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A. i. Intelligenza artificiale - A.I. Artificial Intelligence

Regia:Steven Spielberg
Vietato:No
Video:Warner Home Video
DVD:Panorama
Genere:Fantascienza
Tipologia:Diventare grandi
Eta' consigliata:Scuole elementari; Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Ian Watson, dal racconto "Supertoys Last All Summer Long" di Brian Aldiss
Sceneggiatura:Steven Spielberg
Fotografia:Janusz Kaminski
Musiche:John Williams
Montaggio:Michael Kahn
Scenografia:Rick Carter
Costumi:Bob Ringwood
Effetti:
Interpreti:Haley Joel Osment (David), Jude Law (Gigolo Joe), Frances O’Connor (Monica Swinton), Sam Robards (Henry Swinton), Jake Thomas (Martin Swinton), William Hurt (Professor Hobby)
Produzione:Dream Works - Amblin Entert. - Stanley Kubrick Prod. - Warner Bros
Distribuzione:Warner Bros.
Origine:Usa
Anno:2001
Durata:

144'

Trama:

In un periodo nel futuro in cui le risorse naturali sono limitate e i progressi della tecnologia velocissimi, gli esseri umani dispongono di robot programmati per soddisfare qualsiasi loro bisogno. Lavoro, tempo libero, cura della casa, compagnia, c'è un robot per ogni necessità: tranne l'amore. I robot sono considerati elettrodomestici sofisticati, si pensa non possano provare sentimenti. I limiti imposti alla procreazione hanno spinto però l'industria della robotica a cercare di superare l'ultima frontiera. La Cybertronic Manifacturing ha creato David, un robot bambino, il primo programmato per amare che viene adottato in prova da Henry, impiegato della stessa ditta, e da sua moglie Monica. Il figlio naturale della coppia, malato terminale, é ibernato in attesa che la scienza scopra la cura per salvarlo. David vuole diventare loro figlio, fa di tutto per essere amato, ma ogni volta qualche circostanza arriva ad impedirlo. Respinto dagli umani e dalle macchine, David non può fare altro che andare via, e intraprendere un lungo cammino. Aiutato da Teddy, il suo super giocattolo, David incontra Gigolo Joe e con lui comincia un giro per il mondo. Eccoli nel luogo dove si celebra il rito per la distruzione dei robot. Insieme scappano e cercano di raggiungere Rouge City, dove c'é qualcuno in grado di dare indicazioni per trovare la Fata Turchina. Ecco l'informazione: la Fata si trova alla fine del mondo, a Manhattan. Joe dice a David che la sua mamma non può amarlo, e David scappa. Poi insieme vanno dal prof. Hobby, che aveva progettato David, e vedono i bambini fatti in serie. David atterrito si getta dal grattacielo, scende sott'acqua: qui si ritrova nel regno di Pinocchio e vede la Fata Turchina. Da quel momento David comincia a pregare. Passano duemila anni, prima che il piccolo possa riprendere coraggio. Allora torna dalla mamma e le dice "Ti ho ritrovata". E' di nuovo oggi.

Critica 1:"Diviso in tre atti 'A.I. - Intelligenza Artificiale' è un film bello e struggente, eccessivamente lungo, disomogeneo, reso più imperfetto dal lungo finale ma ricco di folgorazioni, di sequenze straordinarie e di personaggi commoventi. Che si stampano nella memoria per come, in essi, convivono patetismo e fragilità, generosità e coraggio: David per primo, naturalmente, interpretato da quel precocissimo mostro di bravura che si chiama Haley Joel Osment, ma anche il robot-amante Jude Law, capace quanto il suo piccolo compagno di disavventure, di farci dubitare che i 'meccanica' siano molto più umani degli 'orga'".
Autore critica:Roberto Nepoti
Fonte criticala Repubblica
Data critica:

