Creature del cielo - Heavenly Creatures
Regia: | Peter Jackson |
Vietato: | 14 |
Video: | Panarecord, Rcs Films & Tv |
DVD: | |
Genere: | Drammatico |
Tipologia: | Disagio giovanile, Giovani in famiglia |
Eta' consigliata: | Scuole medie superiori |
Soggetto: | Peter Jackson, Frances Walsh |
Sceneggiatura: | Peter Jackson, Frances Walsh |
Fotografia: | Alun Bollinger |
Musiche: | Peter Dasent |
Montaggio: | Jamie Selkirk |
Scenografia: | Grant Major |
Costumi: | |
Effetti: | |
Interpreti: | Diana Kent (Hilda Hulme), Melanie Lynskey (Pauline Parker), Clive Merrison (Henry Hulme), Simon O'Connor (Herbert Rieper), Sarah Peirse (Honora Parker), Kate Winslet (Juliet Hulme) |
Produzione: | Jim Booth |
Distribuzione: | Academy |
Origine: | Nuova Zelanda |
Anno: | 1994 |
Durata:
| 99'
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Trama:
| Nel 1954, nella cittadina neozelandese di Christchurch, Pauline Parker, di famiglia popolana, vive un'adolescenza aspra ed inquieta, in scontroso attrito con la madre Honora e priva di rapporti affettivi con i familiari. Ricevuto in dono per Natale un diario, vi si rifugia come ad unica alternativa all'ambiente monotono e deprimente, riservandosi le sue bizzarre fantasie di quindicenne. Iscritta ad una scuola superiore di Christchurch, in cui vige una disciplina di tipo militare e nella quale spadroneggia un corpo insegnante di donne arcigne ed acide, vi conosce Juliet Hulme, un'inglesina benestante, in ritardo con gli studi per motivi di salute, che la colpisce per la sua arroganza provocatoria e con la quale stringe ben presto un'amicizia esclusiva, trovando negli atteggiamenti e nel linguaggio insolente di costei una piena consonanza con il proprio temperamento ribelle ed il completamento della propria indole negata alla comunicazione, chiusa e torva. Il mondo fantasioso di Pauline diventa il mondo di Juliet, un irreale castello medioevale, popolato di guerrieri, principi e principesse, che le due materializzano plasmando statuine di plastilina e facendole protagoniste di storie complicate, che isolano sempre più le due ragazze dalla realtà. L'amicizia assume frattanto toni sempre più devianti ed equivoci: non sopportano di vivere separate, neppure quando Juliet deve andare in sanatorio per qulache mese. E quando l'inglesina sorprende la madre Hilda, impegnata in un rapporto sessuale con uno sconosciuto, e il padre Henry è deciso a lasciarla ed a tornarsene in Inghilterra, la situazione di Juliet si fa sempre più precaria: dovrà riparare in Sudafrica. Tutto congiura per rendere irreversibile l'infatuazione morbosa delle due ragazze, fino al finale truce: poichè le viene negato di seguire l'amica, Pauline va macchinando con lei, fredda e determinata, il cinico tranello per eliminare la madre Honora.
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Critica 1: | (...) Jackson (...) racconta con finezza le sfumature dei rapporti familiari, la complessità del rapporto tra genitori e figli, la tensione erotica, la mappa delle differenze di classe, il distorto tragitto di un Bildungsroman al femminile: un talento originale per uno dei film più originali, inquietanti e sorprendenti dell'anno. |
Autore critica: | Irene Bignardi |
Fonte critica | La Repubblica |
Data critica:
| 4/4/95
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Critica 2: | Mentre ero intenta a seguire le vicende di Pauline/Paul e di Juliet (ma forse sarebbe meglio dire di Charles e Deborah, i due personaggi protagonisti del romanzo che le ragazze scrivono a quattro mani) c'era qualcosa che sempre più mi convinceva di un fatto. Che Jackson, sotto la carta lirico-poetica e il conseguente raffinato pittoricismo di questa favola nera, stava, mano a mano, insinuando (e non utilizzando) quella dell'horror fantastico, venato di romanticismo e follia. E non è solo l'omicidio conclusivo carico di sangue, preparato con soave e angelica determinazione da Juliet e Pauline e scandito da un ralenti silenzioso che ne dilata a dismisura i tempi, che depone a favore del mio sospetto; quello è, diciamo così, il momento topico, la rappresentazione finale che, in cinque minuti, forse meno, concentra e visualizza un sostrato filmico traboccante di riferimenti, allusioni, rimandi, strettamente imparentati al genere dell'orrore.
