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Troppo presto, troppo tardi - Trop tôt, trop tard

Regia:Danièle Huillet; Jean-Marie Straub
Vietato:No
Video:Biblioteca Rosta Nuova - visionabile solo in sede
DVD:
Genere:Documentario
Tipologia:Il lavoro, La memoria del XX secolo
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:
Sceneggiatura:Jean-Marie Straub e Danièle Huillet da una lettera di Engels a Kausky e da un brano della postfazione di "Lotte di classe in Egitto" di Mahmoud Hussein
Fotografia:Willy Lubtchansky, Caroline Champetier, Robert Alazraki, Marguerite Perlado
Musiche:
Montaggio:Jean-Marie Straub e Danièle Huillet
Scenografia:
Costumi:
Effetti:
Interpreti:
Produzione:Straub-Huillet
Distribuzione:Cineteca di Bologna
Origine:Francia – Germania – Egitto
Anno:1981
Durata:

100'

Trama:

Nella prima parte sulle immagini attuali della campagna bretone, una voce fuori campo legge alcune pagine di Friedrich Engels dedicate alla condizione miserevole dei contadini di quei luoghi alla fine del Settecento. La seconda parte prevede immagini dell'Egitto dei giorni nostri con, nel sonoro, un testo dello storico Mahmoud Hussein sulla lotta di classe da Napoleone fino a Sadat e su come tutti i movimenti di liberazione in quella terra siano sempre stati stroncati dagli inglesi o recuperati dalle caste dirigenti locali.

Critica 1:Riflessioni sulla lotta di classe. Per gli appassionati di Huillet e Straub.
Autore critica:
Fonte critica
Data critica:



