Hotel Rwanda -
Regia: | Terry George |
Vietato: | No |
Video: | |
DVD: | Cecchi Gori |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Diritti umani - La politica e i diritti, La guerra, Razzismo e antirazzismo |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Keir Pearson, Terry George |
Sceneggiatura: | Keir Pearson, Terry George |
Fotografia: | Robert Fraisse |
Musiche: | Rupert Gregson-Williams, Andrea Guerra |
Montaggio: | Naomi Geraghty |
Scenografia: | Johnny Breedt, Tony Burrough |
Costumi: | Ruy Filipe |
Effetti: | Val Wardlaw |
Interpreti: | Don Cheadle (Paul Rusesabagina), Sophie Okonedo (Tatiana), Nick Nolte (Colonnello Oliver), Antonio David Lyons (Thomas), Cara Seymour (Pat Archer), Joaquin Phoenix (Jack), Desmond Dube (Dube), David O'Hara (David), Fana Mokoena (Generale Augustin Bizimungo), Hakeem Kae-Kazim (George), Tony Kgoroge (Gregoire), Mosa Kaiser (figlia di Paul), Mothusi Magano (Benedict); musiche: Andrea Guerra, Jerry "Wonder" Dupessis, Wyclef Jean |
Produzione: | Kigali Releasing Limited - Lions Gate Films Inc. - United Artists |
Distribuzione: | Mikado |
Origine: | Canada - Gran Bretagna - Italia - Sudafrica |
Anno: | 2004 |
Durata:
| 110'
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Trama:
| La storia vera di Paul Rusesabagina, direttore di un hotel a quattro stelle in Rwanda, che, ha aiutato milioni di rifugiati Tutsi a nascondersi dalle milizie Hutu che negli anni '90 scatenarono il terrore nello stato africano. Allo scoppio del conflitto, non si limita a mettere in salvo i suoi familiari, ma, facendo leva sui suoi privilegi lavorativi, apre le porte dell'hotel a quanti rischiavano di essere uccisi nel terribile eccidio.
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Critica 1: | Ci sono film il cui valore artistico è relativo. A ridimensionarlo sono proprio le buone intenzioni, solitamente inversamente proporzionali ai risultati. L'apprezzamento generale per un film come Hotel Rwanda non fa che confermare questa tendenza. Raramente si è scritto male di questo film. Tuttavia le attestazioni di stima hanno riguardato non tanto il film, peraltro giudicato con sufficienza, ma argomento: occuparsi del genocidio consumatosi in Ruanda tra il 6 aprile e il 19 luglio 1994, che ha totalizzato quasi un milione di morti accertati, perlopiù di etnia Tutsi, sembra essere già diventato – di questi tempi – un merito. Accettando una simile logica, si finiscono per perpetuare presupposti paternalistici e demagogici che nuocciono alla coerenza. Hotel Rwanda è dunque un brutto film o un film mediocre, cui comunque occorre riconoscere un primato divulgativo importante? Se questa è in sostanza la sua qualità principale (comune ad un qualsiasi film che avesse trattato lo stesso evento tragico, indipendentemente dall'approccio scelto), sarebbe più corretto esprimere un onesto e inequivocabile giudizio negativo. Perché non ha molto senso mostrarsi condiscendenti con un'opera che ottiene tre nomination (due per gli attori, una per la sceneggiatura, ma non per il miglior film) e nessun Oscar, neppure a titolo simbolico. Né ha senso dare a quest'opera molto risalto sulla stani a per poi, di fatto, condannarla ad un destino ingrato a livello distributivo e quindi commerciale (parliamo per l'Italia, ma all'estero le cose non devono essere andate tanto meglio).
La sensazione è quella di un atto dovuto, formale, che paradossalmente fa coincidere il film con la vicenda a cui fa riferimento (e al senso di colpa internazionale nei confronti delle sciagure croniche o eccezionali dell'Africa tutta): l'industria cinematografica e quella dell' informazione hanno cioè trattato Hotel Rwanda con la stessa premurosa indifferenza con cui i mezzi di comunicazione, la politica e la diplomazia internazionale hanno fatto fronte alla tragedia ruandese del decennio scorso. Il problema è forse un altro. Pur con tutti i suoi limiti, di prospettiva ideologica nonché di impostazione narrativa, Hotel Rwanda si presenta come un'operazione scomoda. Più scomoda di quanto in realtà non appaia o non sia effettivamente. Non tanto per le verità più o meno nascoste che riporta a galla, comunque utili in un contesto di disinformazione diffusa, bensì per la ragione stessa di essere stato concepito non come prodotto alternativo ad un sistema culturale dominante sempre più omogeneo e omologato ma come sua controversa eppure diretta emanazione.
