RETE CIVICA DEL COMUNE DI REGGIO EMILIA
Torna alla Home
Mappa del sito Cerca in Navig@RE 


Schindler's List - Schindler's List

Regia:Steven Spielberg
Vietato:No
Video:Cic Video
DVD:Universal
Genere:Drammatico
Tipologia:La guerra, La memoria del XX secolo, Razzismo e antirazzismo, Storia del cinema
Eta' consigliata:Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo "La lista di Schindler"di Thomas Keneally
Sceneggiatura:Steven Zaillian
Fotografia:Janusz Kaminski
Musiche:John Williams
Montaggio:Michael Kahn
Scenografia:Allan Starski
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Liam Neeson (Oskar Schindler), Caroline Goodall (Emilie Schindler), Ben Kingsley (Itzhak Stern), Uri Avrahami (Chaim Nowak), Henryk Bista (Mr. Lownstein), Tadeusz Bradecki (Def Foreman), Oliwia Dabrowska (Red Genia), Embeth Davidtz (Helen Hirsch), Ralph Fiennes (Amon Goeth), Michael Gordon (Mr. Nussbaum), Aldona Grochal (Mrs. Nussbaum), Mark Ivanir (Marcel Goldberg), Harry Nehring (Leo John), Beate Nowak (Rebecca Tannenbaum), Beata Paluch (Manci Rosner), Piotr Polk (Leo Rosner), Michael Schneider (Juda Dresner)
Produzione:Univerasal Pictures per la Amblin Entertainment
Distribuzione:Uip
Origine:Usa
Anno:1993
Durata:

195'

Trama:

Dal libro dell'australiano Thomas Keneally La lista. L'industriale tedesco Oskar Schindler, in affari coi nazisti, usa gli ebrei dapprima come forza-lavoro a buon mercato, un'occasione per arricchirsi. Gradatamente, pur continuando a sfruttare i suoi intrallazzi, diventa il loro salvatore, strappando più di 1100 persone dalla camera a gas.

Critica 1:È il film più ambizioso di S. Spielberg e il migliore: prodigo di emozioni forti, coinvolgente, ricco di tensione, sapiente nei passaggi dal documento al romanzesco, dai momenti epici a quelli psicologici. La partenza finale di Schindler è l'unica vera caduta del film, un cedimento alla drammaturgia hollywoodiana, alla sua retorica sentimentale. L. Neeson rende con grande efficacia le contraddizioni del personaggio. L'inglese R. Fiennes interpreta il paranoico comandante del campo Plaszow come l'avrebbe fatto Marlon Brando 40 anni fa. Memorabile B. Kingsley nella parte dell'ebreo polacco, contabile, suggeritore e un po' eminenza grigia di Schindler. Sette Oscar: film, regia, fotografia di Janusz Kaminski (in bianconero, tranne prologo ed epilogo), musica di John Williams, montaggio, scenografia e sceneggiatura. Quel rosso del cappottino della bambina che cerca di sfuggire al rastrellamento è una piccola invenzione poetica, un esempio del modo con cui gli effetti speciali possono diventare creativi.
Autore critica:
Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli
Data critica:



