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Daniel - Book of Daniel (The)

Regia:Sidney Lumet
Vietato:No
Video:Ricordi Video, Bmg Video (Parade)
DVD:
Genere:Drammatico
Tipologia:Diritti umani - Pena di morte, La memoria del XX secolo, Letteratura americana - 900
Eta' consigliata:Scuole medie superiori
Soggetto:Tratto dal romanzo "Il libro di Daniele" Edgar Lawrence Doctorow
Sceneggiatura:Edgar Lawrence Doctorow,
Fotografia:Andrzej Bartkowiak
Musiche:Bob James, Paul Robeson
Montaggio:Peter C. Frank
Scenografia:Bob Drumheller
Costumi:
Effetti:
Interpreti:Lindsay Crouse (Rochelle Isaacson), Jena Greco (Susan da bambina), Timothy Hutton (Daniel), Ilan M. Mitchell Smith (Daniel da bambino), Mandy Patinkin (Paul Isaacson), Amanda Plummer (Susan)
Produzione:Burt Harris per Wordl Film Services, John Heyman Production
Distribuzione:Non reperibile in pellicola
Origine:Usa
Anno:1983
Durata:

129'

Trama:

La vicenda è ispirata al processo Rosemberg, nel quale due coniugi ebrei-americani, Julius ed Ethel, furono condannati alla sedia elettrica, per aver trasmesso dei segreti atomici ai Russi. L'esecuzione avvenne nel carcere di Sing Sing il 19 giugno 1953. La colpevolezza dei Rosemberg non fu mai provata. La follia maccartista del tempo esigeva dei capri espiatori. Fu inutile ogni appello alla clemenza di alte personalità, perfino del Papa, Pio XII, che per ben due volte domandò inutilmente la grazia. I nomi dei Rosemberg nel film sono cambiati in Rochelle e Paul Isaacson. La storia è vista in un flash-back quasi continuo attraverso Daniel, figlio dei due condannati, il quale, dopo il tentativo di suicidio della sorella Susan, va alla ricerca della verità riguardo ai suoi genitori e alla validità del processo che li ha condannati alla sedia elettrica. La vicenda appare semplice nella sua linearità e invece nel film è molto complicata, perché il regista si è ispirato al denso romanzo di E.L. Doctorow: "Il libro di Daniel", dove lo scrittore, prendendo lo spunto dal processo Rosemberg, ha presentato tutte le vicende piuttosto complesse della società americana dagli anni trenta, quando Paul e Rochelle erano studenti, agli anni Sessanta, quando Daniel ricerca un suo impegno sociale, e lo trova nella contestazione pacifista e antiatomica, nella quale impegnerà anche il figlioletto. Il film conclude con un messaggio di pace di fronte al grande mistero della morte che unisce tutti in una sorte comune e dinanzi alla volontà di folle immense che rifiutano ogni forma di guerra e di violenza.