Sono tornata a casa e, da brava scolaretta, mi sono andata a vedere chi era questo. Jackson, Leone d'argento a Venezia nel settembre scorso. E sentite cosa è saltato fuori.
Copio dal catalogo veneziano: “Peter Jackson nasce nel 1961 in Nuova Zelanda, il giorno di Halloween. A otto anni si impadronisce della Super8 dei genitori e gira coi compagni di scuola il primo di una serie di film epici sulla Seconda Guerra Mondiale. La sua ambizione più grande allora era quella di diventare un tecnico degli effetti speciali e perciò i suoi 8mm sono zeppi di mostri e astronavi fatti in casa. Lasciata la scuola a 17 anni, diventa apprendista foto-incisore in un quotidiano e inizia a girare un film di vampiri. Nel 1983 smette la produzione, compera una cinepresa 16mm e gira con gli amici una commedia fantascientifica. Dopo tre anni, il film diventa il suo primo lungometraggio, Bad Taste, che viene presentato con successo al Marché di Cannes nel 1988. Una buona accoglienza ottiene anche Meet the Feeles, un film di pupazzi animati per adulti. Dopo aver inseguito l'idea per anni, Jackson riesce a girare uno zombie movie nel 1991, Brain Dead. Le principali influenze che afferma di aver ricevuto sono King Kong, le tecniche di animazione di Ray Harryhausen, il Monty Python's Flying Circus e i film di Buster Keaton”.
Che ne dite? Il 34enne Jackson, stilisticamente parlando, ha le idee ben chiare. Lui, l'horror ce l'ha nel sangue. E io, in compenso, non ho preso un granchio. E quindi, che il racconto si ispiri ad un fatto di cronaca avvenuto a Christchurch nel 1954, poco importa. Perché il linguaggio con cui Jackson maneggia sogni, incubi e imagerie di queste creature del cielo è inconfondibile. Ci sono pure i fantasmi, eroi-mostri di plastilina che prendono forma e, guidati dal pensiero delle protagoniste, eseguono quello che loro in teoria non potrebbero mai fare. Uccidere ad esempio lo psicologo per cui “l'omosessualità è un disordine che può colpire in ogni momento”.
E allora, arriviamo alla quadratura del cerchio e a "giustificare" - tanti -"piccoli indizi", potenzialmente pericolosi, disseminati dalle bimbe come bombe ad orologeria.
Dicevamo, l'omicidio finale, epilogo destinale di un'amicizia tendente ad annullare e ad annientare il resto del mondo, è solo il climax inevitabile, su cui Jackson si sofferma non certo lesinando sulla brutalità e l'efferatezza di un gesto che, a noi "umani", rimane inaccessibile e mostruoso. Il trucchetto del regista neozelandese è proprio quello di farcelo apparire del tutto incomprensibile, perché chiuso all'interno di una catena di necessità totalmente altra, ossia appartenente al mondo-finzione di plastilina delle due protagoniste.
Le ragazze l'hanno pensato nei dettagli l'omicidio, studiato a tavolino come vere assassine: la pietra nella borsetta, il ritrovo in casa, la soave festicciola, le torte, i pasticcini (che fanno tanto Agatha Christie), i dialoghi, premessa del sangue così prossimo, così stampato sui volti delle protagoniste. L'atmosfera sospesa, risultato del ralenti, che avvolge la silenziosa camminata nel bosco (altro tópos del repertorio "fantastico") sembra poi tratta da un racconto fantasy, da una favola degna dei fratelli Grimm, che trasuda di nordico. Verdi squillanti, visi arrossati dal freddo, piedi che avanzano tra la paura e la consapevolezza di stare per compiere l'irreparabile, nella solarità cupa di un giorno che non può che chiudersi col sangue. E la vertigine dell'estremo.
