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Fanny e Alexander - Fanny och Alexander

Regia:Ingmar Bergman
Vietato:14
Video:General Video, San Paolo Audiovisivi, De Agostini
DVD:San Paolo Audiovisivi
Genere:Drammatico
Tipologia:Diventare grandi, Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Ingmar Bergman
Sceneggiatura:Ingmar Bergman
Fotografia:Sven Nykvist
Musiche:Daniel Bell, Benjamin Britten, Frans Helmerson
Montaggio:Sylvia Ingermarsson
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Pernilla Allwin (Fanny Ekdhal), Bertil Guve (Alexander Ekdhal), Ewa Froeling (Emilie Ekdahl), Gun Wallgren (Helena Ekdahl), Jarl Kulle (Gustav Adolf Ekdahl), Allan Edwall (Oscar Ekdahl), Borje Ahlstedt (Carl Ekdahl)
Produzione:Cinematograph Ab, Tv Svedese, Gaumont (Francia), Persona Film, Tobis Film Kunst (Germania)
Distribuzione:Cineteca dell'Aquila
Origine:Svezia
Anno:1982
Durata:

182'

Trama:

Sera di Natale (1907) nella sontuosa dimora della famiglia Ekdhal, in una città di provincia in Svezia. Su figli, nuore e nipoti regna Elena, ex attrice, donna autoritaria ma amabile, contornata dai figli Oscar (attore, con la bella moglie Emilie, già attrice essa stessa), Gustaf Adolf (amministratore del teatro), marito focoso e superficiale di Alma, donna giuliva e tollerante, e Carl (frustrato, lamentoso e perennemente indebitato, coniugato a una tedesca). Sono figli di Oscar e di Emilie i due decenni Fanny ed Alexander. La famiglia è in seguito funestata dalla repentina morte di Oscar, che avviene dopo una recita di Amleto: tutti sono toccati dall'evento, Emilie ne è profondamente colpita e i due bambini, Alexander soprattutto, percepiranno la morte del loro affettuoso e sensibile padre come un qualcosa che lacera per sempre la loro infanzia medesima. Oscar molto spesso sarà visto in sogno e "rivisitato" da Alex come un bianco fantasma che si aggira tra i velluti e damaschi della ricca dimora: un fantasma che è un dolce e silente protettore. Ma la vedovanza non dura a lungo: i due ragazzi vengono presentati al vescovo Edward Vergerus, uomo maturo, estremamente rigorista e formale e di costumi spartani. Essi lo detestano, ma sono ovviamente obbligati a seguire la madre che lo ha sposato, lasciando la nonna, la loro bella casa e perfino i giochi, per condurre in un gelido vescovado una esistenza arida e intristita disciplinata da leggi rigidissime e in un ambiente pressochè spoglio, che è dominato dalla spigolosità della madre e della sorella di Vergerus. Ogni mancanza pur minima è freddamente valutata e punita. Un vecchio amico di Elena (amico, ma anche suo ex innamorato), l'antiquario ebreo Jack Jacobi (che già era presente alla festa di Natale e che tutti considerano da tempo come di famiglia) impietosito della sorte dei due fratellini, organizza personalmente il ratto di essi dal vescovado, con il pretesto dell'acquisto di un antico cassone situato nell'ingresso, dove i bambini vengono nascosti, per essere poi ospitati nel negozio, zeppo di cianfrusaglie, statue misteriose e mille oggetti interessanti. È là che vive lo "zio" Jack con i suoi due figli, di cui uno (Ismaele) è perennemente segregato, non essendo del tutto normale. Sarà l'ambiguo Ismaele che, dotato di evidenti poteri parapsicologici, strumentalizzerà l'odio e la volontà di morte dell'affascinato ragazzo contro il patrigno Edward. Nel vescovado, Vergerus, che ha bevuto una tazza di brodo, nel quale Emilie ha posto del bromuro per una notte più tranquilla e che si è addormentato, dopo aver ammesso piangendo la propria amara sconfitta affettiva e umana, muore bruciato vivo: una zia anziana semiparalizzata, che vive in famiglia, fa sbadatamente cadere una lampada a petrolio e appicca il fuoco. È come se Alexander avesse realizzato il proprio desiderio di vendetta. Emilie torna nella dimora paterna (per la polizia il caso è stato accidentale e lei ne esce indenne); i bambini tornano con lei e ritrovano la cara nonna e i mai dimenticati loro giocattoli (lanterna magica inclusa).