Critica 2:Oskar Schindler aveva trent'anni quando arrivò a Cracovia, nel 1939, deciso a far fortuna lavorando con i nazisti e speculando sulle nuove necessità della guerra. Veniva da una famiglia borghese, aveva studiato ingegneria ed era reduce da una serie di iniziative imprenditoriali fallimentari. L'iscrizione al partito nazista della sua città gli aveva portato vantaggi ma non particolare fortuna; forse perché, come gli fa dire Spielberg nel film, “prima c'era qualcosa che mancava, e che stabilisce la differenza fondamentale che passa tra successo e fallimento: la guerra”. Perciò, Oskar Schindler non era “incostituzionalmente" un benefattore, e probabilmente neppure un abile imprenditore (come dimostrano i suoi ripetuti fallimenti nel dopoguerra, in Argentina e in Germania, al punto che per gli ultimi vent'anni della sua vita fu mantenuto con la sua famiglia dagli ebrei della sua lista). Schindler era e rimane una figura misteriosa, nel libro di Thomas Keneally e nel film di Spielberg: un incrocio tra l'avventuriero e il bon vivant, donnaiolo, giocatore, bevitore, fumatore, capace, imprevedibilmente, di un gesto di assoluta (apparente) abnegazione, dettato da un miscuglio di fattori che comprende il paternalismo capitalistico (“Loro sono miei!”, esplode arrabbiato quando il primo dei suoi operai viene giustiziato perché considerato lavoratore inutile) e il gusto della scommessa, l'esatta valutazione degli esiti della guerra (il film non sottolinea che l’acquisto dei 1.100 ebrei a scapito della sua fortuna personale avvenne nel 1944, dopo lo sbarco degli alleati in Normandia, quando chiunque non fosse fanaticamente ammalato di ideologia sapeva che fine avrebbe fatto l'impero hitleriano) e l'affetto personale per delle facce e dei caratteri che con il tempo ha imparato a conoscere. L'ufficiale nazista con il quale va a barattare per un pugno di diamanti i 300 donne e bambini che per errore sono stati inviati a Auschwitz invece che a Brünnlitz gli dice “Non dovrebbe attaccarsi a dei nomi, sa”, individuando in una sola battuta l'istintivo romanticismo dell'approccio di Schindler alla tragedia dell'Olocausto. Almeno per quello che riguarda il film. Che, dal suo canto, gioca di più sull'esperienza complessiva che non su quella personale, mostrandoci una serie di fisionomie piuttosto indistinte, delle quali non conosciamo il passato e alle quali non riusciamo ad affezionarci individualmente. All'opposto di Schindler (che come unica esperienza complessiva ha quella del pogrom del ghetto di Cracovia, al quale assiste dall'alto della collina), noi non ci attacchiamo a dei nomi, ma all'esperienza disumanizzante di una massa, di un popolo.
In questo senso, una delle critiche mosse a SchindIer's List, che ci manda a casa sollevati sulla sorte dei 1.100 ebrei di Schindler ma non spende una parola sugli altri 6 milioni che sono stati massacrati, è piuttosto cieca e, tutto sommato, infondata. Perché, in primo luogo, noi "vediamo" quegli altri 6 milioni, li vediamo uno a uno giustiziati per caso nelle strade del ghetto o tra le baracche del campo di Plaszow; vediamo la cenere dei loro cadaveri bruciati che si alza a coprire le case e gli alberi di Cracovia come neve primaverile inaspettata; e soprattutto abbiamo uno scorcio di puro orrore in quel gruppo che scende piano ad Auschwitz lungo il passaggio che conduce dritto ai forni, mentre la macchina da presa inquadra la fila delle donne di Schindler appena scampate alla morte, e poi sale fino al fumo che esce dalla canna fumaria torreggiante. Poi, una critica del genere si basa sul presupposto che ci troviamo davanti a un film "realistico", un presupposto tanto sbagliato quanto suggerito dalla scelta di Spielberg di un insolito bianco e nero. L'autore ha motivato la scelta con un'affermazione fin troppo facile, cioè che le sue immagini, le sue percezioni del periodo possono essere soltanto in bianco e nero. Curioso per un regista che ha realizzato a colori 1941 Il colore viola e L'impero del sole, che, certo, rimandano tutti a ricordi cinematografici in Technicolor, ma che contemporaneamente offrivano a Spielberg un buon punto di partenza per "rischiare" l'Olocausto a colori: e questa avrebbe potuto essere la maggiore invenzione creativa di un film che è comunque esemplare, ma che per tutti quelli che sanno (o che ricordano) che Spielberg è un grande regista non aggiunge granché alla sua filmografia.