Critica 1:Fa una certa sensazione vedersi arrivare dall'America in pieno 1983 (un trent'anni dopo, come vedremo) un film quale Daniel, assistere più o meno impotenti al suo coraggioso tentativo di patetica coniugazione con il pubblico delle grandi sale dominato da altri ritorni (quello del Jedi ma anche quello di Sean Connery as James Bond), leggere nuovamente notizie che parlano di difficoltà produttive e distributive connesse non all'esito dei prodotto ma alle caratteristiche della materia trattata e alle regole adottate per il racconto. Pare cioè di sentirsi riproiettati un trent'anni all'indietro, anche se oggi le cose si svolgono - ci mancherebbe altro! - con ben più levigata eleganza.
Sono trascorsi infatti trent'anni da quel 19 giugno 1953 che vide i coniugi Ethel e Julius Rosenberg salire sulla sedia elettrica dopo oltre due anni di agonia nel braccio della morte di Sing-Sing, preceduti da un altro anno di detenzione e da un processo della durata di sole tre settimane sul quale però si appuntò l'attenzione dei mondo intero, mobilitato in modo globale per un verso o per l'altro. Non erano infatti soltanto in causa due piccoli ebrei newyorkesi “democratici” (líberai, radical o “comunisti” che fossero), e nemmeno - se del caso - due piccoli ingenui informatori di una potenza straniera, ma l'essenza stessa dei due blocchi schierati in stato di guerra non dichiarata (l'avremmo chiamata “guerra fredda”), le aspirazioni al pacifismo e all'internazionalismo contrapposte agli spettri della guerra nucleare e dell'imperialismo, la difesa della coscienza individuale, della serenità quotidiana e della possibilità di “fare politica” di fronte all'egoismo, al sospetto, alla prevaricazione e - non ultima - alla ragion di Stato. L'eco di quel processo, di quella condanna, di quell'agonia e di quell'esecuzione (in ogni caso evitabile, se non avesse dovuto suonare come “esemplare”) non si spense tanto facilmente e, tra una pausa e l'altra della memoria, ha continuato a percorrere questo trentennio, non tanto mutando le posizioni di innocentisti e di colpevolisti (o viceversa) quanto rappresentando per entrambi un monito non mai trascurabile. Che oggi, poi, una campagna iniziata nel 1975 dai figli dei Rosenberg, Michael e Robert Meerepol, per costringere il governo americano e l'FBI a rendere pubblici i documenti dell'indagine abbia ottenuto lo scopo ma questo scopo si sia quindi tradotto in un libro (The Rosenberg File di Ronald Radosh e Joyce Milton) il quale “indebolisce in maniera pressochè definitiva la tesi degli innocentisti” (Romano Giachetti - cui dobbiamo molte informazioni - su la Repubblica dei 6 settembre 1983) meno sul piano della battaglia legale, appare un fatto di relativa importanza sul piano politico e umano. E anche sul piano cinematografico, oggi, e sul piano letterario, prima.
Sin dal 1971, quando pubblicò The Book of Daniel, il futuro autore di bestseller (Ragtime e Il lago delle strolaghe) Edgar L. Doctorow sembrava infatti essersi ispirato più che a libri innocentisti “vecchia maniera” (dei tipo di lnvitation to an Inquest, 1965, ove gli autori Walter e Miriam Schneir muovono da una più alta e intima convinzione di non colpevolezza, ancor oggi - di fronte a certi “fatti” - ribadita) a una propria volontà di analisi dei rapporti tra pubblico e privato, tra ideologia e politica spicciola, tra generazione precedente e generazione successiva (quindi tra “padri” e “figli”, con tanto di fardelli da trasmettere e da sostenere o da rigettare) che si cala nel tempo specifico e precipuo pur assumendo portate e facendosi carico di valori ben più universali (è il procedimento, del resto, caro a Doctorow, come in passato a un altro scrittore di ri-creazione e di intervento, John Dos Passos: raccogliere minuziosamente i frammenti della cronaca, persino i più minuti ritagli di giornale, e trasformare questa ossessiva registrazione di eventi in personalissimo “romanzo” a grande respiro etico e sociale).