Critica 1:Divisa in 5 capitoli (1. Il Natale; 2. Il fantasma; 3. Il commiato; 4. I fatti dell'estate; 5. I demoni), un breve prologo e un lungo epilogo, è la storia della famiglia Ekdahl di Uppsala tra il Natale del 1907 e la primavera del 1909 con una sessantina di personaggi, divisi in quattro gruppi, che passa per tre case e mette a fuoco tre temi centrali: l'arte (il teatro), la religione e la magia. Congedo e testamento di Bergman, uomo di cinema, è una dichiarazione d'amore alla vita e, come la vita, ha molte facce: commedia, dramma, pochade, tragedia, alternando riti familiari (lo splendido capitolo iniziale), strazianti liti coniugali alla Strindberg, cupi conflitti di tetraggine luterana che rimandano a Dreyer, colpi di scena da romanzo d'appendice, quadretti idillici, intermezzi di allegra sensualità, impennate fantastiche, magie, trucchi, morti che ritornano. Un film "dove tutto può accadere". Compendio di trent'anni di cinema all'insegna di un alto magistero narrativo. Ebbe 4 Oscar (miglior film straniero, fotografia di Sven Nykvist, scenografia, costumi): un primato per un film di lingua non inglese. Girato in doppia versione, per cinema e TV.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:- “EI.BLOT.TIL.LYST” (Non solo per la gioia) - “Tutto può accadere, tutto é possibile e verosimile. /I tempo e lo spazio non esistono. Su una vacillante base di realtà, l'immaginazione fila e tesse nuove trame”.

Così inizia, così finisce Fanny e Alexander. Con un motto inciso sul frontespizio della baracca delle marionette azionate da Alexander, messo in evidenza nella prima inquadratura dei film (in lingua norvegese, non in svedese) e con la frase di Strindberg letta da Helena, la matriarca della famiglia Ekdahl, dal copione di Il sogno, apparso da qualche anno (siamo nel 1908).
La gioia, non solo la gioia (dunque il dolore), il sogno ad occhi aperti del ragazzino che lascia libero corso alla sua fantasia, il potere dei l'immaginazione e la possibilità per l'uomo di vincere il destino e costruirsi un mondo proprio, retto dalla volontà e dal potere dei suo pensiero.
C'è già qui - o almeno così pare, ma c'è dell'altro - tutto il senso dell'ultima fatica bergmaniana, ultima anche in senso proprio e non solo cronologico, stando a quanto più volte dichiarato dal regista, che a 65 anni dice di non voler competere con le nuove generazioni e di non essere in grado di adattarsi alle nuove tecniche espressive che assediano il cinema da ogni parte (salvo poi sottoscrivere impegni per lavori televisivi). A proposito di televisione, premetto che questa scheda riguarda il film che si proietta nelle sale cinematografiche, lungo 3 ore e 2 minuti, e non quello originale destinato alla TV, lungo 5 ore e 9 minuti. Alla Mostra di Venezia dello scorso autunno, fuori concorso, si è vista la versione “lunga”: la descrizione dei lungo pranzo di Natale è ridotta, mancano i racconti fantastici di Oscar Ekdahl, il padre, e di Isak Jacobi, l'antiquario ebreo (ed è ristretta fino ad un'apparizione la presenza dell'attore decano del teatro, impersonato da Gunnar Bjornstrand), ma direi proprio che il racconto non ne è sostanzialmente danneggiato.