Tutto questo, preparato, nel corso del tempo, da un amicizia che diventa letteratura, e che, scardinando le barriere del reale, si sublima in arte. L'amore, vissuto appunto come espressione artistica assoluta, e assolutizzante, è una prospettiva sul mondo che porta le due ragazze a scegliersi un doppio, Charles e Deborah, e ad entrare in un'altra vita. Amore come rifugio da preservare a tutti i costi. Ed è proprio per legittimare il passaggio all'altra vita, simbolizzata dalla Quarta dimensione e dal Regno di Borovnia, che dapprima Juliet e Pauline scrivono il romanzo (contenente un alto tasso di omicidi), poi fondano una società segreta con regole, riti, Santi (i divi del grande schermo James Mason, Leslie Howard, e il tenore Mario Lanza; no invece a Orson Welles, “l'uomo più mostruoso che esista”, di cui però vanno a vedere Il terzo uomo).
Chi le ostacola - vedi lo psicologo da cui viene portata Pauline - viene immaginato soppresso dalla furia di una spada di un cavaliere medievale, impersonato da Pauline/Charles. Chi le divide, paradossalmente, non fa che unirle, contribuendo così a dar libero sfogo a quella creatività artistica su cui hanno basato ogni forma di comunicazione. Nella distanza, le immagini, ora divenute necessarie, esplodono, si animano, fino a diventare più reali del reale. È il ricovero di Juliet in clinica che, infatti, provoca il punto di non ritorno: la prima svolta significativa verso l'esclusivismo di un'amicizia che ha perso i connotati terreni e ne ha presi altri.
Loro, da questo momento in poi, non saranno più Pauline e Juliet, ma Charles e Deborah: con quest'ultimi nomi fanno l'amore, danno alla luce un bimbo. E, in nome di Borovnia, uccidono senza pietà.
In questo quotidiano trasfigurato, invaso da cavalieri dame e cortigiani, Jackson ci entra con foga visionaria, facendo uso di un montaggio aggressivo ad esasperando luci e i colori. La mdp deve dare il senso di una corsa in macchina senza freni, deve solcare prati e incanalarsi in tunnel dell'inconscio senza nessuna esitazione.
Negli attimi di lucidità c'è posto per la consapevolezza della diversità: “Noi siamo due pazze furiose”. Dice, senza tanta ironia, Pauline alla madre. Siamo negli anni '50 e di queste pazze, presunte lesbiche, il mondo vuole fare a meno.
Jackson non si premura di dare un giudizio politico. In questione non c'è l'emancipazione sessuale, o, se c'è, non è certo l'argomento portante.
Ciò che importa al regista neozelandese è la raffigurazione dell'atto estremo, la messa in scena di un'autarchia che sfiora il grottesco. La sensazione di onnipotenza che deriva dall'aver toccato il limite ultimo delle cose è paragonabile ad un universo senza vincoli e senza divieti. Nell'arte, cosi come capiscono istintivamente Juliet e Pauline, si trova tutto questo, questa possibilità illimitata. Si può creare e distruggere. Si può morire e, come gli zombie, resuscitare. Niente confini, niente barriere. L'immaginazione al potere. Sono anche rivoluzionarie, queste due assassine. E per giunta lesbiche.
Al cinema, di omosessualità al femminile, non se ne è mai parlato volentieri, così come per l'Aids fino a poco tempo fa. Addirittura, se necessario, si modificava il testo originale se, questo, come in Pomodori verdi fritti, mostrava tra le protagoniste qualcosa di più di una innocua amicizia. Il primo manifesto di cinema lesbico è invece il sopravvalutato Go Fish, un'ora di amore e chiacchiere, di terapie di gruppo (in cui gli uomini sono ovviamente off-limits) per alla fine combinare un fidanzamento dal corteggiamento complicatissimo. Niente sogni per le strade, come in Heavenly Creatures, solo l'urgenza di istituzionalizzare il mondo dei cosiddetti diversi. Tanta realtà, quindi, e poca immaginazione. Non che i due film siano paragonabili, anni luce li dividono, ma l'argomento quanto mai simile può giustificare il parallelo.
Un film forte? Fosse solo quello. Piuttosto conturbante. Non so voi, ma io sono uscita dal cinema senza sapere se le due quindicenni in questione fossero pazze o semplicemente persone "normali" (mi si consenta il termine), pronte a tutto pur di preservare il loro amore, la loro stessa vita.
Il tragico epilogo delle amanti va da sé. Tra letteratura in merito le conforta, pagine di amanti perduti le spinge. Il precipizio è lì davanti a loro. Non resta che saltare. |
Autore critica: | Elena Martelli |
Fonte critica: | Cineforum n. 343 |
Data critica:
| 4/1995
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Critica 3: | |
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Libro da cui e' stato tratto il film |
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