Critica 2:Per l'ultimo film di Straub/Huillet, Trop tôt, trop tard, sono stati evocati con un'insistenza inusitata - da parte della critica come degli autori stessi - dei termini assoluti: evidenza, essenza (del cinema), giustezza (del punto di vista), documento. L'impiego di queste espressioni così radicalmente datate (e quindi anche la paradossale umiltà che vi è celata) non può sorprendere del tutto chi già conosce i primi 11 capitoli dell'opera straubiana. Ognuno di essi infatti può essere considerato come la sperimentazione di un'idea di cinema che prevede obbligatoriamente la documentazione di avvenimenti e situazioni reali, vere, corposamente materiali (voci, rumori, paesaggi, corpi). Un cinema che non si pone esclusivamente come simulacro di se stesso, dei propri meccanismi, della propria retorica, che manifesta quindi un'inevitabile repulsione per il trucco, l'effetto, l'arbitraria chiusura di sguardi e parole, e anche per la troppo vaga definizione di immagini e suoni che contraddistingue mediamente il cinema già televisivo di oggi.
Ma cosa resta in realtà da rappresentare con giustezza e con quali strumenti? Trop tôt, trop tard ci indica in effetti una risposta estrema, legata comunque al principio generativo stesso del cinema di Straub/Huillet: il confronto tra una parola, una scrittura «precedente» e delle immagini «contemporanee». In questo caso - resoconto forzatamente generico accennato com'è a partire dal ricordo di una sola visione - il confronto si pone con lo stesso principio nelle due parti distinte che formano il film. La prima (circa 30')
mette in relazione la voce di Danièle Huillet - che legge fuori campo una lettera di Engels a Kautsky sulle condizioni di vita, descritte con asettiche statistiche per ogni zona del paese, del popolo francese alla vigilia del 1789 - con immagini e suoni in «campo totale» delle città (Parigi e Lione dall'alto, la piazza della Bastiglia) e soprattutto degli ambienti rurali (i villaggi della Bretagna) citati dal testo.
La presenza dell'uomo vi è assente, restano solo le tracce del suo lavoro. Nella seconda parte (70') è una voce maschile che racconta le lotte di classe in Egitto negli ultimi due secoli mentre la camera attraversa con percorsi regolari i luoghi (la terra strappata al deserto, ma anche i cancelli di una fabbrica all'uscita degli operai) che di queste lotte sono il centro; la posta, più che lo sfondo. Il primo riferimento di rappresentazione per Straub e Huillet sembra essere dunque la materia stessa della parola e dell'immagine, o meglio la riduzione a materia di parole e immagini nel rifiutarne l'inserimento in un sistema tradizionale di costruzione gerarchica che le ordini e le giustifichi narrativamente, ma che finisca in realtà per cancellarle in quanto tali percettivamente. L'operazione avviene in termini analoghi per i due piani dell'espressione. Il testo scritto
viene sottoposto come sempre a un lavoro analitico di destrutturazione e rilettura che porta in primo luogo all'individuazione di un ritmo della parola, a una sua precisa scansione temporale. Le voci fuori campo procedono in modo «asimmetrico», lontane da un ideale di «pulizia professionale», con le loro dizioni imperfette, le inflessioni dure e privi di sfumature, le pause improvvise. L'intento è quello di far riacquistare ai testi una sorta di senso originario e di impatto quasi «militante» (a contatto con una visione dell'oggi) di recuperare una sostanza di suoni perfino volgare - depurata da pratiche di lettura fatte unicamente di sovrapposizioni culturali - e quindi concepita per essere effettiva mente sentita e interrogata al cinema, non rapidamente fagocitata dall'abituale percezione sonora, effimera e «priva di direzioni».
Allo stesso modo le immagini del film vengono svuotate di ogni potenziale retorica de racconto visivo. L'inquadratura non è ma funzione esclusiva di un'idea precinematografica nè controllata e messa in scena preventivamente in vista di un determinato sviluppo narrativo. È frutto invece di una continua ricerca, di un'esplorazione fisica (pur attentamente programmata) del profilmico che porti prima di tutto a definirne esattamente gli elementi essenziali; spazi, confini, movimenti interni, profondità sonora, e permetta quindi allo spettatore di vedere e valutare a sua volta ciò che abitualmente gli è celato (o relegato in «secondo piano») dallo sguardo centralizzato dell'autore. Il rispetto quasi mistico, leggendario di Straub e Huillet per immagini e suoni nella loro integrità non è altro che espressione di questo rapporto non parassitario col profilmico, dell'assioma secondo cui solo l'apertura umile e totale a ciò che si è voluto trovare durante le riprese (quel paesaggio, quel corpo, la loro eventuale relazione ecc.) può darci la verità del racconto, del frammento di Storia (col sapere in esso contenuto), scelto in partenza. E viceversa.