Questa volontà di rifarsi a un avvenimento storicamente eccezionale per raccontarlo in termini recepibili da chiunque (per coinvolgere chiunque e per far a chiunque intendere che la “cosa” potrebbe capitare anche a lui) e di parlare dei passato con la mediazione di una serie di successivi passati prossimi e la dotta citazione di una serie di passati ancor più remoti, il tutto per alludere al presente e magari al futuro ma senza mai sbiianciarsi apertamente più di tanto, è ciò che informa nel 1983, appunto coi film Daníel, il nuovo tentativo doctorowiano di ripresa della materia o, meglio, di ripresa dei conti con la storia.
Non si tratta infatti per lo scrittore di far semplicemente trasferire in film un proprio romanzo (un po' come è successo con la controversa prova di Ragtime a opera di Milos Forman) o di rivedere, alla luce di vere o presunte “rivelazioni”, le proprie posizioni nei confronti dell'avvenimento che è all'origine dei romanzo stesso. Il decennio intercorso tra il periodo di stesura dei libro (1970) e il periodo di definitivo approntamento dei film (1982) è stato intanto un decennio trascorso alla ricerca della possibilità materiale di realizzare il progetto cinematografico, tra ostacoli di vario genere e ostilità più o meno palesi, tra rifiuti espliciti e dilazioni striscianti, e ciò nonostante lo stretto rapporto stabilitosi sin dall'inizio dell'impresa tra lo scrittore (via via più famoso anche se talora un po' scomodo) e un regista quale Sidney Lumet (di sicura tenuta professionale e commerciale anche se talora un po' sospetto). Ma il decennio tra i primi anni '70 e i primi anni '80 è anche e soprattutto un decennio che vede profondi mutamenti nel teatro dell'azione: gli Stati Uniti, la loro gestione, la loro politica, l'opinione pubblica, il comportamento delle masse, le reazioni delle élite. Corrono differenze non da poco tra la “contestazione” aperta dei sistema (secondo un modello in gran parte destinato all'esportazione) e la blanda opposizione alla attuale reggenza reaganiana, tra il pacifico ma fermo rifiuto della guerra dei Vietnam (e relative incidenze sull'esito della stessa) e l'ondeggiante pacifismo delle manifestazioni antinucleari odierne, tra la proclamata libertà di dissentire (non priva di rischi, ma mai respinta o soffocata in se stessa) e il motto che oggi torna a diffondersi nel paese, come ai tempi della guerra fredda: “Dissentire significa tradire”. Il merito di Doctorow (che si è fatto apertamente portavoce di quest'ultima amara constatazione) e di Lumet sta proprio nell'aver capito che cosa era cambiato, nell'aver compiuto ogni sforzo di comprensione e di trasmissione al riguardo, nell'essersi calati anima e corpo (fervore e lucidità) nel film che sono riusciti finalmente a condurre in porto.
Due considerazioni vanno aggiunte sul piano strettamente cinematografico (ma è poi soltanto tale?). La prima riguarda Doctorow, che può a ragione essere ritenuto coautore dei film (ha agevolato la produzione intervenendo finanziariamente anche di persona, non si è limitato alla sceneggiatura ma ha collaborato sino alla fase di montaggio, ha rinunciato a una parte degli utili, ha contribuito alla promozione esponendosi direttamente e senza eccessive cautele): megalomania di autore “milionario” (se non altro in termini di copie vendute), diffidenza nei confronti dei cinema (che non gli ha sempre reso buoni servizi, specie nel caso di Welcome to Hard Times) o semplicemente consapevolezza che “i tempi sono duri” e occorre riunire ogni sforzo liberal-radical per ottenere qualcosa? La seconda riguarda la relativa “povertà” dalla quale Lumet ha dovuto districarsi e gli “accorgimenti” ai quali è dovuto ricorrere: troupe disposta a risparmiare sul piano di lavorazione e sul primo preventivo, attori importanti (anzitutto Timothy Hutton) a paga ridotta, finanziamenti iniziali Insufficienti, finanziamenti aggiuntivi raccolti “dove e come si poteva, e da varie fonti”, sottoscrizione in proprio della garanzia di completamento, per terminare con la minaccia della Paramount - poi rientrata - di non distribuire il film in Europa, forse perché di argomento troppo locale. Nell'uno e nell'altro caso sembra quasi di essere ritornati ai “giorni eroici” dei cinema europeo: che la cosa accada oggi in America è motivo di qualche riflessione.