In realtà, con Schindler's List, Spielberg paga il pedaggio all'arte, convince Hollywood e buona parte della critica americana ed europea (quella più seriosa e letteraria) di essersi deciso a fare sul serio: dopo tanti miliardi, tanti parco giochi orridi e fantastici, dopo un film sbagliato (Hook) e un film molto bello e poco capito (L'impero del sole), l'eterno "ragazzo d'oro" di Hollywood affronta una storia tremenda, collettiva e irrisolta dalla coscienza occidentale, per affrancarsi dall'etichetta sminuente che gli è stata affibbiata. Ma Schindler's List non è più bello o più profondo di Incontri ravvicinati del terzo tipo, Lo squalo o L'impero del sole. Non ci solleva più dubbi, emozioni o inquietudini. Se mai, serve solo a tacitare i detrattori e a catturare a uno stile vivissimo e inventivo quel pubblico che normalmente si considera troppo engagé per avvicinarsi agli incubi di Spielberg. E serve probabilmente all'autore stesso per fare i conti con le proprie origini, per confrontarsi con un incubo concreto della storia. Qualcuno ha scritto che Schindler's List è il Gandhi degli anni '90; ma fortunatamente non ha nulla della solennità sentenziosa, della statica apatia e del conformismo narrativo e visivo di quel tipo di produzioni. Spielberg è riuscito in una scommessa che nel cinema hollywoodiano o para-hollywoodiano si è rivelata quasi sempre impossibile: si è avvicinato a un'epopca serissima senza cedere al didascalismo della narrazione e senza rinunciare alla propria originalità stilistica. Ancora una volta è riuscito ad affabulare, piuttosto che a illustrare.
Nella sua recensione su “Film Comment” David Thomson paragona il nostro primo impatto con Oskar Schindler con quello che si racconta ebbe Alexander Korda al suo arrivo a Hollywood all'inizio degli anni '30: “Korda arrivò a Hollywood da straniero e con pochissimo denaro. Il suo modus operandi? Scendi nei migliori alberghi, fatti vedere in giro con le donne più bel-le, intrattieni in grande stile, metti tutto sul conto, ma lascia mance principesche. Poi, aspetta le offerte”. E aggiunge: “Spielberg si è completamente identificato con il suo personaggio. Sentiamo che è commosso. E siccome Schindler ha catturato la sua immaginazione, Spielberg gli regala il film. Perché no? E la realtà storica del gran gesto di SchindIer che rende l'Olocausto accettabile per un film di grande richiamo. E questo è quello che vuole essere Schindler's List. Oskar è il sogno di ogni produttore, perché riesce a redimere la rappresentazione spettrale dell'esercizio del potere”.
Ma Schindler è anche la quintessenza del personaggio chiave di Spielberg, un adulto che continua a considerare la vita come gioco, disposto a mollare tutto per correre dietro a un'intuizione (come Richard Dreyfuss in Incontri ravvicinati), e che riesce a sopravvivere nelle situazioni disperate proprio applicando le regole, spesso ciniche, del gioco (come John Malkovich in L'impero del sole). Non è un idealista né un eroe, e le motivazioni e persino il momento esatto della sua "maturazione" restano misteriosi (anche se, tutto sommato, la storia successiva di Schindler, il fallimento delle sue imprese e del suo matrimonio fanno pensare più a una grande scommessa romantica che a una maturazione). La lunga sequenza della sua presentazione è un pezzo di cinema straordinario, tutto giocato sulla superficie degli oggetti (cravatte, camicie di seta, giacche, bottiglie pregiate, le banconote che appaiono come per un gioco di prestigio tra le dita di SchindIer) e tutto costruito su un equilibrio finissimo tra la curiosità (nostra, della macchina da presa e dei gerarchi nazisti) per lo sconosciuto elegante e misterioso (lo vediamo in viso solo quando si è ben assestato, con una lauta mancia, nel locale notturno), e l'acuto spirito di osservazione con cui Schindler, l'avventuriero, coglie i particolari che gli interessano. Né soggettiva né oggettiva, la macchina da presa oscilla tra lui e noi: scivola dietro le sue spalle per riuscire finalmente a inquadrarne il volto, poi si fissa, insieme a SchindIer, sulla ragazza che scatta le fotografie e sugli ufficiali che entrano nel locale, e finalmente rimanda l'immagine della sua tavolata attraverso gli occhi dell'ultimo gerarca. E il cameriere, che qualche momento prima aveva ammesso di ignorarne il nome questa volta risponde trionfante “Ma come, quello è Oskar SchindIer!”. Una sequenza che vale tutto il film, e che in realtà racchiude già tutto il senso del personaggio. E Spielberg ha l'intelligenza di non cercare a tutti i costi un approfondimento di SchindIer. Giocando sull'imponenza elegante e sul savoir faire enigmatico di Liam Neeson, tratteggia un carattere senza risolverne le ambiguità.