La contraddizione, poiché c'è, va evidenziata. Non è quasi mai accaduto, a proposito di Schindler's List, di sentir dire o di leggere che, nonostante sia un film abbastanza mediocre e superficiale nell'impianto divulgativo, ha avuto l'indubbio merito di rendere l'Olocausto materia di dibattito mondiale. Di risultare cioè un film abbastanza valido, non perché sia stato il primo, il più riuscito o il più significativo film sull'argomento (ammesso e non concesso che l'abbia davvero centrato, stando al ragionamento di Kubrick). Un simile discorso, se applicato a Spielberg, sarebbe considerato una mancanza di riguardo. Rispetto a Hotel Rwanda, l’operazione spielberghiana ha infatti beneficiato di una stima che va ben oltre i suoi limiti programmatici di semplificazione e di compromesso storico-geopolitico. Quello di Spielberg passa per un capolavoro, comunque lo si voglia giudicare storicamente e ideologicamente. Eppure l'illustre Spielberg negli anni '90, non essendo un novellino e dovendo fare i conti con una lunga tradizione di cinema sull'Olocausto (non priva di sporadiche ma rigorosissime ricognizioni, nell'ambito della fiction e della non-fiction: Notte e nebbia di Alain Resnais e La passeggera di Andrzej Munk), ha avuto qualche responsabilità in più del Terry George di turno, che invece ha scelto di volgere la propria attenzione ad un genocidio rimosso dalla coscienza e dall'immaginario occidentali.
Rimosso esattamente come il Continente Nero, fanalino di coda forzato nell'attuale configurazione dei disastri umanitari dell'intero pianeta. Non è un caso che la maggior parte dei film incentrati sullo sterminio di massa degli ebrei in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale abbia preferito mettere in risalto la vicenda dei pochi ed eccezionali sopravvissuti, anziché quella degli innumerevoli uomini, donne e bambini sterminati sistematicamente. Le vicende singole, sviluppate in chiave romanzesca o melodrammatica, specialmente se orientate verso una soluzione dolorosa ma positiva, per quanto circoscritta e del tutto occasionale, assumono una valenza edificante che, se non venisse applicata alle dinamiche di un genocidio, potrebbe anche essere legittima. Ma che, in presenza di uno specifico avvenimento storico di segno ben diverso e inconfutabile, diventano maniere riduttive, tendenziose e fuorvianti di rievocarlo. Un'impostazione simile, che vale la pena di citare perché allarga l'orizzonte del problema (che è evidentemente anche un problema di messa in scena e di progettualità cinematografica), era presente già nell'ormai dimenticato Urla del silenzio di Roland Joffe, a suo tempo preso molto sul serio. Hotel Rwanda, poiché non nasce solo come film sul genocidio silenzioso e dimenticato in un piccolo stato dell'Africa Subsahariana, inevitabilmente risente di simili modelli narrativi e interpretativi, il cui ennesimo ma lucido ricorso è il frutto di una consapevole distanza culturale, geografica e politica. Poiché sarebbe improponibile un film sull'argomento realizzato da un regista irlandese, per di più interpretato da attori di fama statunitense, è giusto che punti ad un tipo di ricostruzione del genocidio mediata da uno spirito critico e di denuncia, ereditati dal prototipo Urla del silenzio, e da una prospettiva salvifica ed eroica, sulla falsariga di Schindler's List, vero e proprio esempio di un impegno cinematografico che sceglie a monte non affondare il coltello nella piaga e preferisce, del problema, cogliere solo gli aspetti meno complessi.
I cupi risvolti filosofici di una tragedia collettiva diventerebbero troppo gravosi per un autore come Terry George, deciso a non spingersi oltre un'incursione in un territorio a lui estraneo, ma che comunque sembra irretirlo per ragioni di responsabilità civile ed intellettuale. Eppure una differenza c'è tra il modello spielberghiano e Hotel Rwanda, che va considerato una sua derivazione più o meno consapevole. Terry George non ha la pretesa di conoscere a fondo – e perciò di spiegare – la materia che affronta. Sa benissimo di correre un rischio non indifferente, non foss'altro perché al cinema, sebbene con dieci anni di ritardo, arriva per primo ad occuparsi del genocidio ruandese. Dunque preferisce delegare ad un personaggiointerlocutore il compito di filtrare l'evento. E si affida non ad una vittima del massacro, né ad uno dei responsabili diretti (poiché anche quella del carnefice sarebbe potuta essere una prospettiva sconcertante sì, ma non poco illuminante). L'autore non ha dubbi: la "sua" deve essere la storia di un protagonista al di sopra delle parti, che sopravvive all'orrore e soprattutto cerca in tutti modi di fermarlo o di ridimensionarne la portata, secondo le proprie limitate possibilità. Paul Rusesabagina incarna dunque la coscienza di un velleitario ma attivo attore di una tragedia, nel quale confluiscono realistiche prerogative di testimone incredulo e nel contempo di piccolo eroe titanico del suo tempo, che vive ed opera dall'interno, mantenendo in quanto manager di un albergo di lusso le stesse distanze di partenza di un testimone-turista-spettatore occidentale, benpensante e benestante.
