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Daisy Miller - Daisy Miller

Regia:Peter Bogdanovich
Vietato:No
Video:
DVD:Paramount
Genere:Drammatico
Tipologia:Letteratura drammatica
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Henry James, Frederic Raphael
Sceneggiatura:Frederic Raphael, Peter Bogdanovich
Fotografia:Alberto Spagnoli
Musiche:
Montaggio:Verna Fields
Scenografia:Ferdinando Scarfiotti
Costumi:Mariolina Bono, John Furness
Effetti:
Interpreti:Cybill Shepherd (Daisy Miller), Mildred Natwick (Mrs. Costello), George Morfogen (Eugenio), James McMurtry (Randolph C. Miller), Cloris Leachman (Mrs. Ezra B. Miller), Nicholas Jones (Charles), Duilio Del Prete (Mr. Giovannelli), Barry Brown (F. Winterbourne), Eileen Brennan (Mrs. Walker)
Produzione:Copa De Oro, Peter Bogdanovich Production-Directorscompany
Distribuzione:Paramount
Origine:USA
Anno:1974
Durata:

91'

Trama:

Dal romanzo di Henry James. Daisy Miller è una ragazza americana tutta cuore e simpatia che si stabilisce con il suo ricco entourage a Roma alla fine del XIX secolo. Ci mette un po' a capire qual è il suo amore vero (un introverso coetaneo e connazionale). Quando lo capisce muore di una malattia contratta in una taverna sul Tevere. Raffinata ricerca del tempo perduto con una protagonista non sempre all'altezza della parte.