Lo è ancora di più se si pensa che Daniel è tutto sommato un film “in positivo”, che potrebbe adeguatamente recare come sottotitolo “Lettere dalla casa della vita” - quella che appunto il protagonista impara a vivere incitandoci a imitarlo - in contrapposizione al titolo dell'unico libro a tutt'oggi fondamentale sul “caso” Rosenberg: Death House Letters. Apparso a caldo nel 1953, questo memorabile volume che raccoglie, assieme a documenti processuali e a testi di innumerevoli appelli, le lettere dal carcere tra Edith e Mius e dei due ai figli, uscì anche in Italia a poche settimane di distanza (Lettere dalla case della morte, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 1953, prefazione di Gianfranco Corsini e riproduzione di un quadro di Corrado Cagli - Robert e Michael Rosenberg nel carcere di Sing-Sing - in copertina) assumendo un ruolo politico ben preciso ma connotandosi anche come esempio di libro “in negativo”, commovente e consolatorio. Non poteva essere diversamente; allora la “guerra fredda” c'era davvero. Oggi siamo ancora in tempo a fermarla, meno ferrati in ideologia ma un po' più scaltriti su come vanno le cose del mondo, come Doctorow e Lumet ci insegnano.
A somiglianza de Il libro di Daniel, ma senza ricalcarlo pedissequamente o imitarne il linguaggio, viceversa ricreandone la composita struttura e ideando un nuovo linguaggio altrettanto singolare, Daniel procede per blocchi narrativi che intercalano agilmente la dimensione del presente e le varie dimensioni dei passato muovendo più che da un filo logico da semplici associazioni d'idee o da richiami figurativi, ora con uno stacco netto che al momento può anche sconcertare per la ricerca di identità cui si è costretti, ora con una dissolvenza per analogia di immagine che consente immediatamente di cogliere la trasposizione temporale eppure lascia ugualmente per un attimo incerti nell' identificazione. Insomma, Daniel, film che non vuole distrarre dall'oggetto della propria materia anche se talora sembra perfino negarne l'incidenza assoluta, è film che non consente distrazioni nello spettatore e che lo inchioda al tavolo di una ricerca esistenziale per suggerirgli altre ricerche possibili, non nominate, sia sui piano dei privato sia sul piano dei politico.
Lumet - in ciò splendidamente servito dal direttore della fotografia Andrzej Bartkoviak - non si limita però ad assemblare i suoi blocchi con attente operazioni di montaggio e tramite il ritmo ben calibrato che ne consegue: interviene anche sulle tonalità delle riprese, sulle alternanze interni/esterni e sulla composizione figurativa del décor, adottando idealmente due colori, un seppia dorato e sfumato per ciò che attiene alla memoria e un azzurrastro gelido e nitido per ciò che riguarda l'attualità che deve ancora mutarsi in memoria, anzi fatica a trasmutarvisi.
I due “colori” non sono ottenuti con piatti e banali artifici di viraggio o di sola illuminazione, ma risultano esattamente compenetrati all'unica realtà che si riprende. Il gioco è senz'altro agevolato dalle tinte degli abiti, delle scene, dei trucco, delle luci, persino delle movenze, ma non si limita a questo. Sul versante della memoria l'inquadratura tende a escludere i cieli, la stessa aria, a rendere “intimistiche” persino le scene di massa (che paiono girate in studio) e a simulare un senso di “interno” anche quando il set è all'aperto. Sul versante dell'attualità la messa in scena privilegia l'esterno non solo ambientandovi situazioni “private” o ricorrendo a riprese di cronaca filmata (vere o ricostruite che siano) ma soprattutto rendendo aereo, nudo, ampio e planante ciò che in realtà avviene tra quattro mura. L'azzurro e il seppia paiono scaturire miracolosamente da soli, come uniche tonalità rispettivamente possibili, l'uno come riflesso di un mondo ove esiste il calore delle idee e dei sentimenti (sin troppo, al punto di coccolarvisi dentro e di nascondersi le inevitabili insidie), l'altro come specchio di un mondo ove domina la freddezza dei ragionamenti e dei comportamenti (sin troppo, al punto di smarrirvisi o di perdersi per sempre). Azzurro e seppia si incontrano soltanto - fondendosi, opponendosi, contrastando per affermarsi nell'unica scena in cui passato e presente si coniugano, quella della visita dei bambini al carcere dei genitori, quella in cui il trauma dei figli sembra prendere fisicamente corpo e in cui il messaggio dei genitori sembra faticosamente trasmettersi, se non altro a mo' di consegna morale. à anche l'unica scena - fatto singolare per un regista che viene dal palcoscenico e che in passato non è sempre riuscito a farlo dimenticare - a impianto squisitamente teatrale, con le sue “entrate”, le sue “uscite”, gli sguardi in soggettiva o rivolti sullo spettatore, lo spazio amministrato come se non esistesse la “quarta parete”.