Film imbarazzante, come al solito. Tra l'altro un kolossal da 6 miliardi e 800 milioni che ha appesantito notevolmente il bilancio dell'istituto cinematografico statale svedese; mancando quasi completamente - in Svezia - gli investimenti privati, il “Filminstitutet” si è visto minacciato di paralisi. Poi comunque sono intervenuti dei produttori stranieri facendo rientrare le polemiche: dopo l'uscita dei film tutti i critici svedesi inneggiavano al capo d'opera.
Imbarazzante, Fanny e Alexander, soprattutto per i dubbi sulla sua “utilità” nel contesto dei cinema contemporaneo. Non serve qui definirlo “bello”, gridare al capolavoro, tacciarlo di rimasticatura gigante, demolirlo come opera senile (lo stesso autore ha messo le mani avanti, quando fa dire al personaggio “simpatico”, Gustav Adolf: “La mia saggezza è semplice, e certamente ci sarà gente che ne ride o la disprezza: che vada pure al diavolo... prendetela come vi pare, magari come il balbettio farneticante di un vecchio, non me ne importa niente”). Indubbiamente si tratta di una pellicola bella da vedere, ricca di preziosità fotografiche e coloristiche, ineccepibile nella resa ambientale, ottimamente interpretata. È vero che è un arazzo, una “immensa tappezzeria ricoperta di immagini”, come ha detto Bergman; ma su questo arazzo vengono ricamati messaggi che possono dar fastidio a molti: relativi, per ridurli a soldoni, all'accettazione delle cose perché tanto non si possono cambiare, all'indulgenza verso i nostri simili, al recupero della fantasia, all'arte come consolazione.
È la filosofia dei “mondo piccolo”, definizione che ricorre sia nel discorso dei direttore del teatro ai suoi comici, sia in quello finale, conciliativo, di Gustav Adolf; poichè “il mondo è una tana di ladroni, e la notte sta per calare”, godiamo di quella gioia che la vita riesce a darci, quando ce la dà, e costruiamoci un nostro rifugio confortevole che ci serva da riparo contro gli assalti dei “cani impazziti” che hanno strappato le catene e vagano per il mondo a contaminare tutto quello con cui vengono a contatto.
Tutte cose o ovvie o discutibili. Bisogna tener conto dei fatto, credo, che Bergman ha voluto intenzionalmente rifarsi alle sue opere precedenti, modificando poi la sua visione delle cose in un atteggiamento di una certa, almeno apparente, serenità, e salutando al passaggio autori e concenzioni che gli sono cari.
Che si tratti di una “summa” non c'è dubbio: Bergman avrebbe voluto riunire, in questo “embrassons-nous” a 360 gradi, tutta la sua famiglia, tutti i suoi attori più fedeli: per esempio le mogli, ma Liv Ullman non poteva; per esempio i figli, ma Liv non gli ha permesso di utilizzare la figlia Lyn, che avrebbe dovuto essere la sorella quattordicenne di Fanny e di Alexander, secondo la sceneggiatura originale.
Comunque all'impresa partecipano una ex - moglie (la pianista Käbi Laterei nel ruolo di zia Anna) e la moglie attuale (Ingrid Von Rosen, corresponsabile della parte amministrativa), due figli (Anna e Mats) fra gli attori e uno (Daniel) come vice - assistente alla regia.
Tra gli attori agiscono i veterani Jarl Kulle, Erland Josephsson, Harriet Andersson, Gunnar Bjornstrand.
“Ho voluto solo raccontare una storia” ha dichiarato Bergman. Però ha anche detto che il film è “una dichiarazione di amore per la vita”. Una risposta a chi lo rimproverava di fare pellicole serie, tristi e deprimenti. Dunque un film tutto nuovo, tutto diverso da quei quaranta film venuti prima?
Non direi. Prenderlo per un ilare messaggio basato sul “volemose bene”, sull'esaltazione della buona tavola e dei piaceri della carne relegando in soffitta i bau-bau (naturali e soprannaturali) mi sembra un grosso abbaglio. (...)