Così facendo, attraverso l'inevitabile transfert e l'opportuna mediazione del nero Rusesabagina (che nelle presentazioni internazionali del film, promosse da Amnest International, ha assunto su di sé la funzione di effettivo protagonista, sostituendosi allo stesso attore Don Cheadle o degli iniziali prescelti e più esposti Denzel Washington e Will Smith), Terry Gorge in Hotel Rwanda non nasconde la propria ottica di europeo e in senso lato di occidentale indignato verso i responsabili materiali – seguendo una direttrice storica nemmeno di lunga durata – del conflitto etnico degenerato nel 1994 nel genocidio. Né risparmia quelli che, per incapacità di prendere una decisione rapida, concreta ed efficace o con una calcolata e criminale strategia di non intervento, lasciano che il massacro prosegua indisturbato: da un lato, il governo belga che agli inizi degli anni '60, nel più ampio scenario della decolonizzazione forzata, marca e inasprisce le differenze e le tensioni tra le etnie Tutsi e Hutu all'interno delle sue ex-colonie, portando avanti una politica sciagurata risalente peraltro al 1918; dall'altro, l'Europa, gli Stati Uniti e il mondo intero, stolidamente rappresentato dalle Nazioni Unite (e dall'Alto Commissario canadese interpretato da Nick Nolte), che voltano le spalle al Ruanda proprio quando in questa negletta porzione di pianeta scatta il più rapido ed efficiente sterminio collettivo.
Paragonato al pseudo-hollywoodiano Urla del silenzio e all'hol1ywoodiano Schindler's List, Hotel Rwanda rivela se non altro una più esplicita e pragmatica volontà di coniugare l'impopolarità implicita nell'argomento trattato con elementi di richiamo internazionale (la formula coproduttiva, qualche concessione allo spettacolo, il finale rincuorante, la visibilità sul mercato affidata al cast e alla benevolenza eventuale di un festival come quello di Berlino e dell'Academy). Certo, questo comporta conseguenze anche di tipo sostanziale: al di là dell'intento liberatorio di puntare l'accento in termini rigorosamente cattolici e provvidenziali sul "salvatore" e i suoi "salvati" (all'interno di un hotel di proprietà belga, emblema di una continuità effettiva e materiale tra il periodo coloniale e quello per così dire post-coloniale), il film non si spinge troppo lontano. Innanzitutto la tragedia contemporanea rappresentata è vecchia di dieci anni, che sembrano essere diventati il nuovo arco di tempo fisiologico minimo per un instant movie sui problemi africani, a meno che la faccenda non venga sbrigata in chiave patriottica e sciovinista come nei reazionari Black Hawk Down di Ridley Scott e L'ultima alba di Antoine Fuqua, registi assai più graditi all'Academy.
