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Al di là della vita - Bringing out the death

Regia:Martin Scorsese
Vietato:No
Video:Vhs B.Vista
DVD:Warner-Touchstone
Genere:Drammatico
Tipologia:Spazio critico
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo di Joe Connelly "Pronto Soccorso"
Sceneggiatura:Paul Schrader
Fotografia:Robert Richardson
Musiche:Flea, Elmer Bernstein, Perry Farrell, David M. Navarro, Stephen Perkins
Montaggio:Thelma Schoonmaker
Scenografia:Dante Ferretti
Costumi:Rita Ryack
Effetti:Cineric Digital, Industrial Light & Magic, John M. Ottesen, Ronald Ottesen
Interpreti:Nicolas Cage ( Frank), Patricia Arquette (Mary), John Goodman (Larry), Ving Rhames (Marcus), Tom Sizemore (Walls), Marc Anthony (Noel), Cliff Curtis (Cy Coates)
Produzione:De Fina-Cappa - Paramount Pictures - Touchstone Pictures
Distribuzione:Buena Vista International Italia
Origine:Usa
Anno:1999
Durata:

121’

Trama:

Frank Pierce lavora come paramedico all'Emergency Medical Service di New York: fa parte delle squadre impegnate nel turno di notte. Siamo agli inizi degli anni Novanta, è giovedì e Frank esce accompagnato da Larry. Feriti, moribondi, drogati: è a questo triste spettacolo che ogni volta si trovano di fronte. Nei limiti del possibile, cercano di offrire le prime cure sul posto; poi il paziente viene portato in ospedale, dove lo scenario è ancora più inquietante: un burbero poliziotto privato cerca di selezionare l'ingresso, poi, dentro, ci si muove a fatica tra i vari lettini ammassati nei corridoi. Frank è ossessionato dal ricordo di Rose, una ragazza che tempo prima aveva soccorso ma non era riuscito a salvare: vede il suo viso su quello di altre persone, e ogni notte per lui si apre con l'impegno di ridare speranza almeno a qualcuno dei 'poveri' con cui entra a contatto. Una notte Frank arriva in aiuto di un uomo molto malato di cuore, che poi viene portato in ospedale e trattenuto. Frank poi avvicina la figlia di lui, Mary, con cui scambia alcune parole e confidenze. Nelle sere successive Frank, che ha anche tentato di licenziarsi ma senza successo, esce prima con Marcus, poi con Walls. E la tensione è sempre più forte. Walls adocchia un ragazzo già più volte portato in ospedale e poi rilasciato, vuole dargli una bella lezione, Frank acconsente ma poi ci ripensa, e il ragazzo scappa. Frank continua a vedere il viso di Rose e la sua ansia si fa più pressante. Torna in ospedale, va nella stanza dell'uomo cardiopatico, si immagina di parlargli, poi stacca il tubo della respirazione artificiale e l'uomo muore. Subito dopo Frank va da Mary per darle la notizia. Entra in casa, insieme si siedono sul divano abbracciati, Mary si addormenta. Un raggio di luce li illumina.