Critica 1:Quello che Bogdanovich mostra nei suoi film, non è. Sembra soltanto, come se fosse un riflesso lontano, l'immagine di un'altra immagine. Anche in Daisy Miller egli non narra una storia (e la gracile trama del romanzo ben si adatta a questa posizione), ma racconta « come » si narra una sto­ria, esponendo, in luogo di vicende, «modelli narrativi». Va notato anche che qui per la prima volta, non si rivolge specificamente al cinema, ma alla letteratura del passato, ed al piú significativo rappresentante di quel te­ma «internazionale» che gli interessava studiare.
Secondo Leslie A. Fiedler (Amore e morte nel romanzo americano, Milano, Longanesi, 1963) nel romanzo americano si trova l'archetipo co­stante del dualismo manicheistico tra «la fanciulla bionda» e la «dama bruna», la prima simbolo dell'innocenza e della purezza, la seconda del­l'esperienza e della corporeità. La donna chiara costituirebbe una presenza ideale in grado di sollevare l'uomo dalla sua miseria, quella bruna indi­cherebbe una sensualità che porta all'annientamento. Questa componente la si ritrova costantemente negli autori americani (la «dea bianca» di Ro­bert Graves; la «fanciulla dalla carnagione luminosa, capelli biondo oro e lucenti occhi azzurri» di Fenimore Cooper; la «fanciulla di neve» di Na­thaniel Hawthorne; «la bella creaturina dagli occhi azzurri, i capelli biondi raccolti in due lunghe tracce, e un vestitino bianco e leggero» di Mark Twain) ed in particolare, nell'opera di James, da The portrait of a lady, a The wings of the dove (Le ali della colomba, 1902) a The golden bowl (La coppa dorata, 1904), a Daisy Miller.
Bogdanovich, attento alla tradizione culturale del proprio paese, ri­flette questo archetipo nella figura di Daisy, bellezza eterea e virginale (il dubbio di Winterbourne sulla sua purezza verrà fugato dallo stesso Gio­vanelli, e la morte precoce la conserverà in questo stato) e di Miss Walker, bruna, tenebrosa, sensuale «controvergine». Il tema è in relazione con una tendenza alla «necrofilia» frutto di una bivalente misoginia/filoginia (quella stessa componente che, latente in James, è esplosa nel delirio pa­tologico di Edgar Allan Poe) che porta ad identificare l'immagine femmi­nile immacolata nella ragazza morta o morente. Non è per caso che una scena (poi eliminata) in cui si vedeva Winterbourne frugare nei cassetti di Daisy, ricordasse Vertigo di Hitchcock, il capolavoro della necrofilia.
Coerentemente con questa interpretazione nel film, che è la lunga vigilia di morte di una fanciulla sempre vestita di bianco o di azzurro, l'uomo è sentimentalmente vicino alla donna solo dopo la sua morte, quando al cimitero (si tratta, per inciso, del terzo funerale nel cinema di Bogdanovich, dopo quello di Sam in The last picture show e della madre di Addie in Paper Moon) ripensando alle parole della zia: «sei destinato a fare uno sbaglio. Hai vissuto troppo a lungo all'estero», si accorge di essere solo allora realmente innamorato. L'errore di Winterbourne, con­trariamente al senso che volevano avere le parole di Miss Costello, la quale intendeva mettere in guardia il nipote dalla pericolosità di una relazione contraria all'«etichetta», è stato quello di non credere alla innocenza mo­rale della ragazza, la cui purezza per definizione, tipica dell'«eroina bion­da», rendeva aprioristicamente impossibile la sessualità.
Tema del film è dunque l'innocenza nel suo duplice aspetto individuale e collettivo, reale e metaforico, della donna, come del paese dal quale pro­viene. Daisy, la ragazza di provincia, ingenua, capricciosa e brillante che vuol vincere la noia della sua condizione di appartenente alla classe «neo ricca» con la vita di società, è l'istinto vitale colpito dalla realtà della mor­te, il simbolo della libertà individuale (che James ammira e condanna al tempo stesso) contro la morale puritana che vede confermato il proprio conformismo dall'impietosa, punitiva morte che la stronca all'alba della vita. L'atteggiamento anticonvenzionale della ragazza è considerato, nella comunità americana espatriata in Europa, leggero e turbativo di un ordine sociale; questo è il giudizio sia di Miss Walker, un'americana europeizzata, («decaduta al piano del cinismo e dell'improvvisazione morale europea» come la definisce Fiedler) che di Miss Costello, nelle cui parole («I Miller sono volgari senza rimedio. Se chi è volgare senza rimedio possa non essere cattivo, è una questione che va risolta in sede di alta metafisica. Ma, co­munque, sono cattivi abbastanza per rendersi antipatici, e per questa vita breve che abbiamo è già abbastanza») è formulato il concetto tipicamente jamesiano che la fine tragica è legata al «contrasto tra gusto e volgarità» (Melchiori, Il gusto di Henry James, Torino, Einaudi, 1974). Le due don­ne infatti rimproverano a Daisy l'«ordinarietà»; in realtà la loro critica è rivolta alla sua autodeterminazione, e alla sua franchezza di comportamen­to. Piú ancora, non accettano di Daisy la sua «noncuranza di apparire» cioè la mancanza di preoccupazione per i fraintendimenti cui può dar luogo il suo atteggiamento. La colpa di Daisy non consiste tanto nella lesione di un principio etico, quanto di una convenzione di comportamento, di una «forma».