La grande evidenza di Trop tôt, trop tard è infatti la dimostrazione di come immagini e testo fuori campo possano acquistare senso complessivamente soltanto dal loro rapporto, senza che questo interscambio continuo di informazioni sia espressione di una dialettica immediata, tutta «intellettuale», ricercata inquadratura per inquadratura. È lontana da Straub/Huillet la volontà - propria di un certo documentarismo o all'inverso di certo cinema sperimentale - di trovare corrispondenze precise tra banda visiva e commento sonoro e ancor meno di istituire preventive gerarchie di senso per cui un elemento venga a porsi come generico supporto dell'altro. C'è invece una piena consapevolezza del vero e proprio scontro che si produce inevitabilmente tra due realtà (percettive) non omologabili. I due racconti - quello visivo e quello fuori campo - sono sempre contigui: ora illusoriamente densi di reciproci, diretti rimandi, ora misteriosamente contrapposti, «insensibili» l'uno all'altro. Ed è proprio questa differenza di livelli, questa mancanza di consolanti rispondenze, che consente alla fine di cogliere la lezione di Storia scaturita dalla visione di uno spazio e di un tempo materiali.
Nella prima parte sentiamo una voce che ci dà informazioni, «cataloghi» di avvenimenti
passati, mentre ciò che vediamo è precisamente quella parte di Storia che il linguaggio scritto non può realmente descrivere, sia essa la conformazione di un terreno o quella di un tessuto urbano con tutta la ricchezza dei loro «segni in movimento». E ogni sequenza, ogni paesaggio ha una propria durata che è quantitativamente diversa da quella necessaria alla voce fuori campo. La macchina da presa impiega un tempo determinato, giusto, per riprendere integralmente un territorio: per inseguire un rumore fuori campo o cogliere i cambiamenti di luce naturale che si manifestano con incredibile rapidità nello stesso campo nei pressi di un villaggio o ancora semplicemente per determinare l'estensione di un intervento secolare dell'uomo sulla natura.
In più gli autori sono consapevoli di come le immagini richiedano dei tempi di percezione che non sono quelli della parola: è necessario - come nella prima sequenza - percorrere nel suo senso circolare la Place de la Bastille una, due, più volte per captare le tracce di un passato sbriciolato dallo spazio caotico della metropoli e per sovrapporre alle parole di Engels la fisicità del tempo trascorso.
Si può dire dunque che il senso delle lotte - di rivoluzioni le cui condizioni si sono sempre verificate troppo presto o troppo tardi - introdotto dal testo engelsiano con premessa quasi didattica, sia «contenuto» nelle immagini del film, ma a patto che non si consideri il visibile come traduzione ed eventuale commento della parola, momento «successivo» ad essa. La camera di Straub/Huillet ben prima di orientare («narrativizzare») lo spazio, pone semplicemente le condizioni materiali per comprenderlo. Misurare e definire «con sensi più precisi dei nostri» (m.d.p. e Nagra) il luogo fisico, «teatro» degli avvenimenti elencati fuori campo, significa istituire di nuovo una visione essenziale, «primitiva», che si concentri prima di tutto sulle cose scoprendovi il marchio indelebile del tempo nel rapporto tra gli elementi del paesaggio attraversati più vistosamente dalla Storia e quelli immutabili (il cielo, così visibile in ogni inquadratura). (…)
Quando la narrazione della voce fuori campo si avvia verso la sua conclusione riferendosi ad avvenimenti recenti (gli anni '50, la liberazione del popolo dal colonialismo, ma non dall'oppressione di classe), alle immagini di campi strappati all'aridità del suolo succedono inattesi i volti dei leaders politici di quegli anni. Sono filmati di repertorio, resoconti quindi di apparizioni pubbliche, ufficiali, che appaiono oggi fantasmatiche e mortuarie, espressione comunque di una facciata rituale della Storia (in cui si cristallizzano scelte prese altrove) che i media si affrettano a legittimare; necessario complemento per contrasto della lunga serie di inquadrature solari, fisiche che di nuovo sembrano venire prima del cinema, di quel cinema. E infatti all'improvviso, con la sequenza finale, un'immagine-programma: con un lento movimento verticale la camera scende da un'alta ciminiera per finire su un cespuglio mosso delicatamente dall'acqua, sulle rive del fiume sottostante. È quasi la nostalgia di una rappresentazione antica, «simbolica»; in ogni caso un affascinante compimento, ci sembra, di tutta l'operazione didattica e insieme «emozionale» di Straub/Huillet.
Torna alla mente un passo di Bazin in cui l'autore, stigmatizzando la retorica dei cineasti nell'utilizzazione degli spazi naturali, si chiedeva, non senza ironia: «Perché il cielo si mette da solo all'unisono con l'avvenimento con più sicurezza della più sottile ambientazione in studio? Perchè, in una parola come in cento, il caso e la realtà hanno più talento di tutti i cineasti del mondo?».
Straub e Huillet avvertono l'esigenza di porsi di fronte a questa domanda paradossale (che dopo 30 anni assume di colpo nuove risonanze) con l'umiltà di chi compie un'impresa forse utopica ma fondamentale. Documentare veramente per capire (la Storia letta in ciò che abbiamo sotto gli occhi e non riusciamo più a vedere) è forse necessario oggi, dove quasi nessuno osa più ricercare quelle immagini che sfuggano al meccanismo imperante della loro riproduzione continua, assoluta, senza vita.
Autore critica:Fabrizio Grosoli
Fonte critica:Cineforum n. 217
Data critica:

9/1982

Critica 3:
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Data critica:



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