Critica 1:Non è la versione cine-d'autore della serie tv E.R. Medici in prima linea, eppure vedrete che la pubblicità giocherà un po' sull'equivoco. Perché laddove il medico di pronto soccorso George Clooney, bello e rubacuori, risolve i casi clinici più disperati, il paramedico in ambulanza Nicholas Cage, sfatto e allucinato, non può che fare i conti con i morti da portare via. Non a caso, suona Bringing Out the Dead il titolo originale del nuovo film di Martin Scorsese, che esce domani nelle sale italiane col fuorviante titolo Al di là della vita. Film sfortunato, che la Paramount non volle dare alla Mostra di Venezia lo scorso settembre temendo che le recensioni (?) ne avrebbero pregiudicato la vita commerciale in patria. Ridicolo. Il pubblico americano l'ha rifiutato ugualmente, forse aspettandosi una variazione sul tema di Taxi Driver. Certo è che Scorsese, reduce dal buddhista e mistico Kundan, non fa niente per blandire il suo pubblico. Visionario, notturno, disperato e livido, il suo nuovo film reinventa il romanzo autobiografico “Pronto soccorso” di Joe Connelly con l'aiuto di Paul Schrader, un altro che vede nero nella vita. Anche se nel finale, vagamente ottimista, un palpito di speranza si stampa sugli occhi esausti del protagonista, il paramedico Frank Pierce, in forza - siamo a New York nei primi anni Novanta - nei ranghi dello sbrindellato Emergency Medical Service. Al di là della vita lo pedina nell'arco di cinquantasei ore, tre maledette notti di lavoro accanto ad altrettanti compagni di lavoro: il fatalista Larry, il religioso Marcus e il sociopatico Walls (uno che uscendo in missione ghigna: «Il sangue zampilla nelle strade, andiamo a spassercela!»). Per Pierce salvare una vita umana «è la droga più potente del mondo», ma quando l'incontriamo a bordo della sua ambulanza, mentre un fumigante blues elettrico scaraventa il pubblico nella traslucida notte, newyorkese, l'uomo ormai è un relitto. In ogni ferito che raccatta per strada rivede il volto della giovane puttana portoricana che non riuscì a salvare dalla morte: quasi annullando ogni barriera tra sé e la sofferenza, Pierce carica insomma sulle proprie spalle i destini del mondo, ma per quanto ancora può reggere allo stress se i fantasmi di quei derelitti ormai escono dai tombini? C'è una frase-chiave, vagamente new age in Al di là della vita: «Tutti i corpi lasciano un segno». Ed è proprio quel segno che l'intristito protagonista prova a riconoscere, tra un massaggio cardiaco e una tracheotomia, nei volti brutalizzati dei suoi pazienti: siano essi barboni puzzolenti, tossici all'ultimo stadio, balordi ridotti a colabrodo o spacciatori infilzati su una cancellata. Solo Mary, figlia di un anziano cardiopatico che lotta tra la vita e la morte, sembra capirlo, ma perché qualcosa accada bisogna che Pierce ascolti il richiamo d'aiuto che gli arriva da quel morituro... In un clima concitato e grottesco, che suggerisce il collasso psico-fisico dei personaggi, Al di là della vita si propone come un possibile percorso verso una rinascita spirituale. A differenza del Travis Bickle di Taxi Driver, Frank Pierce non ha bisogno dell'apocalisse per sentirsi vivo, e anzi continua a invocare il suo Dio, per sfuggire a un destino che l'ha trasformato in messaggero di morte. Per rendere il progressivo stato di smarrimento del protagonista, Scorsese accelera le immagini, altera le prospettive, ingigantisce i dettagli, trovando nel direttore della fotografia Robert Richardson e nello scenografo Dante Ferretti due supporti tecnici d'eccezione. Così il realismo iniziale si sfalda sotto le opprimenti luci al neon per lasciare il campo alle voci e ai volti dei trapassati, in una chiave dolente che potrebbe ricordare Il sesto senso. Solo che alla lunga Al di là della vita sembra rifiutare le regole dello spettacolo di successo, non «carica» lo spettatore, né soddisfa i suoi desideri, preferendo uniformarsi alla metaforica flat-line (linea piatta) stampata sul volto del protagonista Nicolas Cage.
Autore critica:Michele Anselmi
Fonte critical'Unità
Data critica:

6/1/2000

Critica 2:Bringing Out the Dead: così suona il titolo originale di Al di là della vita (Usa, 1999, 120'). Sono i morti che Martin Scorsese e Paul Schrader (cosceneggiatore) "rendono visibili": l'opera della morte che sta dentro la vita, e che l'affligge come un incubo affligge un sogno. I tre giorni della passione di Frank Pierce (Nicholas Cage), dalla notte tra giovedì e venerdì alla domenica mattina - si tratta di uno tra i molti riferimenti evangelici del film -, percorrono l'inferno d'una New York estrema, che ha i colori del buio. È difficile non ripensare a quelli, simili, di Taxi Driver, anch'esso scritto con Schrader. Allora, nel '76, un tassista (Travis Bickle: Robert De Niro) soffriva la metropoli come un incubo, appunto; un incubo colmo di violenza, d'abbandono, di morte. Dal sedile dell'auto, era spettatore impotente dell'inferno, tentato di trovargli proprio nella violenza una via di fuga. Ora, invece, Frank vorrebbe essere ben più che spettatore impotente. Nel bianco dell'autoambulanza, come un angelo luminoso, corre attraverso il nero ossessivo della metropoli. Ma ogni volta non può far altro che tornare al centro del male: il pronto soccorso di Nostra Signora della Miseria (Our Lady of Perpetual Misery, deformazione e soprannome di Our Lady of Perpetual Mercy). Non ha meta, la sua corsa. Si ripete senza fine, ogni volta uguale, ogni volta incapace di trovare vie di fuga dall'inferno. Eppure, una ce ne sarebbe: non definitiva, ma forte e dolce come l'innamorarsi, ed estasiante come se Dio stesso l'abitasse. In originale: «Saving someone's life is like falling in love. God has passed through you - why deny it? - for a moment there, you were God». Eccola, la via di fuga dall'inferno: quando si salva la vita di qualcuno, e almeno in quel momento, ci si sente Dio. Mentre così dice la voce fuori campo di Frank, dall'interno del suo appartamento la macchina da presa inquadra una New York finalmente sotto il sole. Ma la luce trascorre veloce. In pochi secondi il cinema condensa tutto un giorno, e di nuovo il film s'immerge nei colori del buio. Quel che soprattutto accomuna Frank Pierce e Travis Bickle - nonostante le molte differenze, fors'anche di freschezza e ispirazione - è questa soggettivazione quasi paranoica del loro punto di vista. Entrambi stanno soli di fronte alla metropoli, investiti della sua "cura", e addirittura di fronte a qualcosa di più necessario, di più astorico. Il realismo eccessivo, il realismo paranoico delle immagini e del montaggio di entrambi i film suggerisce che, attraversando New York, i due attraversino una condizione umana del cui peso si gravano da sé. O meglio: che attraversino e che "si sentano addosso" quella che, nella poetica di Scorsese e in quella di Schrader, è la condizione umana. Necessaria e astorica è la notte di Al di là della vita. Lo suggeriscono le sue luci che non illuminano i suoi uomini e le sue donne. Ce lo suggerisce, ancora, la circolarità della vicenda: niente è narrato, notte dopo notte, se non la sofferenza. Esemplare è Noel (Marc Anthony). Ha sete, ma non lo si può dissetare: lo divora un'arsura che non ha inizio né fine. Allo stesso modo, la violenza, l'abbandono e la morte passano dalle strade al pronto Soccorso, e poi di nuovo tornano nelle strade: invincibili protagonisti d'una narrazione senza inizio e senza fine, che non conosce storia. Salvatore frustrato, Frank é schiacciato dal peso della sua missione. Il volto di Rose (Cynthia Roman), che non ha salvato, si sovrappone come un incubo ai volti di tutti quelli che non salverà. La cura di cui s'investe, e a cui affida la speranza della sua momentanea felicità, diventa così la misura della sua stessa sofferenza. E' per questo che, all'inizio del film, s'accanisce sul corpo d'un vecchio. Lo deve salvare, lo deve resuscitare. Certo, non farà passare per intervento soprannaturale l'effetto d'una pratica medica, come invece la notte seguente farà il suo compagno Marcus (Ving Rhames), un "cristiano gospel" interessato al proselitismo. Tuttavia questo cerca, dentro di sé e per sé: il miracolo di sentirsi Dio per un momento. Solo alla fine del terzo giorno di passione troverà il coraggio d'aiutare il vecchio a liberarsi d'una vita che ha il senso d'un mostruoso artificio. Ed è questa l'alba della sua resurrezione. Dopo aver resistito alla tentazione satanica nell'Oasi dello spacciatore Cy (Cliff Curtis), ora sembra aver trovato una misura non più paranoica del suo rapporto con la sofferenza e la morte. Sgravatosi del compito di salvare il mondo, può davvero aprirsi all'amore per il mondo. Questo suggerisce la luce intensa, tersa e trasparente che, la domenica mattina, lo mostra addormentato fra le braccia di Mary Burke (Patricia Arquette). La figurazioni dell'immagine è quella stessa d'una Pietà: pietà di Scorsese e Schrader per Frank, in primo lungo.
Autore critica:Roberto Escobar
Fonte critica:Sole 24 Ore
Data critica:

16/1/2000

Critica 3:Vita d'ambulanza a Manhattan. Il film è Al di là della vita di Martin Scorsese, scritto con Paul Schrader, star Nicolas Cage e Patricia Arquette (al massimo). Quartiere Hell's Kitchen, anni fa. Turni di notte massacranti. Avventure di paramedici. Il "The best" e le bestie. "Non c'è niente da fare", "respirazione bocca a bocca", "appena in tempo", "iniezioni al cuore", "sei dentro lo stomaco, non dentro l'esofago...maledizione", "sangue che schizza da tutte le parti"...altro che Pulp fiction, qui l'umorismo è l'antidoto per non svenire, per non morire...E' come il procedimento dell'estasi, un gioco di trascendenza religioso solo per la fede contagiosa (paradossalmente rara al cinema) nel visuale e nel vivente. Un film che fa le crociate contro lo spirito iconoclasta. E' firmato "Martin cuor di leone". Carne a pezzi viva che soccorre carne a pezzi quasi morta, fantasmi di persona che ti sono morte tra le braccia e forse.... L'adrenalina acida scatenata da questo ambiente in cerca di eutanasie, provoca strane alchimie e allucinazioni, in forme di balletto stropicciato, tra pallottole e anime vaganti, forse già spettri, che incrociano anime a sirene spiegate e gonfie d'alcool, terragne e, piuttosto che seguire le indicazioni della centrale (la voce è di Scorsese), fameliche di buon reddito in cambio di lavoro zero... E sopravvive, allora, come può - ognuno col suo metodo - questa armata delle ombre: il paramedico Frank Pierce (Nicolas Cage, faccia perennemente buscopan-dipendente), è il numero uno, il re delle ambulanze del sindaco Dinkins, è una missione la sua, eredità di famiglia. Il metodo è: provocare sempre il capo per farsi licenziare (più Jack Daniels). Ma è civetteria. Sa che lui è indispensabile. Non perché, come raccontano i tanti film dozzinali che piacciono quest'anno, è un "già morto" (America Beauty, Il sesto senso...), anche se ha fame e non mangia, ha sonno e non dorme... Frank è infatti condannato a sopravvivere in questa zona impropria, senza ombra, dove si parla già coi morti, ma non si è né di qua né di là... Come tra le good vibrations anni 70, quando le Oasi lisergiche - con afgano nero - dilatavano, o acquietavano le coscienze (poi sbriciolate da poliziotti, eroina intossicata, crack e "morte rossa"). Proprio come nel "medioconscio" di Kubrick (Eyes Wide Shut), proprio come lo spettatore del cinema radicale immaginato da Serge Daney (che avrebbe amato alla follia questo film): al buio, dunque senza ombra, perennemente attratto dentro lo schermo ma capace eroicamente di resistere e restare al di qua, seduto nella poltrona, a trattare il film come un tennista, con la rete a far da barriera e la sua testa, con tanto di emozioni e pulsioni e ragioni, a far da pallina... Un collega di Frank, invece, sfoga le frustrazioni e le impotenze di un lavoro al limite, rompendo a mazzate da baseball le ossa del più recalcitrante tra i dementi strafattissimi. Un terzo finge di sedurre eternamente la voce femminile della centrale. Un quarto, John Goodman, fa finta di essere incurabile razionalista... Tutte le risposte comprensibili, di buon senso, lineari che, come diceva Mencken sono sbagliate per risolvere i problemi del cuore dell'Impero (marcio). A una civiltà di merda (vedremo in The insider perché) non si può rispondere che con: "contenuti violenti, linguaggio esplicito e uso di droga". La cosa ha causato negli Usa il marchio "R", restricted che avendo diminuito gli spettatori ha automaticamente ristretto anche il consenso per uno dei film più belli e fuori corrente dell'anno. Siamo dunque a un passo dall'inferno (John Belushi ci avvertì: "diffida delle autoambulanze in folle corsa, è te che cercano"): i pessimisti cattolici chiamano questo spazio "al di là della vita", gli ottimisti puritani "la morte che ti porta via", Bringing out the Dead, come l'autobiografico di Joe Connely trasformata in visionaria parabola Paramount. Si riflette molto sulla famiglia nucleare degenerata, destrutturata. Tutti i film da Oscar 2000 sono processi alle intenzioni e alle tensioni familiari: Girl, interrupted; The Straight Story; Magnolia; The Cider House Rules; Tumbleweeds, ma qui il viaggio è più profondo, dentro e fuori, come nel Kubrick. "All'inizio degli anni '90", dice, con perfido umorismo, la scritta iniziale. E vuol dire: "non è che ora con Giuliani le cose sono migliorate, solo perché la Mela sembra Svizzera". Anzi, ora agli homeless nascosti in zone non turistiche si affiancano, coi netturbini privatizzati, immondizie puzzolenti e topacci grassi che fanno i chorus boys anche davanti ai ristoranti chic. E i barboni troveranno molto prima la loro unica casa (la tomba). Perché il vero dramma, sul quale Scorsese glissa rimpiangendo gli ospedali Dinkins, non è il fuori, ma il dentro, che non è proprio l'E.R. di una volta... Insomma due buone ragioni per amare questo noir senza poliziotti, pistole e inseguimenti, eppure con tutti gli ingredienti della suspense al posto giusto. Al di là della vita è un oratorio laico di incontrastabile potenza suggestiva. Almeno nella versione originale coi sottotitoli (c'è nelle sale, Nuovo Olympia a Roma). Prima ragione: Scorsese completa il trittico barocco (Mean street, L'età dell'innocenza) con un poema dark "chiuso" ma dal fraseggio liberissimo. Seconda ragione: è un film raccontato in "prima persona singolare", ma in duetto con il cineasta calvinista Paul Schrader, coi suoi copioni densi, circolari, che sfiorano il cuore delle cose (Taxi Driver) per andare oltre il testo. Il paramedico come metafora dell'America: dà i brividi il suo operare: salva le vite ma fa uscir fuori un ributtante rimosso. La sua criminalità. Pentiti, prima che sia troppo tardi.
Autore critica:Roberto Silvestri
Fonte critica:il Manifesto
Data critica:

21/1/2000

Libro da cui e' stato tratto il film
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