gioia d'un bambino che sta incantato nel centro del mondo. È l'attenzione amorosa di sua madre che ce lo ha messo. Sono la favola e il mito che lei inventa e narra per lui, che lo rendono certo di sé. Non ha confini, la sua esistenza. Tutto gli appartiene, a cominciare proprio dalla madre (e infatti la sceneggiatura indugia a mostrarcelo mentre pretende di sostituirsi al padre, occupando il suo posto a tavola). «È mia, é mia», dice della collana del precedente Dalai Lama. Il portentoso, qui, non é il riconoscimento, ma proprio la certezza gioiosa dell'affermazione, che esprime l'infinita, narcisistica possibilità d'una vita che inizia. Poi, l'infinito si definisce e quel bambino giunge a scoprire di non essere il centro del mondo. Non pretende più di sostituirsi al padre. Non ha più una "sua storia", del cui racconto bearsi. A Lasa, dove politica e religione s'intrecciano, i suoi educatori lo inducono a riconoscersi in una storia che lo precede da secoli e che lo seguirà per secoli. L'incanto trasparente del suo sguardo si perde pian piano nel passato, e il suo viso diventa sempre più simile a quello, grave, dei monaci che lo circondano (in una sequenza splendida, l'incanto torna per pochi attimi nel suo riso e nella sua meraviglia per un topolino che beve rumorosamente da un calice rituale, nel silenzio della meditazione). Qualunque cosa lo Scorsese "politico" voglia arrivare a dire, questo suggeriscono le immagini del suo film: crescere significa perdere l'incanto, smettere d'essere il centro del mondo. E' del nulla che, ora, il bambino d'un tempo si trova a fare esperienza. E non si tratta, se stiamo ancora alle immagini dello Scorsese autore più che alle intenzioni dello Scorsese "politico" ; della scoperta acquietante della transitorietà del mondo, ma proprio del niente, del venir meno, dell'essere abbandonati. Muore il padre, e il suo corpo ridotto in piccoli brani viene dato in pasto agli avvoltoi. La madre invecchia, s'ammala (alla propria madre, morta nel '97, Scorsese dedica Kundun). Muoiono i vecchi maestri e amici. Anche la stoffa secolare nella quale ha imparato a riconoscersi si sgretola sotto i colpi dei carri armati e degli aerei cinesi. La sua vita mostra d'essere altrettanto insensata delle decorazioni realizzate con ghiaia minuta, cui qualunque piccolo colpo del caso toglie forma e colori (nella sequenza della fuga, quella ghiaia si confonde con la neve che cade sulle montagne del Tibet). Il bambino che stava nel centro del mondo, certo e gioioso, ora sa d'essere niente più che un riflesso di luce sopra uno stagno. Niente gli resta della "sua stoffa". Dell'infinita possibilità della vita non ha che un surrogato: le immagini che per lui catturano le lenti,d'un vecchio cannocchiale. E' azzardato sospettare che sia di sé, e della propria macchina da presa, che lo Scorsese autore qui ci stia dicendo? Non é, questo, ben più importante per il suo cinema - per la "sua stoffa" -, di qualunque, tesi da dimostrare, di qualunque coscienza da scuotere; di qualunque solidarietà da suscitare?
Autore critica:Roberto Escobar
Fonte critica:Sole 24 Ore
Data critica:

5/4/1998

Critica 3:Aspetto centrale del film è la crescita del piccolo Lama, dall'età di due anni - quando viene "scoperto" dai monaci - a quella adulta, contrassegnata dall'incontro con Mao, dalla guerra e dall'esilio in India. La formazione di questo personaggio, tuttavia, si differenzia significativamente rispetto ad altri film biografici consimili. Il protagonista, infatti, non è un bambino che, attraverso l'educazione, le esperienze, le inclinazioni, i desideri, forma il proprio carattere e costruisce un percorso in larga misura impossibile da prefigurare, un destino le cui componenti si incastrano di giorno in giorno producendo un'esistenza sulla quale è difficile mantenere un controllo totale. Il piccolo, infatti, è già il Lama sin dalla nascita, poiché nella tradizione buddista egli è il Kundun, ossia la reincarnazione del Buddha, lo strumento terreno del quale si serve un'anima immortale. La sua missione di vita, al di là degli eventi politici e sociali, è già scritta: sarà la guida del suo popolo e rappresenterà la continuità di una tradizione religiosa e filosofica millenaria. Il bambino, dunque, attraverso l'insegnamento dei monaci, non dovrà far altro che prendere coscienza della propria essenza e trovare dentro di sé il Lama che già abita il suo corpo. Il film si concentra proprio su questi aspetti di ricerca di un’identità predeterminata: dal riconoscimento degli oggetti appartenuti al Lama precedente alla presa di possesso dello spazio che gli appartiene (il trasferimento a Lhasa e la separazione dalla famiglia), dalle domande rivolte ai monaci («Che cosa posso fare? Sono solo un bambino») al suo sguardo perennemente rivolto al mondo esterno (la scoperta del cinema, l'uso del cannocchiale). Centrale, in questo senso, è il ruolo dell'educatore rappresentato dai monaci che, a differenza dei maestri di scuola, non devono "insegnare" bensì essenzialmente "far ricordare" al Lama lo spirito della sua missione e le responsabilità che dovrà assumersi (che si è già assunto quando è nato). I monaci sono delle guide, aiutano il bambino a diventare guida egli stesso, rispondono ai suoi interrogativi affinché un giorno sia lui a rispondere ai loro quesiti.
Inevitabilmente il film affronta anche il tema dello scontro tra la religione buddhista e una situazione politica che sta precipitando. L'aggressiva politica comunista del presidente cinese Mao cozza con la vita pacifica dei tibetani, che desiderano mantenere la loro indipendenza e l'isolamento che li ha sempre contraddistinti. Benché venga ricevuto a Pechino con grande rispetto, il Dalai Lama non può scongiurare l'invasione del suo paese da parte dell'esercito cinese ed è costretto ad assistere a terribili violenze. Il rispetto della religione, infatti, non si può combinare con l'ideale comunista della società e dell'economia: il Tibet viene annesso alla Cina e la religione è bandita. Fa parte del tema religioso anche la questione del pacifismo e della non-violenza, caratteristica propria del buddhismo. Il piccolo stato guidato dal Dalai Lama non crede nella violenza, tenta di difendersi con il dialogo e il confronto ma viene sconfitto. Il film rappresenta con grande attenzione il dramma umano e religioso del Lama, costretto ad arrendersi di fronte all'aggressività degli uomini e condannato a un esilio volontario che lo tiene lontano dal suo popolo e dal paese che era destinato a guidare.
Autore critica:Stefano Boni
Fonte critica:Aiace Torino
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
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