6/10/2001

Critica 2:In un imprecisato futuro, dove le acque hanno sommerso gran parte del mondo abitato e fatto sparire città come Amsterdam, Venezia e New York, l’umanità sopravvive solamente in alcuni luoghi - ad esempio, nel New Jersey - e nel draconiano rispetto di certe regole: essendo le risorse limitate, il numero delle nuove nascite è soggetto a stretto contingentamento ed agli automi sono demandati un’infinità di compiti pratici. E’ del professor Allen Hobby l’idea di produrre per la prima volta un essere meccanico capace di amare: esso assume la forma fisica di un bambino, Danny, e viene sperimentalmente affidato alle cure degli Swinton, una coppia il cui unico figliolo giace in un coma profondo dal quale non si sa se e quando potrà essere risvegliato...
Prende di qui le mosse la vicenda raccontata da Steven Spielberg in "A.I.", sua ultima ed ambiziosissima fatica filmica, in qualche modo ereditata da Stanley Kubrick che vi si era dedicato a lungo prima di morire. Sulla scorta del racconto di Brian Aldiss "Super-Toys Last All Summer Long" (1969), il regista di "E.T." (1982) e "L’impero del sole" (1987) torna al suo argomento preferito: il lungo coming home di un ragazzino che ha perduto, per un accidente del caso o della Storia, il proprio nucleo familiare. Ad esso si coniuga, nella fattispecie, il tema della creazione da parte dell’uomo di esseri artificiali, spesso fonte - nella leggenda medievale del golem, nel celebre "Frankenstein" di Mary Shelley, in una miriade di film dell’orrore - di spavento ed angoscia incontenibili.
Con l’apporto di straordinari contributi tecnici - la superba fotografia di Janusz Kaminski, sospesa fra bianchi accecanti e lampi di colore; il suggestivo lavoro dell’artista Chris Baker, affiancato dal fido scenografo Rick Carter - e di attori strepitosi (il piccolo Osment è semplicemente memorabile, mentre Jude Law tratteggia con maestria il proprio singolare personaggio), Spielberg ci conduce per mano in un universo futuribile segnato dalle stimmate della credibilità: in special modo nella seconda parte, laddove David - abbandonato dalla madre adottiva - inizia a peregrinare tra feroci giostre d’un medioevo prossimo venturo e scintillanti luoghi forzatamente ludici, il talento del Nostro ha modo di esaltarsi oltre ogni misura, occhieggiando in egual misura a "Blade Runner" e ad "Arancia meccanica, al "Pianeta delle scimmie" ed a "2001: Odissea nello spazio", senza tuttavia perdere un etto in originalità.
Sovente accusato di inclinare benevolmente dalla parte dello spettatore, il narratore di cinefiabe per eccellenza stavolta trova il coraggio di andare sino in fondo, di mostrare la parte buia e non detta di molte cose sue: se infatti il discorso sulla orribilità della deumanizzazione trova nella potente sequenza del Flesh Fair una pregnanza che invano si cercherebbe nel sussiegoso "Amistad", è proprio nel finale disvelamento della morale della favola che la pellicola tocca le proprie note più alte ed intense.
Laddove il robot David, perduto per millenni dietro al proprio insopprimibile desiderio - mutuato dal "Pinocchio" di Collodi - di mutarsi in un bimbo di carne ed ossa, giunge alfine ad una sorta di simulacro dei propri sogni destinato a svanire all’alba. Perché essere reali significa essere mortali: ed il voler diventare umani comporta la gioia di amare, ma anche l’onere di invecchiare. Di accettare quel mistero ch’è l’obsolescenza programmata, destinato ad acclararsi nella quiete acronotopica del grande sonno.
Autore critica:Francesco Troiano
Fonte critica:www.tempimoderni.com
Data critica:



Critica 3:David è un cyborg ma, come ormai da qualche tempo vuole la fantascienza, un cyborg in grado di provare sentimenti umani, anzi di farlo con un’intensità ancora maggiore degli stessi esseri umani. Il suo amore per la madre è assoluto («Un giorno morirai? Rimarrò solo? Quanto vivrai? Spero che non morirai mai, mamma, tienimi al sicuro»), di un’assolutezza nei fatti preclusa a ogni vero bambino. Ma questa madre gli sfugge: prima perché lo considera un intruso, poi, quando finalmente l’ha accolto fra le sue braccia, perché teme che egli possa fare del male al suo vero figlio. Questa parte del film, la più convenzionale e melodrammatica, ricorda assai da vicino la storia di Incompreso, nel suo mettere in scena le sorti di un bambino che fa di tutto per conquistare l’affetto che i genitori, invece, riversano solo sul “fratello”.
La natura meccanica di David è ciò che ne fa comunque e sempre un emarginato (dalla scena del pranzo a quattro a quella della piscina per arrivare a quella della fiera della carne), inesorabilmente vittima del pregiudizio. Piuttosto che cercare di affermare i propri diritti per quello che è, David cerca il modo di trasformarsi in un bambino vero, sperando in questo modo di essere finalmente amato da colei che considera sua madre. Ed ecco che così, dopo la patetica scena dell’abbandono nel bosco, intraprende un lungo viaggio nello spazio e nel tempo alla ricerca della fata Turchina. Un viaggio che è innanzi tutto un tentativo di definire la propria identità attraverso il passaggio, per usare i termini del film, da mecha a orga. In realtà anche in quanto mecha David si considera, al pari di ogni essere umano, unico: terribile sarà il suo shock quando, giunto nella casa del suo ideatore, scoprirà altre decine di David come lui pronti a essere immessi sul mercato. Questa sequenza, una delle più belle del film, è anticipata da un’altra, altrettanto intensa sul piano espressivo, in cui David, di fronte a un cumulo di rifiuti mecha, assiste al tentativo di alcuni suoi simili di trovare, fra questi scarti, mani e occhi artificiali che possano sostituire le parti mancanti dei loro corpi.
Il film ha comunque l’andamento di una fiaba ed è ricco di riferimenti alla storia di Pinocchio - che, su sadico suggerimento di Martin, la madre legge per intero a David -: oltre alla fata Turchina, ci sono Lucignolo, nei panni di un robot gigolò, il paese dei balocchi, che assume qui le fattezze di una delirante Las Vegas virtuale, e il circo di Mangiafuoco, ovvero la terribile arena in cui gli orga infliggono ai mecha spettacolari sevizie.
Rifacendosi a un’idea che era stata di Stanley Kubrick, Spielberg realizza un film in cui ritroviamo elementi ricorrenti del suo cinema infantile e adolescenziale: la ricerca del genitore assente, l’amicizia con un essere non umano (qui il supergiocattolo Teddy prende il posto di E.T.), le possibilità di sognare che offrono la fantascienza e il cinema fantastico.
Autore critica:Dario Tomasi
Fonte critica:
Data critica:

Aiace Torino

Libro da cui e' stato tratto il film
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