La vena più autentica di Fanny e Alexander è la melanconia, che è una disperazione tranquilla, ma sempre uno stato di tristezza, accompagnato spesso dall'ansia (e ciò anche se Bergman fa professione di pacificazione patriarcale): tanto più evidente, questa “chiave”, nell'edizione filmica di tre ore, in cui i fatti “drammatici” ci sono tutti e risultano perciò condensati, mentre in quella “lunga” essi risultano diluiti fra parti compiaciute dove domina il piacere della descrizione e della contemplazione.
Non è questione di fatti, dunque, ma di atteggiamento, Non di “messaggi” e di nuovi approdi bergmaniani, ma di sfumature. Fanny e Alexander è un film di sottigliezze, ed è qui il suo interesse primario, qui sono le sue cose più belle, dentro il gran racconto opulento dalla struttura di kolossal familiare, che può anche apparire sussiegosamente estetizzante.
Già subito all'inizio, per esempio, vediamo Alexander nascondersi sotto il tavolo, nella grande casa vuota, timoroso non della gente, che non c'è, ma di qualcosa che aleggia intorno. Spesso Alexander espliciterà la sua paura: quando si rintana in un angolo per non avvicinarsi al padre morente, quando strappa a forza la mano da quella di quest'ultimo, quando snocciola parolacce al funerale per non cedere allo sconforto, quando respinge l'amore dei padre, quando piange perché sente “la voce di Dio”, quando gli appare il fantasma del padrino, di cui Alexander non potrà più liberarsi (“Iieto fine”, ma con lo spettro appollaiato sulla spalla).
Ancora all'inizio, nell'euforia dei lieti preparativi per la festa natalizia, nonna Helena sospende inspiegabilmente la sua attività e si incupisce senza motivo apparente. Oscar, il padre dei ragazzi, pronuncia il suo discorso agli attori con evidente pena, e non si tratta solo della sua stanchezza o dei sintomi dei suo male: è questa sofferenza a far riflettere sull'apparente banalità dei confronto tra il “mondo piccolo” dei teatro, fatto “di disciplina, coscienza, ordine e amore”, e il mondo di fuori, riflesso sulle tavole dei palcoscenico.
Spesso le situazioni più scoperte, più apparentemente serene, vibrano di angosce nascoste o improvvise, inquietanti: come nello schiaffo dato da Alma, la moglie tollerante, alla “rivale” Maj quando i bambini vengono messi a letto, schiaffo che viene ad inserirsi come un lampo sinistro tra i gesti di affettuosità che la signora, senza alcuna ipocrisia, riserba alla ragazza. Lo stesso amore di cui quest'ultima è oggetto da parte di Gustav Adolf, il godereccio, è un amore inquinato, paternalistico, possessivo, che la fa piangere e la spinge a ribellarsi alla tutela insieme alla figlia di lui; e già prima un altro risvolto drammatico suggella la sequenza festosa dell'amore tra i due, quando Gustav Adolf fa crollare il letto per il suo impeto d'amante ma poi si risente perché gli sembra che Maj si prenda gioco di lui (e invece non capisce niente di lei, di questo delizioso e tenero personaggio).
L'amore, questo amore tanto conclamato nel film, è contorto e tragico nel caso della coppia Carl - Lydia, l'intellettuale frustrato e la moglie che gli fa pena e rabbia, e naturalmente in quello della coppia Emilie - vescovo Vergerus. Dietro quest'ultimo rapporto ci sono il fantasma della prima moglie, annegata con le figlie, ed una mentalità che comprime I' angoscia nella gelida compostezza dei comportamento e dell'arida abitazione espiscopale, percorsa dalle ombre oscure di parenti e cameriere decisamente lugubri. Macabri sono poi il particolare dei seppellimento delle tre annegate (“hanno dovuto segare le braccia per staccarle le une dalle altre e comporle nelle bare”) e l'inserto di Vergerus bruciato a metà. E prima c'è la significativa inquadratura dei catafalco su cui giace Oscar, il primo marito, visto attraverso l'apertura della porta scorrevole che divide il quadro in una simmetria perfetta sia per lo spazio che per il rapporto luce ombra, in cui le grida ferine di Emilie, la vedova, lacerano la raffinata composizione.