Altrettanto inspiegati, senza cedimenti all'autobiografia facile, restano gli altri due personaggi centrali del film: Itzhak Stern e Amon Goeth. Stern non accetta confidenze: in un'interpretazione magnifica di Ben Kingsley, tutta reticenze, cautela, suggerimenti impalpabili, forzature impercettibili, Stern è l'artefice sotterraneo della storia di SchindIer e, si ha l'impressione, l'unico che sappia dove la Storia sta andando. Dal lato opposto dello spettro interpretativo, Ralph Fiennes, sopra le righe e "malato" quanto il comandante di un campo di concentramento può essere, eppure con inaspettati cedimenti “umiani", nella sua simpatia per SchindIer e nella sua perversa ma genuina attrazione per Helen Hirsch. È tanto pazzo che non riusciamo a odiarlo fino in fondo, soprattutto perché Spielberg gli riserva tre grandi momenti di sceneggiatura: l'accenno del monologo di Shylock (nel sotterraneo con Helen Hirsch), l'esercizio del perdono come manifestazione del potere assoluto (immediatamente smentito con fredda crudeltà da Spielberg con la bellissima scena dell'assassinio del giovane sguattero), la sua impiccagione, con lo sgabello che non vuole saperne di andar giù.
Tre personaggi che, sostanzialmente, funzionano da filo conduttore, tasselli fondamentali per lo sviluppo della storia, ma che non sono mai il motore unico (tranne Schindler, nell'ultima parte del film) e che, soprattutto, non riassumono mai il punto di vista esclusivo della storia (tranne, in certi momenti, Stern, che però è parte integrante della comunità ebrea). Infatti, il vero punto di vista, confuso, interrogativo, disorientato e via via sempre più drammatico, è quello degli ebrei nel loro complesso: una scelta di prospettiva azzardata, per un film che in realtà racconta l'avventura di un preciso personaggio, e comunque avvalorata dalla tecnica con cui Spielberg costruisce le sequenze dominanti.
Come Incontri ravvicinati del terzo tipo era tutto costruito sulle esperienze parallele che portavano personaggi tra loro sconosciuti sulla scena del contatto con astronave aliena, così anche Schindler's List fruga, trova e convoglia fisionomie diverse prima nel ghetto di Cracovia, poi nel campo di Plaszow e infine nella fabbrica di Brümilitz. Alcune sequenze (a parte la prima della presentazione di Schindler) dominano il film. Quella dell'ultima entrata nel ghetto e della parallela "costruzione" e organizzazione della fabbrica di Schindler: fatta di scene brevissime, di piccoli montaggi alternati (la ricca famiglia ebrea che viene sbrigativamente incanalata con gli altri e va a occupare la sua nuova stanza squallida e, contemporaneamente, Schindler che prende possesso della loro vecchia casa), di discorsi spezzettati, è tessuta dall'instancabile Itzhak Stern e tenuta insieme dalla continuità della colonna musicale, 10 minuti durante i quali la vita cambia, la fabbrica di Schindler si assesta, Stern riesce a mettere al sicuro alcuni “lavoratori inutili" e noi cominciamo a riconoscerli. Poi, naturalmente, la sequenza di Auschwitz e, poco prima, quella della
compilazione della lista, introdotta impercettibilmente dal primo, riservato, cedimento all’amicizia di Itzhak Stern, quel “sarà meglio che beva ora” concesso a Schindler che gli sta parlando della sua prossima partenza. Non particolarmente drammatica, tutta spezzettata e irrigidita dalla fretta, la breve sequenza della lista riassume il significato e la casualità tragica di tutto quello che abbiamo visto fino a quel punto. “La lista è un bene assoluto”, dice Stern. “La lista è vita. Tutto intorno, ai suoi margini, è l'abisso”. Lui l'ha sempre saputo; e Spielberg ha seguito questa intuizione, giocando il pathos più minaccioso e oscuro, non tanto sui capricciosi tiri al bersaglio di Goeth, quanto su quelle file estenuanti, sui nomi compilati in primo piano dai tasti delle macchine per scrivere, sulle ammissioni o le esclusioni imprevedibili dalla “lista giusta" (perfino Goeth, a un certo punto, si arrabbia perché stanno per spedire il suo meccanico ad Auschwitz). La lista è l'ossessione e l'anima del film, anche stilisticamente e narrativamente; tutta la storia degli ebrei di Schindler si costruisce sulla sua frammentazione astratta e anagrafica.