Oltre ai blocchi e ai colori, un terzo tipo di impulso è destinato al fruitore, lo frusta improvvisamente a intervalli quasi regolari, coi fine di distoglierlo apparentemente dal climax specifico che si è venuto a creare nello “spettacolo” e in realtà di richiamarlo più prepotentemente a esso. In veste di voce recitante, inquadrato in primo piano e con lo sguardo fisso sulla platea, Daniel compie una sorta di riepilogo a puntate delle varie forme di morte (e di sofferenza) che l'uomo nel corso della sua storia si è ingegnato ad applicare ai propri simili, dalla fustigazione all'impiccagione, detti con pacata indignazione, esposti con dotta competenza, come lasciati cadere sull'ascoltatore (che a questo punto non è più spettatore se non di se stesso in quanto appartenente alla razza umana) e subito rimossi, voltando pagina, per tornare allo specifico della vicenda (magari con qualche consapevolezza in più).
Isolare da questa struttura, frammentata ma assolutamente organica, dei singoli momenti di maggior tenuta, di più alta riuscita o di più intensa commozione, potrebbe sembrare un controsenso, ma non ci si può astenere dal segnalare, oltre all'incontro in carcere coi genitori (tutto impregnato di un rituale macabro che ha il suo clou nella raccolta di insetti mostrata da Paul ai figli ma muove dall'ostinata richiesta di Daniel di essere perquisito all'ingresso in prigione), buona parte delle scene che vedono Daniel e Susan bambini (l'aggressione dei fascisti al pullman che li riporta a casa dal concerto di Paul Robeson, la brutale irruzione dei poliziotti nel piccolo appartamento letteraìmente saccheggiato, la fuga dall'asilo verso la loro abitazione ormai abbandonata, il passaggio dei loro corpicini di mano in mano sopra le teste della folla assembrata nel comizio sino a farli raggiungere il palco) e le due distinte, reiterate visualizzazioni dell'esecuzione di Paul e Rochelle, esposte secondo il trattato asettico dei perfetto carnefice e punteggiate di dettagli tecnici iperrealistici. È un versante sul quale l'abilità e la meticolosità di Lumet trovano modo di esercitarsi professionalmente senza mai trascurare una sorta di pudica emozione e sempre rivisitando in modo personale gli stilemi e le situazioni di un cinema ormai rétro. Ma dove Lumet, nell'insieme e non nel dettaglio, sembra superare se stesso è proprio sull'altro versante, quello che appare “di attualità” e che invece è calato nel cinema dei primi anni '60, a sua volta rétro anche se non palesemente: questo passato prossimo, che sta avviandosi a diventare remoto sotto i nostri stessi occhi, è ripreso e ricostruito con uno scrupolo filologico che, non appena avvertito, risulta ancor più vistoso. Forse è un cinema che Lumet avrebbe voluto fare e che si è impedito o gli è stato impedito; forse è un modo garbato e malinconico per ricordarsi e ricordare a noi che il tempo che crediamo tuttora di vivere è già vecchio; forse è soltanto la maestria di un autore (vogliamo osare questo termine?) che attende ancora di essere scoperto, studiato e apprezzato in quanto tale e non semplicemente come regista di una serie di film (per l'esattezza 31 in 26 anni di attività) ciascuno dei quali preso a se stante, approvato senza grandi sforzi di collegamento o respinto senza possibilità di appello. Daniel, che l'America ha sommariamente rifiutato e che l'Europa sta facendo proprio, potrebbe essere la sua chanche al riguardo.
Autore critica:Lorenzo Pellizzari
Fonte criticaCineforum n. 23
Data critica:

1-2/1984

Critica 2:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Critica 3:
Autore critica:
Fonte critica:
Data critica:



Libro da cui e' stato tratto il film
Titolo libro:Libro di Daniel (Il)
Autore libro:Doctorow Edgar Lawrence

A cura di: Redazione Internet
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