L'inizio è retto dalla straziante dolcezza dei Quintetto in mi bemolle con pianoforte di Schumann. Ma più avanti, e cioè a partire dall'inquadratura della bambola rotta e rovesciata nel greto dei fiume, sotto la pioggia, dopo il trasferimento di Emilie e dei ragazzi al vescovado (più tardi, in quello scorrere rabbioso di acque che segna il passare dei tempo, farà oscena mostra di sé la carogna di un animale), più avanti, si diceva, a Schumann si sostituiscono alcuni passi di Suites per violoncello solo di Britten, che sono come sospesi sull'orlo di abissi inesplorati; cui si alternano tocchi sinistri, poche note sparse, dei pianoforte, sempre con un effetto angoscioso che ci riporta alle atmosfere sonore della trilogia dei film da camera (Come in uno specchio - Luci d'inverno -Il silenzio) ed di Persona.
L'umiliazione è un'altra costante dei film: quella di Alexander da parte dei vescovo, quella di Lydia da parte di Carl, quella di Isak Jacobi da parte ancora dei vescovo; ma neppure i personaggi “positivi” sono esenti da colpe. In fondo il film è una storia di fallimenti e di errori; e tanti ne compiono Emilie nei riguardi dei figli e Gustav Adolf nei riguardi della sua famiglia. E poi rileggiamo la tirata di quest'ultimo alla festa di battesimo finale, e vi troveremo accenti non esattamente giubilanti, nell'esortazione al dovere di essere felici, quando si è felici, che sembra un invito ad afferrarsi ad una tavola galleggiante in un mare in tempesta.
Tutto considerato Fanny e Alexander ci appare una “summa” in cui Bergman si compiace di raffigurarsi in tutti i personaggi, ma una “summa” fatta più di una colonna di addendi che di un risultato perentorio e definitivo. Se pensiamo per es. a tutto quanto riguarda i temi veterobergmaniani come l'animismo, il misticismo, i concetti di Dio e così via ci accorgiamo che siamo ancora e sempre allo stesso punto, cioè sempre nel bel mezzo delle sabbie mobili.
Diciamo che dopo tante sonate, quartetti, concerti da camera, siamo giunti alla sinfonia per grande orchestra (ora sì sinfonia, non come quella d'autunno che era diventata tale solo per volere dei distributori italiani). E forse la chiave giusta per considerare questo film è prenderlo come una grande metafora dei teatro, dei cinema, dello spettacolo in genere. Qui l'amore si esplica davvero senza riserve, sia che si mettano in scena i quadri plastici di un presepe popolare sia che si progetti Strindberg, sia che si esegua la marcetta da circo che il Beethoven della marcia funebre; e il teatro in muratura, la baracca di legno delle marionette, la meraviglia tecnica della lanterna magica hanno la stessa dignità e la stessa funzione. Anche nella cialtroneria, la gente di spettacolo è amata (“Mi piacciono soprattutto le persone che lavorano in questo mondo”): vedi la sequenza a nostro parere più bella dei film, quella in cui Oscar, che si è sentito male, in teatro, viene portato a casa su una carretta, ancora cinto nella sua armatura di latta, e attorno si agitano attori mezzo “in borghese” mezzo in costume, con ridicole spade legate alla cintura. Ma pieni di autentica ansia, vibranti di pena vera.
Non si poteva rendere meglio - con un omaggio alla miseria e nobiltà del teatro, con un richiamo alla commedia dell'arte e a Molière - il rapporto tra realtà e finzione, teatro e vita, vita e morte.