Infine, aperta da un'alba grigia a quale echeggiano le parole di Goeth (“Oggi si fa la storia”), mentre Schindler fa la barba, i bambini si alzano e il rabbino dice le orazioni, la sequenza del pogrom. Goeth conclude il suo discorso (“per sei secoli c'è stata una Cracovia ebrea. Da stasera, quei sei secoli sono una diceria, non ci sono mai stati. Oggi si fa la storia”), Schindler, l'osservatore privilegiato, arriva a cavallo sulla collina che sovrasta il ghetto, e il pogrom comincia. 20 minuti rapidi, violenti, crudeli, dominati dalla morte, dalla casualità (Poldek Pfefferberg si salvò davvero raccontando ai nazisti che era stato incaricato di sgombrare le strade dalle valige abbandonate dai deportati), dai dilemmi della Storia (quel soldato che durante la carneficina suona il piano e i suoi due compagni che si chiedono “Bach? È Bach? No, Mozart!”) che rendono la ferocia ancora più inquietante. Al centro della sequenza, il tratto puramente spielberghiano della bambina con il cappottino rosso, che accentra su di sé l'attenzione di SchindIer, che noi continuiamo a seguire anche quando il protagonista non può più vederla (dentro casa e sotto il letto) e che ritroveremo molto più tardi in cima a un mucchio di cadaveri. Un tratto di colore incriminato: perché? che bisogno c'era?, si sono chiesti in molti; non è retorica? non toglie rigore al bianco e nero e tensione alla sequenza? Più che retorica, è cinema, e in particolare cinema di Spielberg, quello diverso dalla vita e dalla realtà, quello dove Richard Dreyfuss balla “Smoke Gets in Your Eyes” con Holly Hunter, che piange e non lo vede perché lui è un fantasma, e dove un bambino inglese prigioniero in un campo di concentramento continua a mettersi sull'attenti con le lacrime agli occhi tutte le volte che vede alzarsi in volo i piccoli aerei da guerra del sol levante. La bambina con il cappotto rosso è un segno, una percezione più acuta, una delle “libertà" che Spielberg si è preso in mezzo a tanto bianco e nero (insieme a quell'altra, imprevedibile e post-moderna, della processione finale degli ebrei di SchindIer sulla sua tomba), un'intuizione di come avrebbe potuto essere la realtà se quella candela all'inizio non fosse scolorata così in fretta, un sogno, forse, di come avrebbe potuto essere il film se non fosse stato in bianco e nero. Rimproverare a Spielberg un'immagine come questa significherebbe, in fondo, rimproverargli tutto il suo cinema precedente. Rimproverargli poi di aver riservato la commozione più percettibile proprio alla figura di una bambina significa dimenticare che quasi tutto il suo lavoro è stato "guidato" dai bambini, dal Baby invisibile di Sugarland Express ai ragazzini petulanti e antipatici di Jurassic Park.
La bambina con il cappottino rosso non è l'unica. Tutto il film è percorso da immagini infantili: quello inquietante (la prima figura che ci balza agli occhi dopo la presentazione di SchindIer) che marcia tutto impettito e infagottato davanti ai soldati nazisti e quelli che lanciano sassi e fango agli ebrei avviati al ghetto; il gruppo di bambini che impariamo a identificare durante le perquisizioni e le deportazioni, che sopravvivono nascondendosi nei buchi più remoti e luridi e quelli che stanno per essere rinchiusi per sempre ad Auschwitz (quelli della lista) e che SchindIer salva con un impagabile colpo di genio. E soprattutto ai bambini è riservata l'unica scena nella quale Spielber spinge davvero, e in maniera magistrale, sul pedale della commozione: sul piazzale del campo di Plaszow, quando Goeth deve “fare posto” e raduna uomini e donne per il controllo della loro efficienza, proprio quando la selezione è finita e le donne si sentono in salvo, un nuovo disco sul grammofono e si aprono le porte di due baracche, tutti i bambini escono cantando e tenendosi per mano e salgono felici sui camion che li portano ad Auschwitz. È l'unica scena dove il controllo contenuto di Spielberg salta, dove la sua adesione emotiva è totale, dove racconta con un abbandono assoluto al proprio istinto cinematografico. L'unica scena dove si piange, come si piangeva, inevitabilmente, al volo delle biciclette in E.T. e all'ultimo saluto di Christian Bale ai kamikaze che si alzavano in volo verso il sole e verso la morte.
Autore critica:Emanuela Martini
Fonte critica:Cineforum n. 333
Data critica:

4/1994

Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Lista di Schindler (La)
Autore libro:Keneally Thomas

A cura di: Redazione Internet
Valid HTML 4.01! Valid CSS! Level A conformance icon, W3C-WAI Web Content Accessibility Guidelines 1.0 data ultima modifica: 06/19/2019
Il simbolo Sito esterno al web comunale indica che il link è esterno al web comunale