All that Jazz - Lo spettacolo comincia - All that Jazz
Regia: | Bob Fosse |
Vietato: | No |
Video: | Twentieth Century Fox Home Entertainment |
DVD: | |
Genere: | Drammatico - Musicale |
Tipologia: | La musica |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Robert Alan Aurthur, Bob Fosse |
Sceneggiatura: | Robert Alan Aurthur, Bob Fosse, Allan Scott |
Fotografia: | Giuseppe Rotunno |
Musiche: | Ralph Burns |
Montaggio: | Alan Heim |
Scenografia: | Philip Rosenberg, Tony Walton |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Roy Scheider (Joe Gideon), Jessica Lange (Angelica), Ann Reinking (Kate Jagger), Leland Palmer (Audrey Paris), Cliff Gorman (Davis Newman) |
Produzione: | Robert A. Aurthur |
Distribuzione: | Cineteca dell'Aquila |
Origine: | Usa |
Anno: | 1979 |
Durata:
| 123'
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Trama:
| Joe Gideon è un coreografo che sta allestendo un grosso spettacolo per Broadway. Professionalmente è riconosciuto il numero uno del genere e come ogni artista consapevole della propria genialità, non è mai contento: già nella scelta degli attori e delle attrici stenta a decidersi; davanti ai copioni si stempera in correzioni a non finire; poi le prove si susseguono a ripetizione; in fine, lo stesso montaggio del materiale impostato subisce interminabili ripensamenti. Ora, data la grandiosità dello spettacolo in gestazione, Joe sta subendo le pressioni dell'impresario e degli altri responsabili poichè, senza avere neppure concepite le scene finali, è molto al di fuori dei tempi di lavorazione previsti e molto al di sopra delle cifre di finanziamento. D'altra parte, Joe Gideon si trova nei guai anche a causa della sregolata vita sentimentale e familiare: è separato dalla donna che lo ha reso padre della ormai grandina Michelle che vede, giudica, rimprovera e soffre; passa con facilità da una amante all'altra che trova con facilità tra le proprie ballerine. La doppia vita lo ha portato al fumo esagerato e all'uso di pericolosi eccitanti. Dallo stress all'infarto il passo è inevitabile. Il dr. Ballinger si prodiga con il valido apporto di specialisti; ma il Gideon si dimostra anche come infermo un ribelle. Sopravviene la immatura morte.
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Critica 1: | È il ritratto di un regista-coreografo che lavora con un piede nel teatro e l'altro nel cinema. Il suo rapporto con le donne, con il lavoro, con la morte. Fatta la tara al narcisismo magniloquente e all'ambizione autoindulgente, il film offre 2 ore di spettacolo superbo, di ritmo scattante, di energia. 4 Oscar meritati e Palma d'oro a Cannes. |
Autore critica: | |
Fonte critica | Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli |
Data critica:
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Critica 2: | Diceva T.S. Eliot che il poeta immaturo imita mentre lì poeta maturo ruba. Bob Fosse in questo film ha rubato tanto (da Fellini) che la maturità è diventata vecchiaia. Anzi, morte. Una morte molto peggiore di quella che sorride bianca al protagonista tanto in Otto e mezzo che in All That Jazz, perché questa non ha niente a che fare col simbolo, questa è morte vera, è la morte dello spettacolo: la noia.
Sarebbe però inesatto quanto poco sportivo affermare che la noia trionfa, qui, nella prevedibilità. Dopo tutto anche Ombre rosse è prevedibile. La grossa lacuna di Fosse (e non solo in questo film) è di non avere capito che anche la prevedibilità ha dei modi di svolgimento che sono quelli i canali entro i quali si sviluppa e si misura la personalità di un autore (o quanto meno di un autore americano).
Chiunque abbia una vaga conoscenza del musical sa che esso è il genere più fortemente compromesso con una serie di clichés, ma sa anche che a differenza di un altro genere fortemente compromesso in questo senso come il western il musical ha il vantaggio della traslazione canto e/o danza. È soprattutto lì, nel movimento, che si misura il personale impiego dei cliché da parte di un regista. Bene, dirà qualcuno, non si può negare a Fosse la qualifica di coreografo personale, originale.
Risposta: giusto, anzi tanto giusto che il cinema di Fosse si risolve unicamente nei suoi balletti. Che i balletti, cioè, sono blocchi formati a sé stanti del tutto estranei al film come insieme. Oh certo, il film parla d'amore e di morte, proprio come i balletti, ma non solo tali balletti vogliono esemplificare il rapporto tra arte e vita (del protagonista) prendendo le distanze, vale a dire non facendo parte direttamente della vicenda (privilegio, ahimè, di un musical ormai scomparso: quello degli Astaire, dei Minnelli, dei Donen): essi purtroppo sono l’oggetto della ripresa, “numero” filmato di una messa in scena. In altre parole, il meglio che si può dire di Fosse è di essere rimasto un uomo di teatro il quale usa il cinema per continuare a fare del teatro. Anzi, dei “numeri” teatrali. Incredibilmente, c'è più cinema nel pur cinematograficamente mediocre Winterset (1936) di Alfred Santell - dal dramma di Maxwell Anderson - che in questo palmizio cannese.
Fosse, del resto, non sa far altro: l'ha dimostrato sempre, e soprattutto in un film che, per concezione, poteva presentarsi completamente diverso come Sweet Charity (peraltro, meno indigesto delle altre sue cose: probabilmente perchè meno pretenzioso).
Non è un caso che il momento più bello dei film sia il balletto della figlia e dell'amante del protagonista nel salotto: dichiaratamente ispirato all'analoga scena con Judy Garland e Margaret O'Brien in Meet Me in St. Louis (1944) di Minnelli, esso infrange volutamente il codice dei balletti fossiani tingendosi di amabile dilettantismo e fondendosi bene, in termini metaforici, con la storia.
D'altra parte, All That Jazz è il tipo di musical che il pubblico che l'ha applaudito si merita: ogni piacere del guardare (e nessuno negherà che nel musical si tratti di una componente principe) è ormai divenuto sofferenza del guardarsi, in perfetta linea con la dominante nostalgica del cinema contemporaneo. Diceva l'impagabile Jack Buchanan nel superbo Spettacolo di varietà (1953), ancora di Minnelli, “che differenza c'è fra il magico ritmo dei versi di Shakespeare e il magico ritmo dei piedi di Bill Robinson?” (Gene Kelly nel doppiaggio italiano), e imparava a sue spese quale fosse. Il regista di All That Jazz non l'ha imparato, e quel che è peggio, non viviamo in tempi propizi perché egli lo impari. (…) L'arte, la vita, la morte nel cinema ci sono già: lasciamo che siano loro a parlare. È l'unico caso in cui l'autore può permettersi di tacere. |
Autore critica: | Franco La Polla |
Fonte critica: | Cineforum n. 199 |
Data critica:
| 11/1980
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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