Autore critica:Ermanno Comuzio
Fonte critica:Cineforum n. 231
Data critica:

1-2/1984

Critica 3:L’elemento intorno al quale ruota tutta la storia è la famiglia: gli Ekdahl rappresentano l’ideale di parentado immaginato dal regista. Famiglia allargata e variegata, fondata sulla libertà e sulla voglia di esprimersi dei suoi componenti, guidata con mano dolce e comprensiva da nonna Helena. Luogo ideale per crescere e per accrescere il lato fantasioso e creativo delle persone. Alex matura sotto l’egida di più modelli, si diverte, gioca, capisce quello che ha attorno grazie alla ricchezza e alla molteplicità di comportamenti dei suoi parenti: quello del padre Oscar, uomo giusto e attaccato alla famiglia; quello dello zio Gustav, allegro donnaiolo e intento a godersi il più possibile la vita; ma anche quello dello zio Carl, spesso ubriaco e violento con la moglie.
In antitesi c’è il modello pastorale ecclesiastico incarnato dal vescovo Vergerus. Qui non solo il contesto in cui crescono i ragazzini è spoglio, grigio, nudo, povero, ma anche l’educazione impartita dall’uomo è indirizzata all’impoverimento dell’animo umano. Non si parla di assenza di formazione, ma di formazione all’inettitudine, al terrore, alla mediocrità. I sogni fantastici di Alex, che nella casa di famiglia ben si accordavano al clima creativo che avvolgeva i teatranti, ora si trasformano in incubi, il più terribile dei quali è proprio il sogno della morte di Vergerus, sogno che si realizzerà per mano inconsapevole della madre.
L’inno alla vita al quale assistono Alexander e Fanny – la ragazzina per la verità in maniera solo strumentale, vista la tenera età e visto il semplice ruolo di “spalla” che ha nel corso di tutto il racconto – non ha sede solo tra le quattro mura domestiche, ma anche sul palcoscenico.
Il teatro è il luogo dove si può esprimere la fantasia e la creatività dell’uomo, dove le paure si trasformano in invenzione, dove la finzione diventa realtà. Non è un caso che il film inizi con un’inquadratura di Alex che gioca spostando marionette in un teatrino in miniatura, né che il padre dell’adolescente muoia sulla scena recitando l’Amleto proprio sotto i suoi occhi, né che il posto dove Alex ritrova la gioia di vivere sia la casa di Ismael, piena di maschere, costumi, travestimenti, né che lo zio Gustav, nel monologo finale, pronunci queste parole «Attori, attrici, abbiamo un grande bisogno di voi perché sarete voi che ci darete brividi di soprannaturale e soprattutto anche i nostri piaceri terreni», né che il film si concluda con il ritorno di Helena e Emilie sul palcoscenico. Il teatro è vita, è educazione, è possibilità di espressione, è realtà e ricerca della spiritualità. Senza il teatro l’immaginazione di Alex non avrebbe via di sfogo e rischierebbe l’asfissia se incanalata in un luogo senza ‘spettacolo’ come la canonica del vescovo.
La morale laica della pellicola coinvolge anche il tema delle religioni e della spiritualità. Il modello osteggiato dal film, quello calvinista di Vergerus, basato su regole rigide e precetti, intenzionato a reprimere la libertà col peso delle prescrizioni, non suggerisce un’assenza di ricerca spirituale e un tentativo di non rispondere ai dubbi sull’aldilà. Alex vede il fantasma del padre che assume il ruolo dell’angelo custode. Dopo la sua morte è il vescovo Vergerus ad apparire agli occhi del ragazzo come un novello diavolo. La dimensione del soprannaturale è per Alex una concreta realtà. In tal senso l’adolescente si fa unico ponte tra i due mondi, quasi a dimostrare che la capacità di vedere gli spiriti (soprattutto quelli interiori) sia privilegio esclusivo dei più piccoli. Un privilegio che Alex ha allenato con l’immaginazione acquisita col teatro, con l’osservazione attenta di ciò che lo circonda (la narrazione procede seguendo il suo punto di vista), con un equilibrio dei comportamenti che è alieno a tutti gli adulti.
Autore critica:Marco Dalla Gassa
Fonte critica:Aiace Torino
Data critica:



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