Nonostante la volontà encomiabile del film di non restare in superficie e di non accontentarsi della contemplazione impotente del martirio di un popolo, salvo poi rispecchiarsi compiaciuto nell'impresa sacrosanta del protagonista, l'individuazione di una genealogia geopolitica della tragedia contemporanea non basta a dar conto del quadro complessivo, nel quale il Ruanda ha giocato e gioca ancora oggi un ruolo non esclusivo (pur avendo allora pagato il prezzo più alto in termini di vite umane). Occorrerebbe invece guardare all'instabilità e alla crisi perpetua, sociale, economica e politica, dell'intera regione dei Grandi Laghi dell'Africa Centrale per collocare con maggiore cognizione di causa le atrocità ruandesi del 1994 (anno nel quale, contemporaneamente, perdono la vita il primo presidente eletto del Burundi e quello del Ruanda, Habyarimana), che si iscrivono in una più articolata tensione tra gli Stati africani culminata alla fine degli anni '90: dall'ex-Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), epicentro conflittuale, alla Tanzania, allo Zimbabwe, all'Angola, al Ciad, alla Namibia, e in prima linea il Ruanda, il Burundi e l'Uganda. Ma Hotel Rwanda non si prefigge una simile incombenza, non ne ha gli strumenti. Punta piuttosto a produrre un efetto di shock, sottolineato anche dal martellamento propagandistico e dall'istigazione all'omicidio dell'emittente Rtml (»Non dimenticare: uccidi gli scarafaggi vicino a te, sono nascosti nella boscaglia, sono infezioni da rimuovere. Fa il tuo dovere»), che capovolge l'assunto progressista veicolato dal medium radiofonico caldo e tribale del demmiano The Agronomist. È uno shock che principalmente dovrebbe agire nelle coscienze di quegli spettatori assuefatti dai media e dal cinema a considerare prioritarie specifiche aree geografiche, per ragioni puramente propagandistiche, a dispetto di altre. Quegli stessi spettatori i quali, nonostante No Man's Land di Danis Tanovic, forse sono ancora convinti che nel gioco delle parti della politica internazionale basti invocare l’intervento delle Nazioni Unite per risolvere i problemi del mondo intero. Almeno su questo punto, con effetto retroattivo, il film di Terry George, per quanto convenzionale, non sembra ispirare più molta fiducia. Tutto sommato, anche a costo di voler intravedere nel film cose che gli sono estranee, il gesto coraggioso di Rusesabagina non suona come un inno all'ottimismo, non celebra la bontà intrinseca del genere umano, ma funge da segnale di casuale controtendenza in uno scenario privo di altri punti di riferimento, dentro e fuori dai confini del Ruanda, in quel mondo sedicente libero e democratico che ha avuto e ha per il momento ben altre guerre a cui pensare o ipotetici genocidi da scongiurare. |
Autore critica: | Anton Giulio Mancino |
Fonte critica | Cineforum n. 443 |
Data critica:
| 4/2005
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Critica 2: | I Tutsi e gli Hutu
Come nella maggior parte dei paesi africani, dove le etnie e le tribù sono da sempre al centro della vita sociale, anche in Ruanda convivono due etnie principali e tra loro assai affini per cultura e tradizioni, nonostante le grosse differenze sul piano sociale ed economico: i Tutsi originariamente proprietari terrieri e allevatori di bestiame, da sempre più ricchi ed influenti dei più numerosi e poveri Hutu. Alla fine dell' 800 l' intera regione diventò un Protettorato tedesco. Che si trasformò nella Colonia Belga del Ruanda - Urundi (oggi Burundi) dopo la Prima Guerra Mondiale. Va detto che il Belgio, che è stato nella regione fino al 1962 ovvero fino alle prime elezioni, invece di cercare di amalgamare le due etmie, ha sempre puntato sulla loro rivalità per poterli manovrare politicamente. Nel 1973, sempre con l'accertata complicità del Belgio, un colpo di stato degli Hutu capovolse la situazione politico-economica della regione. Creando un clima di violenza che è andato avanti a fasi alterne negli anni, fino al 1994, quando nei mesi tra aprile e giugno, i massacri degli Hutu provocarono circa un milione di morti tra i Tutsi e gli Hutu moderati. Un vero e proprio tentativo di genocidio, aizzato dalla famigerata radio hutu, e perpetrato con mezzi rudimentali, al quale partecipò la maggior parte della popolazione hutu (coloro che si sottraevano venivano giustiziati), e che ha segnato una delle pagine più brutte della storia dell'Onu (che in quella occasione ridusse la presenza dei suoi uomini da 2500 a 270). Durante il genocidio del 1994, circa tre milioni di persone fuggirono dal Ruanda, causando gravissimi problemi di migrazione e di stanziamento degli esuli negli Stati africani vicini. L' Occidente si mosse in loro aiuto soltanto nel 1996. Nel '97 gli emigrati ritornarono in Ruanda, e nel 2003 sono state di nuovo indette elezioni democratiche, a favore di un governo "misto". In quello stesso anno, l' ONU ha creato un Tribunale penale internazionale che ha condannato i capi Hutu responsabili delle stragi come autori di crimini contro l' umanità. Oggi la situazione generale è sicuramente migliorata, ma sussiste una condizione di guerra di confine con il Congo. I programmi scolastici, tuttavia, a partire dal 2003, impongono la non-distinzione razziale tra i popoli, e addirittura l' eliminazione dei termini Hutu e Tutsi. |
Autore critica: | |
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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