Lo stesso Winterbourne non è da meno perché, finché Daisy è in vita, non sa decidersi ad uscire dai propri schemi morali per paura di parteci­pare alla vita, limitandosi a «guardarla», non è in grado di distinguere ciò che in realtà è Daisy da ciò che sembra apparire, e non riesce a risol­vere l'equivoco dei sentimenti inconfessati per cogliere la felicità che con la ragazza potrebbe avere (l'ambiguo discorso tra i due giovani tra le ro­vine del «palazzo dei cesari»). «L'animo di Winterbourne – osserva an­cora Calvino – cioè quella costruzione sintattica tutta esitazioni ed indugi ed autoironia, caratteristica dei personaggi introspettivi di James, è diviso: una parte di lui spera ardentemente nell'innocenza di Daisy per decidersi ad ammettere di esserne innamorato (e sarà la prova post-mortem di que­sta innocenza che lo riconcilierà con lei, da quell'ipocrita che è), mentre l'altra parte di se stesso spera di riconoscere in lei una creatura declassata ed inferiore, cui è lecito mancare di rispetto ». La gelosia di Winterbourne per il comportamento libero di Daisy è celata dietro un'ipocrita tolleranza, ed il suo tentativo di volerla difendere dalle accuse e dalla disapprovazione sociale è debole perché egli intimamente le riconosce giuste. Questa debo­lezza è sottolineata con finezza introspettiva nella scena del Pincio, la mi­gliore del film, quando Winterbourne incontra per la prima volta Giova­nelli e vede Daisy andarsene con lui, e poi sale sulla carrozza di Miss Wal-
ker, dopo che questa ha tentato inutilmente di convincere Daisy a salire anch'essa per non dare «scandalo». Da questo momento ha inizio la con­versione del ruolo di Winterbourne da «innamorato» ad «osservatore di un amore», (tema questo già accennato nella figura del domestico Euge­nio, nel cui sguardo silenzioso e severo si può scorgere un sentimento reso impossibile dalla differenza di classe e degradato a contemplazione visiva) che tornerà ad essere amore solo dopo la morte di Daisy.
Il personaggio di Daisy, che per Bogdanovich ha anche un significato attuale («è anche la storia di una ragazza d'oggi, poiché la donna non ha ancora ottenuto la libertà di essere come Daisy») ha una valenza ideo­logica: nella figura bianca, oro e azzurra di Daisy è raffigurato infatti il mito dell'ottimismo innocente del «nuovo mondo» (L'America nobile nello spirito ed innocente nel cuore) nei confronti dell'Europa, il valore della vitalità fragile e vulnerabile contro la decadente e malsana raffina­tezza del Vecchio Continente (con il simbolismo scoperto delle rovine del Colosseo dalle quali si sprigiona il contagio, riprese da Bogdanovich in una sequenza notturna grottescamente deformata dal «fish-eye»).
Questo mito altro non è se non la trasfigurazione del complesso di inferiorità di un paese senza tradizione e senza cultura che, per paura della sua mancanza di storia, proietta all'estero, in forma imitativa, un fit­tizio conflitto « sovrastrutturale » tra aristocrazia e borghesia, che in real­tà non ha mai conosciuto. È il tema internazionale dell'«americano in Eu­ropa», sviluppato da James anche in The American (1877) e The Euro­peans (1878 ), che segue quello, ancora interno perché limitato al conti­nente, della «frontiera», un mito fondato sulla convinzione di una pri­migenia purezza etica, di un'immunità originaria dal male, sempre ricer­cata fino alla disperazione da una nazione che sta iniziando la «conqui­sta» del mondo. La scelta del sofisticato scrittore che ha ossessivamente descritto nei suoi libri storie di turisti americani all'estero che si scontra­no con una forma di civiltà che li affascina e li angoscia, e di Daisy Miller in particolare, che ne costituisce la testimonianza più emblematica, non è estemporanea per Bogdanovich, ma si presenta come un altro passaggio obbligato del suo discorso sul «mito» nel quale non si poteva certo omet­tere l'aspetto particolare del «mito esportato», cioè la legittimazione idea­lizzata dell'influenza americana (culturale e non) nel mondo. Il «mito esportato» tende a cancellare il complesso del ritardo culturale che prova l'America mediante l'identificazione spregiativa della piú elevata civiltà europea, con il «male», identificando, per converso, il «bene» nell'età gio­vane e nel vitalismo del paese. Al di là del mito, dietro all'affermazione dell'immagine della incolpevolezza originaria dalla quale deriva la neces­sità dell'autonomia culturale come salvezza dalla morte («il rifiuto del padre europeo» lo chiama Geoffrey Gorer in The american people), que­sto senso del «bene» e della «non colpevolezza», quindi del «giusto», in realtà ha lo scopo di affermare la superiorità mondiale del potere econo­mico della nazione.
Bogdanovích non giunge a queste conclusioni, limitandosi, come sem­pre ad esporre il tema nel suo aspetto «sovrastrutturale». È comunque sintomatico lo spazio maggiore, rispetto al libro, che assume nel film il fratellino di Daisy, Randolph, alla cui figura questo discorso può essere simbolicamente ricondotto. Oltre al significato di stato esistenziale privi­legiato per l'uomo che il tema «del fanciullo» riveste nella letteratura americana, ricollegandosi intimamente con quello della femminilità scissa in «virtú bionda» e «peccato bruno» (una concezione piú matura della donna significherebbe infatti l'abbandono dell'infanzia) la figura di Ran­dolph, che apre e chiude il film ed è testimone dei flirts della sorella, ha un significato essenzialmente ideologico quando afferma: «gli uomini ame­ricani sono i migliori». In questa frase è espressa tutta una filosofia, quel­la «violenta, volgare e ostile» (come la definisce giustamente Michael Korda in Movies) dell'America che sta espandendo la propria potenza nel mondo ed ha bisogno di simili «certezze».
Bogdanovich è mosso dalla volontà di ripensare, anche in Daisy Miller, ad una fonte di purezza perduta, ma come sempre, riesce a sconvolgere la natura mitica della «leggenda» tramandata, per porne in evidenza l'incon­sistenza reale. L'impulso a cantare le virtú originarie del paese (l'atteggiamento dei registi «classici» cui si ispira) si muta in una testimonianza del disgregamento sociale, in una continua poesia della morte.
Autore critica:Vittorio Giacci
Fonte criticaPeter Bogdanovich. Il Castoro Cinema
Data critica:

11/1975

Critica 2:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Daisy Miller
Autore libro:Henry James

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